
Ma fin dove vogliono arrivare?
12 Aprile 2017
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14 Aprile 2017Oggi si è assai diffuso, non solo nella cultura profana, ma anche in quella cattolica, un certo qual relativismo religioso, per cui ciascuna religione viene considerata degna di rispetto (almeno a parole), ma nessuna degna di esser presa interamente sul serio: come se fosse politicamente corretto fare mostra di possedere tolleranza e ampie vedute, ma anche di essere decisamente scettici quanto alla verità della fede, di qualunque fede. Tutte sullo stesso piano, insomma; tutte da considerare come uno sforzo dello spirito umano di cercare delle risposte agli interrogativi più alti, cui l’uomo non sa rispondere; ma nessuna vera, per un malinteso spirito democratico che bollerebbe come presuntuosa e intollerante quella, fra di esse, che pretendesse di rappresentare la verità, relegando così le altre, automaticamente, nella sfera delle credenze illusorie. In base a questa posizione, tutte le religioni avrebbero qualcosa di ammirevole, tutte avrebbero qualche frammento o scintilla di verità (non la minuscola), ma nessuna potrebbe ambire a essere riguardata come qualcosa di più di una costruzione puramente umana, nessuna avrebbe realmente in se stessa l’impronta di una origine divina. Logico: la cultura moderna non crede più a Dio e alla dimensione soprannaturale; e questa incredulità si è introdotta anche nell’ambito della cristianità e nell’edificio della Chiesa cattolica, lo ha compenetrato con un tocco sottile, ma inconfondibile, il quale, sebbene non osi mostrarsi apertamente, inquina molto di ciò che è stato detto e fatto negli ultimi cinquanta anni, anche da parte di eminenti teologi e da membri del clero cattolico.
In particolare, una errata e temeraria interpretazione di alcuni importanti documenti conciliari, come la costituzione pastorale Gaudium et spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, e delle due dichiarazioni conciliari, Nostra aetate, sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, e Dignitats humane, sulla libertà religiosa, hanno spinto taluni, anzi, ormai parecchi, a pensare che la Chiesa cattolica abbia accettato il principio della relatività del Vero, e, quindi, che abbia accettato di porsi, accanto alle altre religioni, come una delle tante; e si spingono fino al punto di ritenere indelicato, inopportuno e imprudente proclamare apertis verbis che non c’è salvezza al di fuori di Cristo, benché le parole del divino Maestro, così come riferite esplicitamente dai quattro Vangeli, siano assolutamente inequivocabili: Io sono la Via, la Verità e la Vita; e: Nessuno viene al Padre, se non per mezzo di Me; e ancora: Chi crederà al Vangelo e verrà battezzato, sarà salvo; ma chi non crederà, sarà condannato. Segno eloquente di come molti cattolici dei nostri giorni, o sedicenti tali, preferiscono piacere agli uomini piuttosto che a Dio: perché l’atteggiamento pluralista e relativista, attivamente promosso e proclamato da certi teologi e da certi sacerdoti, e perfino da certi vescovi e cardinali, è fatto per riscuotere l’approvazione e per ricevere l’applauso dei non cristiani, compresi quanti odiano la Chiesa e vorrebbero vedere distrutta l’opera sua e la sua stessa ragione di esistere, vale a dire la conversione delle anime. Quindi, ricevere l’applauso di costoro lusinga la vanità di certuni, li fa sentire popolari, li illude di essere dei cristiani "moderni", "lungimiranti", "maturi", e li acceca, fino al punto di far smarrire loro il concetto, intuitivo, che un cristiano che si pone sul piano del relativo, è automaticamente un cristiano infedele, un falso cristiano, un impostore e un mentitore, anche nei confronti di se stesso. Infatti, se è in buona fede, si inganna deliberatamente; se non lo è, allora si comporta come Giuda Iscariota, il quale, non pago d’aver tradito Gesù, e di aver già pattuito il prezzo del suo tradimento con i sacerdoti del Sinedrio, a Gesù che annunciava il tradimento imminente di uno dei suoi discepoli, ebbe la sfrontatezza di chiedergli, con aria di finta innocenza: Sono forse io, Signore?
