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Che errore non voler capire che gli Alleati fecero la guerra all’Italia, non al fascismo

La figura dell’intellettuale moderno, per definizione, non brilla in fatto di fierezza, onestà intellettuale e coraggio civile; l’intellettuale italiano non fa eccezione, anzi, vi aggiunge quella particolare nota di servilismo e di cortigianeria che, da Francesco Petrarca in poi, quasi sempre lo ha caratterizzato. Ma il vero discrimine, nel XX secolo, è stato il passaggio dal regime liberale al fascismo e, poi, passando attraverso la doppia fornace della Seconda mondiale e della guerra civile italiana, dal fascismo al regime democratico e repubblicano. È in quel doppio snodo della società e della cultura nazionale che si può meglio osservare l’antico vizio del voltagabbana, della doppia morale, della sfrontata dichiarazione d’indipendenza spirituale, mentre l’intellettuale italiano passa, disinvoltamente, dall’uno all’altro regime, e poi, con una perfetta piroetta e un doppio salto mortale, di nuovo al regime opposto: sempre proclamando la propria coerenza e la propria linearità e sempre con cento testimoni pronti a certificare che le cose sono andate proprio così: perché l’intellettuale italiano non è mai solo, è membro di una affollata e affiatatissima corporazione mafiosa, nella quale tutti si coprono le spalle a vicenda, nonostante le apparenti rivalità ideologiche, in ciò che più importa a costoro: la difesa a oltranza, fino alla morte, delle poltrone, delle carriere, degli stipendi, dei privilegi e del prestigio sociale.

Ed è così, che, nel 1945, improvvisamente — anzi, per essere precisi, già due anni prima: il 26 luglio del 1943, cinque minuti dopo l’arresto di Mussolini da parte del re fellone — tutti gl’intellettuali italiani si sono scoperti accanitamente antifascisti, anzi, hanno scoperto di esserlo sempre stati; tutt’al più, per giustificare le loro carriere sotto l’ala benevola del fascio — quando si sono degnati di fornire delle spiegazioni, il che è accaduto assai raramente — si sono messi a posto la coscienza dichiarando che avevano solo finto di aderire al regime, allo scopo di sabotarlo meglio. Tale, ad esempio, è stata la posizione di Ruggero Zangrandi, che lo ha messo in condizioni di licenziare alle stampe il suo monumentale Viaggio attraverso il fascismo, il quale, fin dal titolo, è un autentico capolavoro di acrobazia linguistica e di calcolata ambiguità: non potendo dire: contro il fascismo, si dice: attraverso il fascismo, dato che tutta quella generazione visse l’esperienza del fascismo, e così dando a intendere che il fascismo fu una cosa esterna, piovuta da chissà dove – da Marte, probabilmente -, e che gli uomini onesti, come l’Autore, lo subirono, sì, e dovettero anche adattarsi a qualche compromesso, ma, sia ben chiaro, conservando sempre, nel profondo del cuore, una inestinguibile nostalgia per la democrazia e spiando ansiosamente il momento in cui avrebbero potuto rivelare al mondo intero i loro veri sentimenti, di esecrazione nei confronti del tiranno e di fermissima opposizione "morale" nei confronti del regime. Al punto che costoro sono stati capaci di creare una espressione inverosimile, la emigrazione interna, per designare se stessi: tanti ferventi antifascisti i quali, non potendo manifestare apertamente quel che pensavamo e quel che sentivano nei loro nobili cuori, si chiusero in un pensoso silenzio e in una nobile austerità, in attesa di tempi migliori, quando avrebbero potuto lottare apertamente affinché la Patria potesse riconquistare il bene prezioso della libertà. E il principe di questi emigrati interni è stato don Benedetto Croce, il gran sultano delle patrie lettere e della patria filosofia, l’ineffabile difensore del pensiero liberale: il quale, a guerra finita, ebbe a sentenziare che il fascismo era stato, appunto, una malattia, abbattutasi su di un organismo fondamentalmente sano, come lo era la società italiana: e che ne era guarito, così come si guarisce dalle malattie, avendo espulso via da sé il virus e avendo archiviato per sempre la disgraziata vicenda del ventennio. Commovente candore.

