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26 Dicembre 2016La vicenda del giovane tunisino che ha compiuto la strage di Berlino e poi è tornato in Italia ed è stato colpito a morte dalla polizia, davanti alla stazione ferroviaria di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, non senza aver tentato di uccidere anche gi agenti che gli avevano chiesto i documenti, si presta a più di qualche riflessione, perché esemplare di tutta una tipologia di falsi profughi, di giudici dal rilascio facile, di politiche buoniste e di accoglienze sconsiderate. E, se vogliamo essere onesti, invece di vantarsi del loro "successo" nell’aver fermato la carriera criminale di quel terrorista, le autorità italiane dovrebbero battersi il petto per la loro pochezza e la loro ignavia durante i quattro anni in cui quel personaggio è entrato e uscita dai centri di accoglienza, che contribuiva a devastare ed incendiare, e dalle prigioni di Stato, nelle quali, pare, è andato a scuola di fanatismo ideologico e si è, come si usa dire, "radicalizzato". Veniamo a sgozzarvi come maiali, aveva scritto sulla rete, riferendosi ai cristiani, dopo aver aderito all’Isis. E, ai poliziotti che lo avevano fermato, mentre tentava di ucciderli puntando loro contro la pistola, poliziotti bastardi, ha fatto in tempo a gridare, prima di essere abbattuto. Come un cane rognoso. Ora la sua famiglia, dalla Tunisia, fa sapere che vuol conoscere la verità sulla sua morte. Non una parola di scuse, non un cenno di rammarico per quel che ha fatto. No: vogliono sapere la verità. Bisogna che la Polizia italiana si giustifichi, che renda conto del suo operato. Non sono le vittime che hanno diritto alla verità, ma i parenti dell’assassino. Giusto: in un mondo che ha eretto i diritti dell’individuo al di sopra di tutto, bisogna che sia la società ad inchinarsi davanti a qualunque pretesa, a qualunque richiesta, per quanto aberrante.
Anis Amri, ventiquattrenne, era un soggetto pericolosissimo, per usare le parole del questore di Milano; uno che, in carcere, aveva minacciato un altro detenuto, dicendogli: Sei un cristiano, ti taglio la gola. E ha dimostrato che ne sarebbe stato benissimo capace. Del resto, non gl’importava di morire: ciò che gl’importava era di uccidere il maggior numero di persone possibile; ma non di persone qualsiasi, bensì di cristiani. Oltre al povero camionista polacco, che, comunque, pare sia stato anche torturato (e qui si tratterà di vedere quante altre persone hanno collaborato all’azione criminale di Berlino), sono state 12 le vittime della strage al mercatino di Natale nella capitale tedesca, e una cinquantina i feriti. Anche la povera Fabrizia di Lorenzo, come le altre vittime di Berlino, dovrebbe pesare almeno un poco sulla coscienza di quanti, in Italia, lo avevano in mano, e lo hanno lasciato andare. Per buonismo, per garantismo, per sinistrismo, per imbecillità, per distrazione, per incompetenza, difficile dirlo, o forse per tutte queste cose messe insieme. In Italia ci sono troppi giudici pronti e più che ben disposti a rimettere in libertà dei soggetti violenti, imprevedibili, altamente pericolosi, solo perché le leggi forniscono loro un appiglio e soprattutto perché, nella loro ideologia bacata, ritengono che l’individuo, specie se "povero" e "straniero", è sempre una vittima del sistema, e bisogna dargli una seconda, una terza, una quarta possibilità, per quanti crimini abbia commesso e per quanto possa essere un rischio per la comunità lasciarlo andare in giro. Tanto, loro non vivono nei quartieri degradati, e non sanno affatto cosa voglia dire vedersi la casa o il negozio forzati e rapinati da quelli che si ostinano a considerarare come tanti sfortunati, fondamentalmente buoni, resi cattivi dalla società (ah, Rousseau, Rousseau, quanti danni ha fatto, e continua a fare, la tua pessima filosofia!).
Del resto, la vicenda di Anis Amri è pienamente rappresentativa di quello che possiamo ormai definire il sistema europeo, e italiano in particolare, di autodistruzione della propria sovranità e della sicurezza dei suoi cittadini, ossia di auto-invasione e di auto-dissoluzione, perfino con la volonterosa collaborazione delle Forze amate — nel nostro caso, la Marina – le quali, invece di salvaguardare le frontiere e bloccare l’acceso a chiunque non sia legalmente a posto (altro discorso è quello del soccorso in mare, che nessuno vuol negare), si prodigano, a spese del contribuente e con personale sacrificio e rischio del personale militare, per importare più clandestini possibile, andandoli a prendere fin sulle coste della Libia e portandoli comodamente a casa — a casa nostra, fino a prova contraria, e non a casa loro — dove saranno alloggiati in alberghi a tre stelle, e, se i padroni non si mostreranno d’accordo, anche a costo di requisirli. Il papa Francesco ha dato il "buon" esempio, andando nel campo di prima accoglienza sull’isola greca di Lesbo, a incoraggiare nuove ondate di profughi/invasori e portandosene a casa, sul suo aereo personale, una dozzina: tutti rigorosamente islamici, anche se fra i veri profughi di Lesbo, provenienti dalla Turchia, ci sono non pochi cristiani, in fuga dalla Siria devastata dalle milizie dell’Isis, loro sì in pericolo di vita. E quando diciamo che se li è portati a casa, raccomandando a tutti, e perfino prescrivendo, il dovere dell’accoglienza illimitata, non intendiamo dire "a casa sua": infatti non se li è portati in Vaticano, oltre le Mura Leonine (a proposito di muri e di frontiere che devono essere abbattuti, come gli piace dire così spesso…), no: li ha portati in Italia, cioè a casa nostra. A nostre spese, e a nostro rischio e pericolo: non suo.