Una conseguenza del concetto, assolutamente erroneo, che tutte le religioni hanno qualcosa di vero, e che tutte meritano, perciò stesso, il medesimo rispetto e la medesima considerazione, è che bisogna fare finta di non vedere quel che di malvagio, di diabolico addirittura, vi è in alcune di esse. E tuttavia, secondo quei tali, non si dovrebbe parlare di queste cose, perché non sarebbe elegante, non sarebbe rispettoso: bisogna fare finta che vada tutto bene, e che tutte le religioni, più o meno, predichino il bene e l’amore, e spingano gli uomini a mettere a frutto la parte migliore di se stessi. Ora, chiunque abbia studiato un poco di storia della religioni, ma, più ancora, chiunque abbia osservato da vicino, nella realtà concreta, ciò che le religioni non cristiane insegnano ai loro seguaci, sa che vi sono realmente, sia nelle loro dottrine, che nella pratica, delle cose che non soltanto sono palesemente sbagliate e inaccettabili, ma dannose, anzi, intrinsecamente malvagie; cose che non vi sono nel cattolicesimo, ma, tutt’al più, nel comportamento incoerente di alcuni fedeli, i quali tradiscono il Vangelo, pur dicendo di credervi e di rispettarlo pienamente. Per esempio, chi abbia frequentato un missionario ricco di anni e di esperienza, e magari non guastato da certe idee moderniste che serpeggiano, come si è detto, nella Chiesa dopo il Concilio, il quale abbia vissuto molti anni presso certi popoli che vivono lontano dall’Europa, e gli abbia domandato se ha mai intuito, o avuto sentore, della presenza del Male, egli, molto probabilmente, resterà un poco pensoso, come guardando qualcosa che non è visibile, immerso nei ricordi; poi sposterà lo sguardo su di voi e vi dirà: Non intuito, ma visto: ho visto regioni e villaggi dove il diavolo cammina ancora su piedi umani. Perché molti popoli vivono, e ancor più vivevano, nella morsa terrorizzante delle false religioni i cui sacerdoti, gli stregoni, si servono delle arti diaboliche e possiedono realmente, in certi casi, dei poteri preternaturali, grazie ai quali servono le forze del Male e praticano riti che prevedono anche il sacrificio umano. Ebbene: anche di tali "religioni" bisognerà dire, per rispetto del politicamente corretto, che contengono una qualche scintilla, un qualche frammento della verità divina? Se si accetta la premessa del relativismo e se si vuol essere coerenti, sì. Ecco dove portano certe premesse sbagliate e a quale grado di negazione del buon senso conduce la cultura buonista e modernista.
Vi sono ancora popolazioni che adorano il diavolo o che adorano, e allo stesso tempo temono, delle divinità malvagie, assetate di sacrifici umani, come quelle degli antichi aztechi, i quali conducevano guerre incessanti contro i popoli vicini per procurarsi corpi umani da sacrificare, estraendone il cuore ancor palpitante; e ve n’erano molte di più in passato, al punto che, in certe regioni della terra, l’assassinio e il cannibalismo rituale erano la regola nella vita sociale e, si fa per dire, religiosa, prima che arrivassero i missionari cristiani a dissipare le tenebre e l’orrore di simili culti e di simili pratiche. Certe cose bisogna averle viste, vi direbbe quel tale missionario, altrimenti, forse, non ci si crederebbe.
Presso il popolo dei khasi, nella regione dell’Assam (all’estremità nord-orientale dell’India, in una zona particolarmente isolata e selvaggia ai piedi dell’Himalaya), vigeva, e forse vige ancora — perché, ogni tanto, i media lasciano trapelare la notizia di qualche morte misteriosa, attribuita a sacrifici umani, in diverse zone del subcontinente indiano — il culto del Grande Serpente, chiamato U Thlen. Si tratta di un culto per certi versi ancora misterioso, ma quel che si sa di certo, è che esso contemplava l’assassinio periodico di alcune vittime, scelte a caso, ma secondo un rituale preciso, che prevedeva solo l’impiego di ami bianche fatte di legno, e che doveva avvenire solo all’interno di quella popolazione (per cui i bianchi, ad esempio, ne erano esenti), quale offerta allo spirito del Grande Serpente, per averne, in cambio, la protezione e l’assistenza. Le persone che decidevano di praticare tale culto allevavano in casa dei piccoli serpenti e poi offrivano il sangue delle vittime ad uno di essi, che, per l’occasione, si gonfiava e assumeva in sé lo spirito di U Thlen, il Grande Serpente originario, di cui parlano le leggende tribali.