Un capitolo a parte spetterebbe ai fuoriusciti, veri e falsi, che, nel corso del ventennio, si trasferirono all’estero, e specialmente quelli che scelsero gi Stati Uniti, dove condussero, sovente, delle prestigiose carriere universitarie, e che, intanto, non si stancarono di brigare perché, presso l’opinione pubblica dei Paesi democratici, ci si formasse la peggiore idea possibile di quel che stava accadendo in Italia. Simili a tanti piccoli Lenin costretti a risiedere a Zurigo (anche se un po’ meno poveri di lui), impotenti a lottare apertamente contro il tiranno, ma smaniosi di tornare in Patria, beninteso quando vi fosse stata ripristinata la libertà, essi coltivarono con successo il loro orticello privato e, intanto, si candidarono a rappresentare la futura classe dirigente, o una parte non secondaria di essa, una volta che fu scoppiata la Seconda guerra mondiale e che le sue vicende lasciarono intuire come sarebbe andata a finire. E tornarono, infatti, dopo il maggio del 1945, sostenuti dall’approvazione e dal sostegno più che interessati dei governi alleati, dei quali si erano guadagnata la fiducia, e circondati dall’alone dell’esilio e quasi del martirio; tornarono e presero, o ripresero, possesso delle cattedre, delle carriere giornalistiche, delle amicizie presso le maggiori case editrici, inondando ben presto il Paese, vinto e umiliato, impoverito e disprezzato, con i loro commossi memoriali, con la loro saggezza a posteriori, con tutto il rancore e il veleno a lungo repressi e con tutta la trista soddisfazione di aver avuto, infine, ragione, e di vedere e che il mondo girava come essi avevano auspicato, e che potevano contribuire alla formazione di una futura classe dirigente sulla misura del proprio stampo: vale a dire già vecchia ancor prima di giungere alle posizioni chiave, vecchia d’animo, di mente e di cuore, opportunista, ipocrita, senza onore, senza dignità, senza orgoglio, disposta a qualunque bassezza pur di auto-perpetuarsi, possibilmente all’infinito. Tanto per non fare nomi, potremmo qui ricordare quel Gaetano Salvemini, storico, professore ad Harvard, gran pontefice degli esuli italiani all’esterno, e grande amico di quell’altro esule negli Stati Uniti, don Luigi Sturzo, che già aveva recitato un ruolo politico di primo piano ai tempi del Partito Popolare e che, dopo la Seconda guerra mondiale, tentò di giocarlo ancora, sebbene con scarsa fortuna: il socialista mangiapreti e il prete mangia fascisti, accomunati dalla nobiltà della lotta ideale da essi sostenuta nei duri anni dell’esilio, e dalla inossidabile volontà di tornare a svolgere un ruolo di primo piano, rispettivamente, nella cultura e nella politica del dopoguerra.

In questo panorama desolante, spiccano alcune figure che conservarono realmente, durante e dopo il fascismo, la loro indipendenza intellettuale e la loro fierezza personale: poche, in verità, ma, proprio per questo, tanto più esemplari e tanto più apprezzabili. Una di esse fu quel Giuseppe Prezzolini (1882-1982) che le vicende della carriera universitaria e della vita privata, più che quelle politiche, avevano spinto negli Stati Uniti ben prima della guerra, e che, dal 1940, era divenuto cittadino americano, senza però cessare di amare, di un amore violento e non ricambiato, la sua Patria d’origine, nella quale tornava ogni anno e nella quale trascorse gli ultimi anni, prima di morire, centenario, in Svizzera. Avrebbe potuto, come fecero altri, meno integri di lui, atteggiarsi anch’egli a "emigrato politico" e ritornare in Italia con qualche attestato e con qualche benemerenza antifascista; non lo fece, e, anzi, fu autore di un Necrologio onesto del fascismo che gli valse la sorda o dichiarata antipatia di tutta la casta intellettuale nostrana, dal momento che egli, con rara imparzialità, sine ira et studio, tracciò una severa, ma lucida analisi del fenomeno fascista e di quel che di bene e di male il fascismo aveva fatto all’Italia. E lo fece, non senza porre l’accento sul carattere eminentemente italiano del fascismo, e astenendosi, cosa rarissima, di quei tempi, dal riversare tutto il suo livore contro il cadavere di Mussolini, come un Carlo Emilio Gadda qualunque, e riconoscendo, molto lealmente, che le intenzioni del defunto dittatore non erano state così malvagie come si volle far credere, e che se il fascismo aveva fallito clamorosamente, ciò era avvenuto non perché esso fosse una ideologia più "sbagliata" di altre, ma perché il carattere nazionale italiano era quello che era, e nessuna medicina può avere effetto su un organismo refrattario a qualsiasi genere di cura nel quale siano previste la disciplina, l’onestà, il rigore, la coerenza, la fedeltà.