In Tunisia non c’è, e non c’è mai stata, alcuna guerra, alcuna carestia, alcuna emergenza umanitaria. Un cittadino tunisino che arriva in Italia da clandestino dovrebbe essere respinto ipso facto, perché qualunque domanda mirante a ottenere lo status di profugo non potrà essere che una menzogna e una presa in giro nei confronti del nostro governo e dei nostri cittadini. O forse peggio: potrebbe essere, come nel caso di cui stiamo parlando, un espediente per sottrarsi alla giustizia di quel Paese: purtroppo si è sparsa la voce che in Italia le autorità sono disposte a chiudere un occhio, e anche tutti e due, sulla fedina penale dei sedicenti profughi, per cui il fior fiore dei delinquenti, già condannati nei loro rispettivi Paesi, evadono dalle carceri e si riversano sulle spiagge del Bel Paese, certi — e quasi mai a torto – di trovare un’accoglienza più che comprensiva, e, mal che vada, un trattamento carcerario di un genere quale mai potrebbero sognarsi, nei loro Paesi di origine: diciamo pure più simile, anch’esso, a un trattamento alberghiero che a una condizione detentiva. Senza contare che, fra permessi premio, buona condotta, amnistie e condoni vari, si tratta quasi sempre di soggiorni estremamente brevi, rispetto alla gravitò dei reati commessi. Perché un delinquente che scappa dalle carceri della Tunisia, del Marocco, della Somalia o del Pakistan, non viene in Italia per redimersi o per fare opere di beneficenza: viene in Italia per continuare a delinquere, come prima e peggio di prima, visto che, in proporzione, le prede sono decisamente più appetitose, e anche la probabilità di farla franca è considerevolmente più alta.
Di tunisini come lui, a suo tempo, ne abbiamo vista una sequela infinita, dopo la grande bidonata delle cosiddette primavere arabe. Era il 2011. Qualcuno, a meno che non sia uno smemorato di professione, se li ricorderà: tutti giovanotti sui vent’anni, sani, robusti e baldanzosi, pieni di ormoni; tutti ben vestiti e indossanti giubbotti di cuoio per stare caldi durante la breve traversata in gommone: erano i profughi griffati, per niente denutriti, per niente in fuga da qualche pericolo o da qualche calamità, semplicemente desiderosi di cambiar vita e di trovare il loro Eldorado in Europa. Anzi, non semplicemente desiderosi: tutti ben decisi a pretendere di trovarlo. Le interviste che rilasciavano ai giornalisti non consentivano di avere dei dubbi: Io voglio venire in Italia; e se mi respingeranno una volta, ritornerò una seconda, una terza, finché non ce la farò. Quando sbarcavano, infatti, sorridevano alle macchine da presa e alzavano la mano, mostrando l’indice e il medio nel segno della vittoria. Vittoria su chi, contro chi, in quale guerra? Noi non volevamo capirlo, non volevamo vederlo, ma era la guerra ch’essi stavano conducendo contro di noi, contro la sovranità dell’Europa, contro l’identità dell’Europa: per islamizzare e conquistare l’Europa, con il peso del loro numero e del loro tasso d’incremento demografico. Loro e quelli che sarebbero venuti dopo, e che, infatti, continuano a venire, ogni primavera, ogni estate, ogni autunno e ogni inverno, senza interruzione, tranne nei pochi giorni di mare decisamente mosso o burrascoso. Una invasione programmata e finanziata dai sauditi e dagli emirati arabi di fede wahabita, che solo i nostri politici, insulsi o traditori, possono seguitare a chiamare "emergenza", senza sentirsi scottare la lingua, con le loro perfette facce di bronzo. Una emergenza che dura da due o tre decenni, senza un giorno di pausa, Natale e Pasqua compresi. Fallita la conquista armata, a Lepanto e sotto le mura di Vienna, ora i popoli islamici stanno attuando, con successo, e senza spargimento di sangue (per ora; ma non proprio del tutto: come si è visto a Madrid, a Parigi, a Nizza, a Berlino, eccetera) ciò che non sono stati capaci di fare con le armi. Stanno conquistando l’Europa con la fertilità delle loro donne, come il presidente algerino Boumedienne aveva detto all’assemblea delle Nazioni Unite: Conquisteremo l’Europa con il ventre delle nostre donne. Dopo i giovanotti baldanzosi e ben nutriti, infatti, arrivano le famiglie, le fidanzate, le spose, i figli; arrivano i parenti; arriverà lo ius soli, la cittadinanza d’ufficio per diritto di nascita, caldeggiato da ministri di colore, come la signora Cécile Kienge, di origine congolese (arrivata in Italia, lei s, come clandestina, cioè in modo irregolare): la quale, infatti, ha pensato bene di portarsi dietro parte dei suoi 38 fratelli e sorelle, una delle quali, denunciata per violenze contro la persona, ha dichiarato: Posso fare quel che voglio, ho le spalle coperte da mia sorella, che è in Parlamento.