Così parla del culto diabolico di U Thlen il missionario salesiano Luigi Mathias nel suo libro Quarant’anni in India (Torino, Elle Di Ci, 1965, vol. 1, In Assam, 1921-1935, pp. 180-183):
Mons. Becker, nella sua opera magistrale "Sulle sponde del Brahmaputra" ha un lungo capitolo su questi cultori del serpente U Thlen.
"È difficile — egli scrive — saper quanta parte ci abbia la leggenda, quanta la fantasia popolare e quanta la realtà. Ma è un fatto innegabile che esiste una casta di questi adoratori o servitori del serpente conosciuto sotto il none di U Thlen. Non è raro il caso delle persone che scompaiono senza lasciar alcuna traccia. I Khai hanno un gran terrore dei "nonsgshohnoh", come sono chiamati coloro che vanno alla caccia delle vittime per offrirne il sangue all’U Thlen. Di notte nessun Khasi si arrischia di uscire di casa da solo. Vanno a gruppi e cercano di fare gran chiasso per allontanare eventuali "nonsgshohnoh". Hanno cura di portare con sé qualche grosso coltello o falcetta per difendersi se attaccati".
Lo stesso Mons. Becker ricorda come questi assassini tentassero una notte di uccidere il custode della residenza missionaria di Laitkynsew nell’assenza del missionario. Altre volte avevamo tentato d’impadronirsi di qualche ragazzo dei nostri orfanotrofi. Curiosa la leggenda, associata a tale culto. Nei tempi antichi — così la leggenda — viveva nei pressi di Cherrapunjee non lontano dalla cascata di Noh ka Likai, un gigantesco serpente per nome U Thlen. Questo stava nascosto nella caverna di Pamdalai e menava gran strage tra gli uomini e gli animali. Per portarsi al mercato la gente doveva passare vicino alla tana dell’U Thlen e circa metà veniva regolarmente sbranata dal terribile serpentaccio.
Stanchi alla fine per tante stragi i Khasi si riunirono con gli abitanti della pianura sottostante e fecero un grande "durhar" (concilio) per trovare qualche mezzo di liberazione da quel mostro. Le cose andavano per le lunghe quando un Khasi di grande coraggio si offrì lui a farla finita con l’U Thlen. Suidnoh, tale era il suo nome, prese a visitare la tana del serpe taccio portando gran copia di capre, maiali e buoi per darli in pasto all’U Thlen. Avendo egli continuato a far ciò per lungo tempo, il serpente prese a volergli bene e a riporre in lui la massima fiducia- Era quello che Suidnoh desiderava. Un bel giorno si portò come al solito sull’orlo della caverna, ma questa volta invece del consueto pasto, portava, infilzata in una lunga stanga, una massa enorme di ferro e di pece liquefatta. All’invito di Suidnoh il serpente, di nulla sospettando, spalancò le fauci e inghiottì quella miscela di ferro e di pece. Poco dopo, tra orribili convulsioni, e urli di dolore U Thlen cessava di vivere. Radunatisi di muovo in concilio di Khasi e gli abitanti della pianura, dissero di fare due parti del corpo gigantesco del serpente e di mangiarselo affinché scomparisse del tutto e per sempre. Quei della pianura trovarono la cosa più facile perché erano molto numerosi. Non così i Khasi, che,m dopo essersi mangiato la loro porzione, videro rimanere ancora un grosso pezzo. Essi non vi fecero caso e ritornarono ai loro villaggi. Ma da quel pezzo nacquero molti piccoli serpenti, i quali a poco a poco s’infiltrarono nelle capanne dei Khasi. Fin qui la leggenda.
