
Ma che aspetta a dimettersi il vescovo Cipolla?
6 Febbraio 2017
Quel veleno dei preti modernisti che fa perdere la fede alle anime
7 Febbraio 2017Che cosa fa, di una nazione, una nazione? Che cosa la rende tale?
Posta così la domanda, è impossibile rispondervi, se prima non si chiarisce che cosa sia la nazione; e basta dare una scorsa rapidissima all’enciclopedia, o anche solo al vocabolario, per rendersi conto di quanto sia complessa, spinosa, combattuta e, in ultima analisi, pressoché irreperibile, una definizione univoca, che sia accettata e accettabile da tutti. E già questa è una spia, un indizio: si tratta, evidentemente, di una nozione ideologica, o almeno in parte ideologica; perché non esiste una tale contraddittorietà per le definizioni di oggetti "naturali". Più o meno, infatti, sono tutti d’accordo sull’idea di popolo, e anche sull’idea di Stato; ma sull’idea di nazione, no. Che cosa sia un popolo, che cosa sia uno Stato, non sono cose che facciano litigare: questo perché "popolo"e "Stato" sono entità delle quali esiste un’idea istintiva, che sono percepite come reali, anche se non si trovasse una definizione del tutto soddisfacente. Ma per l’idea di nazione non è così; al punto che, riflettendo, ci si accorge che la nazione, appunto, non è tanto un oggetto reale, quanto una idea: è l’idea di nazione che ha creato la nazione, e non viceversa. Inoltre, si tratta di un’idea piuttosto recente: in Europa non esisteva fino al medioevo; comincia a delinearsi, in Francia e in Inghilterra, come conseguenza della Guerra dei Cent’Anni; in Spagna e Portogallo, come effetto della Reconquista. E nel resto del continente? Per ogni Paese vi è una data diversa: come per la Rivoluzione industriale, la marcia dell’idea di nazione va da Ovest a Est e da Nord a Sud. Il motore della diffusione, però, non è la monarchia costituzionale inglese, ma la repubblica rivoluzionaria francese.
L’idea di nazione riceve l’elaborazione fondamentale dalla Rivoluzione del 1789 e dalla Francia viene esportata, sulle baionette di Napoleone, in tutta Europa; con una significativa anticipazione, però: quella degli Stati Uniti d’America. Infatti, Stati Uniti e Francia saranno i due modelli fondamentali dell’idea di nazione: a base territoriale e individualista il primo; a base patriottica, anzi, nazionalista, il secondo. In Europa, è questo che s’impone, con la susseguente trasformazione della nazionalità in nazionalismo. Esiste un legame necessario fra le due cose: date le premesse, l’idea di nazione a base popolare (terra e sangue) non può che evolvere in nazionalismo: il quale è figlio legittimo, e diretto, della prima. Le anime belle liberali e democratiche se ne facciano una ragione: sono state proprio loro a creare il "mostro", se di mostro si tratta, del nazionalismo; precisamente, lo hanno creato i "patrioti" francesi all’epoca della Marsigliese, di Valmy e dei massacri di settembre. Marine Le Pen è la figlia legittima di De Gaulle, e De Gaulle è il figlio legittimo di Clemenceau, e questi di Napoleone (il Grande e il Piccolo, cioè Napoleone III). Destra e sinistra non c’entrano, o c’entrano poco: checché ne dicano, e credano, le anime belle della sinistra, scandalizzate dalla scoperta di un tale albero genealogico.