Resta la scia di sangue al mercatino natalizio di Berlino: i corpi delle vittime erano ridotti in condizioni tali che nemmeno i familiari li potevano riconoscere con certezza; è stato necessario analizzare il loro Dna. E resta il cadavere di quel giovanotto tunisino, subito soccorso con l’autoambulanza, sempre a nostre spese, dopo che aveva tentato di compiere l’ultimo omicidio: quello del poliziotto che lo aveva fermato (e che infatti si trova ricoverato in ospedale, seriamente ferito, e che l’ha scampata per miracolo). Tale è la differenza di civiltà fra l’Europa e codesti cani rabbiosi, che cercano la morte dei cani rabbiosi, e che bisogna abbattere come se fossero idrofobi, perché non hanno più nulla di umano, sono completamente invasati dallo spirito della distruzione, il tutto in nome di Allah. La cosa dovrebbe far riflettere gl’inveterati campioni del cosiddetto multiculturalismo e anche quelli della cosiddetta integrazione. Ma quale integrazione sarà mai possibile, da parte di persone che non solo non rispettano, né, tanto meno, amano la civiltà europea, ma la odiano fino alla terza e alla quarta generazione d’immigrati, e non sognano che di distruggerla, di conquistarla, e di sterminare o sottomettere i suoi abitanti? E di quale multiculturalismo parlano? Non sanno, o fingono di non sapere, che il primo genocidio della storia contemporanea è stato quello degli Armeni, popolo cristiano vivente da sempre nelle regioni dell’Asia Minore, da pare del primo governo nazionalista islamico, quello dei Giovani Turchi, che prese il controllo dell’Impero ottomano nel 1908, e che appena sette anni dopo pianificava e attuava la politica del genocidio? Hitler ha imparato da loro: ha citato il caso degli Armeni proprio come esempio da manuale, mentre si accingeva a compiere il suo genocidio. Non è vero che l’Europa ha esportato nel mondo tutto il male possibile, e adesso ne paga le conseguenze; è vero anche il contrario, cioè che lo ha importato.
Siamo in guerra, ma la nostra classe politica non vuole ammetterlo. Purtroppo, le guerre non aspettano che chi ne è vittima ne prenda atto: seguono il loro corso, cioè proseguono fino a quando chi le ha volute e scatenate non ritiene d’aver raggiunto i suoi obiettivi, oppure finché non viene fermato e sconfitto. Pertanto, se l’Europa ha deciso di non difendersi, anzi, di non riconoscere neppure di essere sotto attacco, peggio per lei: non sarà certo questo a fermare i suoi nemici; al contrario, li renderà sempre più aggressivi, sempre più determinati. Non capita spesso di aver a che fare con un aggredito che non vuol ammettere di essere tale, e che non prende le necessarie misure nei confronti dell’aggressore. Il nostro buonismo e la nostra esasperata cultura dei diritti ci si stanno ritorcendo contro: siamo vittime del nostro stesso nichilismo. Abbiamo deciso di suicidarci e di render le cose estremamente facili ai nostri carnefici. Forse i popoli non la pensano così, ma i loro governanti non li ascoltano, semmai li rimproverano perché non sono abbastanza "civili", "tolleranti" e "compassionevoli"; nel caso dei cristiani, perché non sono abbastanza "ospitali, "accoglienti" e "amorevoli". Prefetti e vescovi sono uniti nel prender fermamente posizione contro i propri concittadini e contro propri correligionari, a favore degli invasori.
Umanamente e cristianamente parlando, anche il cadavere del giovane Anis Amri ci lascia pensosi. È un tragico mistero il perché delle anime siano a tal punto possedute dall’odio, da disprezzare così la vita umana, propria ed altrui. E dispiace sempre vedere una giovane vita spezzata. Dio, che legge nei cuori, conosce il mistero; noi no. Noi possiamo solo prendere atto che la minaccia incombe su di noi ed esige una risposta adeguata. Se non vogliamo farlo per noi, dobbiamo farlo per i nostri figli…
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