Ancor oggi ci sono delle famiglie conosciute come "nongri thlen" ossia "custodi del serpente" e le più strane dicerie corrono sul loro conto. Si dice per esempio che questi serpentelli non muoiono mai e che hanno la virtù di ridursi a dei fili sottilissimi e di cambiari in un gatto o in un gallo o in una pietra. Essi parlano e promettono a coloro che li tengono in casa ricchezza e prosperità. Ad una condizione, però. Di tratto in tratto devono offrire loro il sangue di qualche vittima designata. Se si rifiutano, allora gravi malanni e sciagure si abbattono su di loro. È meglio quindi obbedire all’U Thlen. A notte si sostano lungo qualche sentiero o dietro qualche cespuglio o albero, in attesa del malcapitato. I Nonsgshohnoh" non devono far uso di armi di fero, ma solo di legno perché fu il ferro che uccise il primo grande U Thlen. Con una mazza di legno essi colpiscono le loro vittime alla testa e le stramazzano al suolo. Poi con una forbice d’argento tagliano loro un ciuffo di capelli e la punta delle unghie, mentre con una lancetta pure d’argento pratica o una ferita nel naso e fanno scorrere il sangue in un imbuto di bambù. Seppelliscono quindi il cadavere nelle foreste e fanno ritorno a casa per la Grande Offerta. L’offerta del sangue ha luogo di notte e soltanto i "nongri thlen" vi possono prender parte. Per l’occasione tirano fuori tappeti e quanto hanno di meglio in casa. Le porte devono esser aperte: nel mezzo della stanza, in un piatto di bronzo, viene versato il sangue della vittima e sull’orlo i capelli e le unghie della medesima. Allora uno dei presenti, accovacciati tutt’intorno, comincia a picchiare un tamburello e a ripetere le parole d’invito: – O buon zio materno — egli canterella — o padre nostro, vieni fuori dal tuo nascondiglio (di solito questi serpentelli stanno nascosti in piccoli panieri). Noi abbiamo fatto quanto tu ci hai comandato: ora tutto è pronto. Vieni e dacci la tua benedizione, affinché noi possiamo sempre godere buona salute e ottenere grandi ricchezze.
Dopo qualche tempo il serpentello esce effettivamente dal suo nascondiglio, e sibilando si avvicina al piatto di bronzo Si dice che esso a questo punto si ingrossi a vista d’occhio sino a diventare un grosso cobra. Con la lingua protesa e gli occhi fissi sul sangue procede fin presso il piatto di bronzo. Qui si arresta come in attesa di qualcuno, I presenti continuano a picchiare il tamburello e a diadica preghiere e scongiuri. Ed eccolo spettro del morto appare sopra l’offerta del sangue. Esso sembra sghignazzare, e poi si mette a danzare.. In quell’istante l’U Thlen lo afferra eri piedi e lo inghiotte assieme al sangue, ai capelli e alle unghie. Non rimane più nulla. L’offerta è finita.
Realtà? Superstizione? Immaginazione? Forse un po’ di tutto. Ma rimane il fatto che i Khasi sono convinti dell’esistenza di questi adoratori del serpente e ne hanno un sacro terrore. Sono per essi stregoni onnipotenti e si guardano bene dal recar loro anche la minima offesa. Talvolta chiesi con insistenza a qualche khasi cattolico di dirmi il nome di qualcuno di questi adoratori dell’U Thlen ma non ci fu verso.
– Padre, – mi rispondeva, – chiedimi quel che vuoi ma non questo. Noi Khasi conosciamo i "nongri thlen", ma non riveleremo mai i loro nomi. Ci capiterebbe certamente qualche grosso malanno.
Padre Mathias prosegue dicendo che i missionari sono talmente consci della deleteria influenza del culto di U Thlen sulla popolazione, che non possono mai chiedere agli indigeni di andare da soli a sbrigare qualche commissione fuori dai villaggi, specialmente se si tratta viaggiare dopo il tramonto. I khasi sono terrorizzati dagli adoratori del Serpente, che stanno in agguato lungo i sentieri, pronti a uccidere chiunque, in qualsiasi momento, alla prima occasione favorevole. Come si vede, l’intera faccenda ricorda abbastanza la tragica vicenda degli adoratori della dea Kali, chiamati Thugs, i quali fino alla metà del XIX secolo assassinarono selvaggiamente, strangolandoli, per poi derubarli, molte migliaia di viandanti e pellegrini sulle strade dell’India, prima di essere severamente repressi dall’azione del vice-governatore britannico William Sleeman.