Per l’Italia, mutatis mutandis, le cose sono andate allo stesso modo, con la sola significativa differenza che l’idea di nazionalismo è stata colpevolizzata, repressa o rimossa come parte integrante del passato fascista, che andava epurato una volta per tutte (come i francesi hanno epurato e rimosso il ricordo della Repubblica di Vichy; tuttavia, più fortunati, alla fine della guerra le carte buone le ebbe in mano De Gaulle, e non Pétain). Ma la verità è che Crispi è stato il figlio legittimo di Mazzini, e Mussolini di Crispi: solo che qui l’evoluzione si è interrotta, perché, dopo il 1945, era impossibile muoversi su una linea di continuità nazionale, al punto che si ritenne giusto e doveroso abolire perfino l’Accademia d’Italia, ignobile memento dei trascorsi in camicia nera: col bel risultato che quasi tutti i nostri studenti ignorano, come strumento di lavoro, quel capolavoro della cultura nazionale che è l‘Enciclopedia Italiana (il cui peccatum originale è l’essere stata concepita e diretta dal "fascista" Giovanni Gentile); e magari vanno a fare le loro ricerche sulla Encyclopaedia Britannica, che non vale neanche la metà di essa. E questa rimozione del nazionalismo spiega molte cose, anche al presente: spiega, ad esempio, o aiuta a capire, come mai l’Italia, davanti alle migrazioni/invasioni africane ed islamiste dei nostri giorni, non solo non si difenda, ma adoperi la Marina militare come strumento di auto-invasione: a tal punto è giunto il complesso di colpa nostrano per l’idea di nazione. Fra parentesi, nazione viene dal latino natio, nascita: niente di particolarmente aggressivo, ma semplicemente l’atto di nascere, e, con ciò, di identificarsi e di distinguersi nella famiglia delle altre nazioni, delle altre nascite.
Il modello americano è diverso: basato più sul territorio (ma ancora da conquistare: il manifesto destino che proiettava gli Americani dall’Atlantico verso il Pacifico; ed ecco il mito della Frontiera) e sulla condivisione di un progetto nazionale, sì, ma a base democratico-individualista, estremo sviluppo del liberalismo e dell’utilitarismo inglesi: la nazione è il grande contenitore dove la libertà individuale è tutelata al massimo, ma dall’insieme di queste volontà individuali scaturisce poi, dio sa come (la mano invisibile di Adam Smith?) il massimo del dinamismo e, in ultima analisi, della potenza complessiva. Alla base della nazione americana non c’è l’idea di popolo come portatore di una precisa identità, ma l’idea di "popolo" come somma d’individui che condividono un comune progetto; è un’origine contrattualistica, quindi, portata alle sue estreme conseguenze: per far parte del popolo americano, non è necessario essere nati in America o appartenere all’etnia americana (che non esiste), ma condividere i valori e lo stile di vita americani. Così definita, la nazione americana è in grado di assimilare praticamente tutto (melting pot), o almeno così ha sempre creduto fino ad anni abbastanza recenti. Sono stati i gravi incidenti di Los Angeles (Los Angeles riots), nell’aprile-maggio del 1992, a far suonare, per la prima volta (a parte la questione degli afroamericani, congenita al sistema America fin dalle sue origini) un campanello d’allarme, e a creare qualche dubbio sulla illimitata capacità di assimilazione della nazione americana nei confronti degli immigrati. L’odierna svolta del presidente Trump è figlia di quel dubbio, di quella preoccupazione: gli Stati Uniti hanno preso atto di avere dei limiti, come nazione, oltre i quali si innescano processi autodistruttivi. Si è trattato di un risveglio alla realtà: fino a quel momento, l’opinione pubblica americana pensava che la propria nazione fosse immortale, illimitata e onnipotente, proprio come quel dio che palesemente l’ha in particolare simpatia, e così le avevano fatto credere tutti i presidenti, tanto democratici che repubblicani: tutti l’avevano ingannata, vellicandone la vanità e illudendola circa la sua infinita capacità di assimilazione (illusione che i liberal continuano a coltivare con tenacia, ovviamente insieme agli immigrati più recenti, al punto da considerare come moralmente illegittima la presidenza di Donald Trump).