Una delle intuizioni più notevoli di Prezzolini — intuizione, in verità, che avrebbe dovuto essere lapalissiana per chiunque, ma che, invece, spuntò in così poche teste, appunto perché politicamente scomoda e scorretta — è che gli Alleati non fecero la guerra contro il fascismo, ma contro l’Italia; che gli Italiani, fidandosi della promessa dei capi di stato alleati, di fare la guerra a Mussolini e non al popolo italiano, vennero bellamente ingannati; e che la sconfitta dell’Italia nel 1943-45 fu non solo la sconfitta del fascismo, ma la sconfitta della Patria e la fine delle sue ambizioni di ritagliarsi una posto eminente tra le maggiori potenze mondiali, sottraendosi alla dipendenza e al servaggio in cui, inevitabilmente, finì per cadere, e senza rimedio, nel 1945. La versione ufficiale della cultura democratica, imposta dopo la Seconda guerra mondiale e la nascita della Repubblica, fu che ad essere sconfitto fu il fascismo, e che l’Italia riprese un posto non secondario delle nazioni, più rispettata di prima, perché nuovamente libera e democratica. Che sia una versione di comodo, penosamente menzognera, lo dimostra il fatto che l’Italia, da allora, ha perso per sempre la sua autonomia e la sua sovranità nazionale; che è stata trattata, con la pace di Parigi del 1947, da nazione vinta, senza se e senza ma, con amputazioni territoriali, servitù economica e sottomissione politica; ma si capisce molto bene perché sia durata così a lungo e venga tuttora snocciolata agli studenti e all’opinione pubblica: perché essa copre il fatto che a mettere in sella la "nuova" classe dirigente democratica furono appunto le potenze vittoriose, le quali avevano e hanno bisogno dei loro proconsoli "indigeni" per governare l’Italia, ridotta al rango di semi-colonia, ma senza che ciò appaia in modo troppo evidente. Ragion per cui tutti i governi che si sono avvicendati dopo il 1945 non meritano più il nome di governi di una nazione libera e sovrana, e, dunque, non sono stati liberi nemmeno essi; situazione che si è prolungata fino al presente, con gli ultimi tre presidenti del Consiglio, Monti, Letta e Renzi, non eletti dal "popolo sovrano", ma nominati dal "re" Giorgio Napolitano, su mandato di poteri extra-nazionali, e, perciò, a tutto disposti, tranne che a governare nel vero interesse dell’Italia e del popolo italiano.

Ecco, dunque, alcune perle — amare, ma pur sempre preziose — di quell’osservatore libero e onesto che fu Prezzolini (da: Giuseppe Prezzolini, Diario, 1942-1968, Milano, Rusconi Editore,  1981, pp. 42-43; 47; 51-52; 69; 79; 95;101):

13 febbraio 1943

Quando il fascismo sarà caduto insieme all’Italia (ma tutti, perché anche gli antifascisti pagheranno per la sconfitta militare e morale) saranno pochi che non gireranno dall’altra parte. Accadde anche in altri paesi, nella Francia dopo Napoleone I, e poteva esser senza vergogna. Come se gli anni (venti anni) non fossero passati, giuramenti non fossero stati ripetuti, posizioni e stipendi desiderati e distribuiti, e come se tutto quello che fu scritto con esagerazione, con falsità evidente, ma anche pur troppo con sacrifici sinceri di vite, di amicizie, di legami familiari non avessero lasciato delle tracce. Un ritorno del fascismo sotto forma di comunismo sarà possibile? Ma il carattere del popolo italiano non cambierà, e pur troppo non cambierà il giudizio degli stranieri. Entro il 1945 ci sarà una decisione. I falsi giuratori si troveranno tutti d’accordo nel farsi testimoni reciprocamente. I primi a cambiare saranno i letterati:; e pure, fra le tante sciocchezze, falsità, retoriche del tempo qualche cosa ci fu nel fascismo che non lascerà l’Italia come era prima, e sarà forse più forte e più pericolosa di quella lasciata dal Risorgimento: questa volta il popolo ha preso parte alla vita politica.