Una parte molto interessante del suo racconto è quella in cui parla di una contro-cerimonia, chiamata pyndunoh u thlen, ossia "rinuncia all’U Thlen". Chi voleva liberarsi dalla dipendenza dal Serpente, doveva presentarsi a uno stregone, chiamato lyngdoh, e offrire tutte le ricchezze che possedeva, parte delle quali veniva lasciata nella foresta, senza che nessuno fosse autorizzato a servirsene, parte era destinata al sovrano locale. Il penitente doveva offrire tutto, compresi gli abiti; poi la sua capanna veniva data alle fiamme e solo la notte seguente, nudo, egli poteva ritornare al suo villaggio. I suoi vicini lo aiutavano a costruirsi una nuova abitazione e a dotarsi di nuove vesti, evidentemente sollevati nel sapere che c’era un assassino di meno in circolazione sui sentieri della foresta (anche se, come si è visto, i khasi sapevano chi erano i membri della confraternita, senza però osare alcunché contro di essi).
La testimonianza di padre Mathias (nato a Parigi il 20 luglio 1887 e spentosi a Legnano il 3 agosto 1965), fondatore di scuole e primo vescovo dell’Assam, è molto importante, perché si tratta di un personaggio assai autorevole e di un ottimo conoscitore degli usi e costumi indiani, il quale ha passato una intera vita nel subcontinente, imparando a osservarli attentamente dall’interno di quella società. È pure degna di nota la sua osservazione che l’arrivo del cattolicesimo nella regione dei khasi ha spinto parecchi seguaci del culto del Serpente ad abiurare e a convertirsi al Vangelo, proprio per liberarsi da quella umiliane e pericolosa forma di sudditanza. Pare, infatti, che se gli altri abitanti della regione erano terrorizzati dalla prospettiva di finire assassinati come vittime sacrificali, anche i seguaci del Serpente fossero scontenti e inquieti, e che eseguissero sempre più malvolentieri il rito delle uccisioni, più nel timore di subire, a loro volta, la punizione da parte di quella terribile divinità, se non l’avessero fatto, che per intimo desiderio. E anche in questo si può vedere un riflesso della tipica condizione di chi ha sottoscritto un patto con il diavolo, per esempio nei culti satanici che proliferano nelle nostre città moderne e benestanti: prima o poi arriva sempre il momento in cui se ne pente amaramente, e si rende conto d’essere stato ingannato da colui che è l’Ingannatore per definizione: ma è difficilissimo, a quel punto, mutare la propria situazione, a meno di affidarsi totalmente nelle mani di Chi, quel nemico, l’ha affrontato e sconfitto tante volte in maniera esemplare.
Osserva, infatti, non senza una certa soddisfazione, il buon missionario (op. cit., p. 184):
Forse anche per questo [cioè perche il rito pagano di purificazione comportava il sacrificio di tutti i propri beni, fino agli indumenti personali e all’abitazione] i Khasi in gran parte hanno abbracciato il Cristianesimo. Vi hanno trovato la vera purificazione e la vera rinascita. C’è proprio da augurarsi che le ultime tracce di questo culto diabolico abbiano a scomparire e questo specialmente per tramite di Colei che ha schiacciato il capo del serpente infernale: Maria santissima: la Madre del bell’Amore.
E adesso vegano quei tali cattolici, o sedicenti cattolici, progressisti e modernisti, a dire che tutte le religioni sono uguali e che tutte meritano lo stesso grado di rispetto, perché in tutte traluce qualcosa dello splendore divino. Vengano a dirlo, e si coprano di ridicolo; vengano a dirlo, e mostrino la loro mancanza di onestà intellettuale. Ma tant’è: imbevuti d’ideologia relativista e buonista (ricordiamo che il buonismo non è una forma di bontà, ma la sua diabolica contraffazione), essi preferiscono dare torto ai fatti, o ignorarli, o negarli addirittura, se lo ritengono necessario, piuttosto che riconoscere la fallacia delle loro affermazioni…
Fonte dell'immagine in evidenza: Image copyright © Archivio Luciano e Marco Pedicini