Vi sarebbe, in realtà, un terzo modello di nazione in Occidente, quello russo. Per ragioni storiche e geografiche, oltre che economiche e sociali, la Russia non è mai entrata pienamente nel quadro ideologico europeo e gli eventi del 1917 l’hanno ulteriormente allontanata dal modello prevalente di nazione. In un certo senso, la nazione russa è stata forgiata dalle due campagne per la propria sopravvivenza: quella del 1812 e quella del 1941, cui il popolo ha partecipato non meno delle Forze armate. Se fosse stata sconfitta da Napoleone, la Russia avrebbe accolto e fatto proprio il modello francese (cosa già tentata da Pietro il Grande); se fosse stata sconfitta da Hitler, sarebbe regredita al di sotto dello status di nazione. Ma ha vinto entrambe le volte, e così ha potuto procedere per una sua strada originale, che è un po’ una via di mezzo fra il modello europeo e quello americano: del primo ha il nazionalismo "ideologico", del secondo la cementazione di popoli diversi, specie dopo la brutale, ma necessaria cura dimagrante del 1991 e lo scioglimento dell’Unione Sovietica (si noti che gli Stati Uniti non avrebbero mai potuto sopravvivere a una cura altrettanto drastica: il paziente sarebbe morto sotto i ferri del chirurgo). Sta di fatto che, oggi, la Russia di Putin si pone come un modello di nazione alternativo a quello, per molti aspetti obsoleto e impotente, degli altri Paesi europei: un modello nel quale i valori "nazionali" sono ancora difesi come fonte di identità, e non contrastati o inibiti come fattori di discriminazione verso i diritti delle minoranze (come avviene nell’Europa occidentale). Ed è un modello che conviene tener presente, perché esso sta mostrando di consentire alla Russia, come Stato e anche come popolo, una vitalità e una forza di coesione quali ormai la Francia, la Gran Bretagna, la Germania o l’Italia possono solo sognare.
Ha osservato in proposito il saggista e giornalista Rino Cammilleri nel suo libro Doveroso elogio degli Italiani. Contro il vizio dell’autodenigrazione (Milano, Rizzoli, 2001, pp. 126-129):
Ma proprio la tenacia dello spirito feudale, anche attraverso abusi o vere e proprie piaghe sociali come quella mafiosa, sembra indicare come esso sia molto più "naturale" che non le moderne democrazie di massa. Queste ultime, infatti, sono recentissime, sono state imposte dappertutto con la forza e mostrano una fragilità estrema. Pare molto più "umano", infatti, giurare fedeltà a un uomo per averne protezione che a un’astratta istituzione artificiale. Che la democrazia moderna sia quanto di meglio i tempi offrano è innegabile e fuori discussione. Ma lo stesso giudice Giovanni Falcone, campione sfortunato della lotta alla mafia, nel libro-intervista Cosa di Cosa Nostra (Rizzoli), ammette che, ai tempi della "vecchia" mafia, quella "d’onore", era più facile per chi avesse subito un torto rivolgersi a un "padrino" e ottenerne soddisfazione che non alo Stato. Questo è appunto un rapporto feudale, nascente in modo spontaneo. Così come al venir meno dell’Impero Romano fu spontaneo per chiunque cercare protezione da un potente e giurargli fedeltà in cambio. Ed è curioso vedere, a conferma, come l’ostinazione a difendere i propri diritti individuali contro una multinazionale o contro il governo, la tendenza invincibile all’associazionismo spontaneo, la difesa ostinata delle tradizioni e del patriottismo sia più forte proprio nei Paesi dove Napoleone non arrivò, nei Paesi rimasti in qualche modo indenni dalle imposizioni giuridiche della Rivoluzione francese e che conservano i tratti "feudali" nelle cerimonie e nell’istinto espansivo sentito come compito "nazionale". Si può allora dire — checché ne pensino i "liberals" — che quel che è mancato a noi italiani non è tanto la Riforma protestante. Quel che ci ha nuociuto è, semmai, la vicinanza con l’Illuminismo e le armi francesi.