9 giugno 1943

Attacco di Pantelleria. Se il fascismo avesse fatto per gli Italiani quello che il comunismo ha fatto per i Russi, nessuno avrebbe ceduto.

5 dicembre 1944

… Ma quando arrivò la notizia della resa di Pantelleria (detto fra noi, una macchia su tutta l’Italia, per preparazione, organizzazione, spirito di truppe; eppure una vittoria nella difesa di quell’isola, o almeno una resistenza onorevole, sarebbe stata, sarebbe stata un gioiello nella storia d’Italia: altro che Pietro Micca!)…

13 ottobre 1943

L’Italia di Badoglio ha dichiarato guerra alla Germania, con il consenso di Stalin, e se si porterà bene, le daranno un attestato di buona condotta. L’Italia fa di tutto per accrescere le proprie vergogne, il ludibrio e la vigliaccheria di cui s’è già abbondantemente coperta da se medesima.

Sono anch’io per ammettere certe necessità; ma ci vuole un po’ più di rispetto di se stessi per non sputarsi in faccia.

5 maggio 1945

Anniversario della morte di Napoleone. Hitler è morto con decenza e con mistero. Mussolini in una rissa d’osteria. Commento udito nel nostro Faculty Club [a New York]: "In battaglia gl”Italiani valgono poco; ma quando si tratta di assassinare (but when you come to murder) nessuno li sorpassa".

Settimana nera, vuota, triste. Ci vorrebbe un nuovo aggettivo, che esprimesse il dolore e insieme la vergogna.

15 maggio 1946

Forse la mia antipatia per gli Italiani è un caso d’amore sfortunato. La mia speranza che Mussolini fosse un contro veleno ai difetti italiani(la retorica, la teatralità, la vanità) fallì. Diventò sempre più italiano, prese i vizi nazionali e PERÌ D’INFEZIONE ITALICA.

4 agosto 1946

Gl’Italiani si trovano come sorci fra tre gatti. Si fidarono. Ora sono delusi. Scorono che gli Alleati fecero la guerra all’Italia e non al fascismo, e che l’Italia deve pagare con perdite di territori e con schiavitù economica, come tutta l’Europa.

Ne avessimo avuti di più, e ne avessimo di più ancora oggi, di simili intellettuali: così lucidi e così moralmente onesti.

Purtroppo, gli ultimi si sono spenti con la passata generazione: quella dei Montanelli e delle Fallaci; ne resta ancora qualcuno, sperduto nel mezzo della palude, ma sempre più isolato e quasi ridotto al silenzio. I giornali non ospitano più i loro articoli, le case editrici rifiutano i loro manoscritti, e, nelle università, non ci sono cattedre per loro. Restano quasi solo i pecoroni, i servi, i falsi contestatori, i falsi "uomini liberi", tutti regolarmente sul libro paga di qualche facoltoso editore, di qualche "prestigiosa" istituzione; tutti con alti emolumenti da difendere, contro qualsiasi concorrente, tirando fuori, se occorre, le unghie e anche i denti, oltre che mobilitando le loro aderenze politiche e le loro amicizie imprenditoriali e massoniche.

E così come Pantelleria, nel giugno del 1943, non venne difesa, benché la piazzaforte fosse stata eccellentemente predisposta per resistere a un attacco dal mare e dal cielo, e benché la guarnigione non avesse riportato neppure un graffio dal bombardamento angloamericano, ma si arrese vergognosamente, senza sparare un solo colpo di fucile, allo stesso modo, oggi, Pantelleria non viene difesa da una nuova forma d’invasione proveniente dal Nord Africa, completamente diversa, certo, da quella di allora, e tuttavia, proprio come quella, lesiva della nostra sovranità e dei nostri interessi nazionali: e oggi come allora, la classe dirigente sta a guardare, imbelle o connivente, mentre il Paese viene invaso, e i suoi interessi vitali vengono irreparabilmente compromessi. Corsi e ricorsi della storia, direbbe Vico…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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