Ma poi, è proprio giusto ispirarsi a modelli esteri? Non potremmo, noi italiani, inventare una "via italiana" alla democrazia che tenga conto delle nostre specificità ed esigenze? È quanto cercava di dire, col suo soliti gusto del paradosso, Giuseppe Prezzolini: "Gli italiani, sia nei loro Stati, sia nelle loro teorie, sia nella loro pratica della vita, NON SONO UN POPOLO DEMOCRATICO. Il Comune delle città del settentrione, le Signorie e il fascismo del secolo ventesimo furono le sole creazioni originali politiche del genio italiano. Il Risorgimento fu una pessima imitazione dei costumi politici degli inglesi e dei francesi. Che dette all’Italia una costituzione democratica. E siccome il popolo italiano ha, fra le sue virtù, quella di essere uno dei meno ipocriti popoli del mondo, gli italiani non hanno "corretto" la democrazia se non quanto l’ignoranza lo permetteva, e hanno quindi un vestito che non va per la loro "taglia". Chi lo capì fu un grande italiano, Vincenzo Cuoco (liberale), che sostenne per primo che le Costituzioni si debbono fare come il vestito: se un popolo è gobbo, il vestito deve avere una gobba". [..] Essere gobbi non p bello, però dicono che porti firtuna. Ma forse non siamo gobbi, lo siamo diventato. Dice un altro Romano, Sergio, rinomato politologo, nel suo libro "Finis Italiae", che l’autodenigrazione nazionale per gli italiani non è un fatto normale: si tratta di "una mancanza di rispetto per sé che gli italiani non avevano mai sperimentato". Secondo la sua analisi tutto cominciò dopo la guerra civile, quando democristiani e comunisti, indifferenti all’ideologia risorgimentale, scaricarono la colpa della sconfitta bellica sul fascismo (che a quell’ideologia si richiamava), creando quel che (a proposito di gobbi) uno storico comunista, Romolo Gobbi (che gobbo non è affatto) ha chiamato, giusta il titolo di un suo libro, "Il mito della Resistenza"(Rizzoli), cioè la lotta di liberazione come nuova base della convivenza nazionale . La rimozione del fascismo, però, comportò anche quella dell’orgoglio nazionale e la rivisitazione tutta al negativo della storia patria. Il Sessantotto – aggiungiamo noi — completò l’opera. Ruggero Romano insiste: "La nazione, ripeto, non è un fatto: né per l’Italia né per alcun altro Paese. La nazione è un’idea". Concordiamo con la sua affermazione che "a metà del secolo scorso il Piemonte, certo, era economicamente più integrato alla Francia che alla Sicilia. E quest’ultima era integrata più all’Inghilterra che alla Lombardia". Non solo, ma nel 1860 gli italofoni erano solo il 2,5% dell’intera popolazione della penisola. E concordiamo pure con quest’altra affermazione: "Nessun paese (nazione) al mondo presentai caratteri globali di una sua identità storica e culturale". Infatti la Francia come nazione nasce con la Rivoluzione, cioè con l’IDEA di nazione. Anzi di Nazione con la maiuscola, cioè col nazionalismo come ideologia. Prima c’era sì un regno di Francia, ma doveva convivere coi ducati di Aquitania, Borgogna, Provenza. In Spagna i re hanno sempre dovuto proclamarsi re "delle Spagne", ed ancora hanno problemi di autonomismi locali. Come la Gran Bretagna, checché ne dicano certi storici troppo patriottici. Stesso discorso può farsi anche per gli altri Stati. Il fatto è che il nostro, per dirla con Romano (Ruggiero), è un nazionalismo "complessato", come quello dei belgi, tedeschi, greci, polacchi, ungheresi eccetera. Invece quelli "soddisfatti" sarebbero i francesi, inglesi e spagnoli. Ciò per via di una storiografia ottocentesca che ha fatto coincidere l’avventi dello Stato unitario con l’assolutismo (di cui c’è poco da vantarsi). Così, da noi, per far nascere l’IDEA di nazione (che, al pari degli altri non avevamo), scrittori, poeti e storici ci si mistero di buzzo buono nell’Ottocento, tempo in cui nacquero — infatti — le Società di storia patria. Così facendo, però (cioè nel tentativo di fare l’Italia — più facile — e gli italiani — MOLTO più difficile -), non si andò esenti da pateracchi quale quello richiamato dal Romano (Ruggiero): "Che la reazione laica contro il prevalere della Chiesa fosse (e sia ancora) più che giustificato non v’è dubbio. Ma non v’è ugualmente dubbio che il modo di quella reazione fu (ed è ancora) assolutamente triviale, e si travolse un grande patrimonio di pensiero senza il quale difficilmente si può intendere la storia d’Italia (e d’Europa e dell’America detta latina) fino al secolo XVIII: alludo al pensiero scolastico e alla sua massima espressione, Tommaso d’Aquino. Si credette (e si crede ancora) che il pensiero dell’Aquinate fosse solo pura teologia, laddove la sua "Summa" costituisce una chiave per la comprensione storica di qualsivoglia società cattolica dal Medioevo fino a ieri".
A questo punto dobbiamo porci la domanda: se la nazione non è un fatto, ma un’idea – come pensava, giustamente, lo storico Ruggiero Romano – quale idea vi è alla base della nazione italiana? Dopo quanto abbiamo detto, l’idea che un popolo ha di sé, in quanto nazione, non dipende dall’idea che ha di sé in quanto Stato. L’idea che gli italiani hanno di sé, in quanto Stato, è men che mediocre: e in ciò sta la radice di molte debolezze, nazionali e internazionali, e di molti complessi d’inferiorità. Lo Stato italiano, infatti, in quanto Stato, è assai meno efficiente dello Stato francese, inglese, tedesco; e questo è un fatto. Ma la nazione, abbiamo detto, è essenzialmente una idea: e le idee si possono modificare, se intervengono le circostanze adatte, assai più facilmente dei fatti. Se gli italiani migliorassero la percezione di sé come nazione, ciò si trasformerebbe, automaticamente, in un miglioramento del fatto dello Stato italiano. In ultima analisi, si è quel che si ritiene di essere; e il modo in cui ci si guarda allo specchio decide della propria autostima. Gli italiani, dunque, se smettessero di autodenigrarsi, potrebbero migliorare di molto la percezione di se stessi come nazione, con indubbio giovamento per il sistema Italia. Ma su quale base dovrebbero pensare, o meglio ripensare, l’idea della propria nazione? Per prima cosa, dovrebbero rimuovere gli assurdi sensi di colpa (inoculati soprattutto dalla cultura marxista) per l’esperienza fascista; pacificarsi con quella pagina della loro storia nazionale; rileggere se stessi e la propria vicenda, alla luce di quella riappacificazione, fin dagli albori della identità italiana (che non può prescindere, siamo d’accordo con Rimo Cammilleri, dalla storia romana antica). Non è che dovrebbero tornare a sognare e glorie dell’Impero e le "quadrate legioni" di mussoliniana memoria; ma certo dovrebbero smetterla di auto-disprezzarsi e di cancellare pagine della loro storia di cui possono, invece, andar fieri. L’Italia, dopotutto, è veramente una terra di santi, di eroi, di poeti e di navigatori: e, fatta la tara agli eccessi retorici, non esiste una ragione per cui la nazione italiana non dovrebbe avere un’alta idea di se stessa, almeno quanto le altre. Diciamo "almeno", ma la verità è che gli italiani dovrebbero andare per il mondo a testa alta, più di tutti gli altri, perché nessuno ha dato al patrimonio comune della civiltà umana un contributo così eccezionalmente ricco quanto loro. Tanto sul piano intellettuale e spirituale, come su quello materiale, l’Italia è il mondo. Altro che complessi d’inferiorità…
Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio