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Don Mainetti e la fine di Mussolini

La storia della cosiddetta Resistenza, ormai si sa (ed era ora, dopo settant’anni di silenzi, di mezze verità e di sfrontatissime bugie), è tutta da riscrivere; e, soprattutto, è da rivedere l’impostazione di fondo, moralistica e a senso unico, secondo la quale tutta la giustizia sarebbe stata presso una sola delle due parti in lotta, quella dei partigiani "vittoriosi" – e, guarda caso, ma per puro accidente, anche degli Alleati che stavano, loro sì, vincendo la guerra, con la schiacciante superiorità di cui disponevano sulle forze dell’Asse — e tutta l’ingiustizia e la malvagità, invece, dall’altra, quella dei Tedeschi e dei fascisti della Repubblica Sociale Italiana, cioè i soccombenti.

All’interno di questa versione di comodo, super-ideologizzata e tuttavia camuffata da verità candida e immacolata, sulla quale non era lecito avanzare dubbi, a meno di nutrire delle inconfessate simpatie fasciste (tanto è vero che un diverso punto di vista è stato preso in considerazione dalla cultura ufficiale solo dopo la "revisione" della vulgata resistenziale da parte di un giornalista di sinistra, Giampaolo Pansa), si colloca un’altra verità nascosta, un’altra storia sottratta ad un serio approfondimento e archiviata in tutta fretta, perché nessuno fosse tentato di riaprire scomodi armadi e buttare in aria gli scheletri, colà rinchiusi per sottrarli alla vista: quella relativa alle scelte politiche del clero cattolico durante la guerra civile italiana, fra il 1943 e il 1945.

Subito dopo la fine del conflitto, come è noto, molti sacerdoti e alcuni vescovi si affrettarono a sbandierare le loro benemerenze partigiane, divulgando il fatto — generalmente vero — che avevano protetto, nascosto, rifocillato le bande partigiane operanti in montagna (altro discorso per gli assassini che agivano nelle città sotto il nome di G.A.P., Gruppi d’Azione Patriottica, che erano stati una diretta emanazione terroristica del Partito Comunista e nei quali gli altri partiti antifascisti c’entravano poco o nulla). Allo stesso modo, si tirò un velo di silenzio sul tragico destino di quei preti — un centinaio in tutto – che erano stati uccisi durante la guerra civile, alcune decine dei quali caduti sotto il piombo dei partigiani comunisti: in parte perché erano stati così coerenti, e così imprudenti, da aderire alla Repubblica di Salò, come quel don Tullio Calcagno che diresse il giornale Crociata Italica e finì fucilato, a guerra ormai finita, insieme al grande invalido ed eroe di guerra Carlo Borsani; in parte per nessun’altra ragione che l’abito che portavano, compreso quel povero seminarista quattordicenne, Rolando Rivi, che, in odio alla religione cattolica, venne rapito, seviziato e torturato per dei giorni prima d’essere ucciso, senza alcun pretesto di carattere militare.

Pertanto, a guerra finita la Gerarchia ecclesiastica tenne la politica di ricordare ai partiti antifascisti le proprie benemerenze resistenziali e antifasciste, quanto bastava per aver voce in capitolo nella società democratica e nell’opera di ricostruzione nazionale; ma non tanto da rinfocolare odi semi-sopiti e da alimentare il perdurare di un clima da guerra civile, che, peraltro, non sarebbe stato certo favorevole alla Chiesa, vista la scia di delitti che si verificarono per tutto il 1945, il 1946 e il 1947, e sempre da parte di quei partigiani comunisti che non avevano consegnato le armi e che intendevano sgombrare il campo dalla presenza degli elementi "borghesi" i quali avrebbero potuto opporsi ai loro progetto di una "seconda ondata", vale a dire di una nuova e più sanguinosa insurrezione per impadronirsi del potere e instaurare anche nel nostro Paese, come in Unione Sovietica, la "dittatura del proletariato". Insomma: meglio non ricordare a voce troppo alta il contributo dato dai parroci antifascisti alla guerra civile, perché ciò avrebbe potuto rivelarsi un’arma a doppio taglio: avrebbe potuto incoraggiare e inasprire la sete di sangue degli ex partigiani comunisti, i quali già si rammaricavano d’aver lasciato incompiuta la loro crudele opera di epurazione.

Ma c’è anche un’altra ragione, più profonda di quella legata alle contingenze politiche, sociali e ideologiche di quella primavera del 1945 e al "vento del Nord" che soffiava dalle fabbriche del triangolo industriale: una ragione di tipo più squisitamente religioso e morale. I preti e, in generale, i membri del clero che, durante la guerra civile, avevamo partecipato alla lotta o benedetto le armi fratricide e svolto opera di propaganda per l’una o per l’altra delle parti contendenti (senza dimenticare che, per la dottrina della Chiesa, omnis potestas a Deo, ogni autorità viene da Dio, e vi sono pochi dubbi che l’autorità legittima, in quel momento, al Nord, fosse costituita dalla Repubblica Sociale), vennero meno al loro impegno sacerdotale di essere sempre super partes e di non immischiarsi direttamente nelle cose della politica, meno ancora di macchiarsi le mani di sangue, e di sangue fraterno, in un evento così funesto e luttuoso come una guerra civile. La Chiesa, passata l’euforia per la cosiddetta Liberazione dell’aprile 1945, era tornata in sé, e i suoi pastori si erano resi conto di quanto fosse turpe, da parte del clero, essere sceso in campo e aver svolto un ruolo attivo nella tremenda resa dei conti che aveva avuto luogo nel seno della società italiana, prolungandosi, con assassinî assolutamente ingiustificati e ingiustificabili, per mesi e persino per anni dopo l’insurrezione generale del 25 aprile. Meglio, dunque, cercar di dimenticare e, soprattutto, di far dimenticare: meglio non parlar più né dei cappellani militari che avevano svolto opera di propaganda per la Repubblica Sociale sino ai primi mesi del 1945, né per i partigiani, e specialmente per quelli socialisti e comunisti, che avevano visto nella Chiesa un nemico di classe tanto odioso e meritevole di distruzione, quanto il fascismo stesso e poco meno della grossa borghesia finanziaria e industriale dell’Italia del Nord.

Fra i molti preti che non si vergognarono, anzi, che si gloriarono di aver partecipato, in un modo o nell’altro, alla lotta fratricida del popolo italiano, spicca la figura di un prevosto di paese, il cui nome non direbbe nulla a nessuno, a settant’anni di stanza da quei fatti, se il caso non lo avesse posto di fronte all’evento più significativo, e dall’alto valore simbolico, della cattura e, subito dopo, della rapida e spietata eliminazione fisica del caduto dittatore, colui che aveva entusiasmato le piazze per vent’anni e che ancora pochi mesi prima, il 16 dicembre 1945, aveva saputo elettrizzare l’uditorio milanese con il memorabile discorso al Teatro Lirico. Intendiamo parlare di don Enea Mainetti, prevosto di Musso, che, a quanto pare, e come lui stesso ha raccontato con dovizia di particolari, si trovò a svolgere un ruolo non secondario nella resa dei gerarchi in fuga e nella cattura di Mussolini da parte dei suoi persecutori, i quali, di lì a poche ore, lo avrebbero assassinato, insieme alla sua sfortunata amante, la giovane e romantica Claretta Petacci.

Così, dunque, raccontava in prima persona i fatti che precedettero la cattura di Mussolini, don Enea Mainetti (testimonianza apparsa su Il Popolo Nuovo del 28-29 maggio 1945 e, dunque, ancora a caldo, cioè ad appena un mese di distanza dagli eventi):

C’era una colonna tedesca che passava. Temevo volesse dare battaglia in paese, rifiutando la resa e io mi preoccupavo di evitare spargimenti di sangue. Stavo per uscire di casa e recarmi dai comandanti partigiani di Dongo, quando la fantesca mi informò che un uomo con la barba desiderava parlarmi d’urgenza. Lo feci entrare. L’uomo si abbandonò sul divano e con voce affannosa disse: "Sono Bombacci: non desidero una cattura clamorosa. Vengo in casa sua e la prego di cercare un capo partigiano al quale intendo consegnarmi. Sono ormai in trappola come un topo. E pensare che ho due figli tra i partigiani! E pensare che sono stato contrario al fascismo per venticinque anni! I fascisti cantavano sempre delle canzoni contro di me…".

"Ma cosa le è saltato in testa di mettersi in questo pasticcio? Perché si è iscritto al Partito repubblicano fascista?".

"Non mi sono iscritto. Ho fatto della propaganda. Mi hanno illuso con la socializzazione che è sempre stata lo scopo della mia vita. Dovevo ben pensare che con questa gente era ridicolo parlare do socialismo puro! Ho sbagliato. Morirò. Ma non voglio una cattura clamorosa".

Stavo per uscire per cercare un capo partigiano cui consegnare Bombacci, quando entrò un altro signore con un ragazzo. "Sono il ministro Romano", mi disse. "Non so che avverrà di me; le affido mio figlio, che non ho potuto affidare a un collegio come avrei desiderato, perché l’ordine di partenza è stato improvviso. Affido a lei il ragazzo: glielo raccomando di cuore!".

Intanto Bombacci insisteva perché io andassi a cercare i partigiani. Altri borghesi però entrarono in casa. Non dissero i loro nomi, solo si presentarono come "personalità", che desideravano costituirsi. "Ai partigiani diremo i nostri nomi ". Seppi però i nomi di due, Mezzasoma e Zerbino, perché Bombacci chiese a uno di loro: "Senta, Zerbino, mi sa dire dov’è Mussolini?!" Zerbino rispose: Chissà dov’è!". Allora Bombacci si rivolse a un altro: "Mezzasoma, Mussolini è ancora con la colonna?". Mezzasoma rispose: "Da Menaggio ci ha lasciato. Però mi hanno detto che è con i tedeschi". Gli altri che erano in salotto, non dicevano un gran che, ma si raccomandavano a me perché temevano d’essere linciati dalla folla.

Vennero finalmente i partigiani e li portarono tutti al municipio di Musso. Io intanto presi la strada per Dongo, ma subito m’imbattei nel comandante Pedro [Pier Luigi Bellini delle Stelle, avvocato, comandante del distaccamento "Puercher" della 52a Brigata Garibaldi] e nel Capitano Barbieri. Dissi a Pedro: "GUARDI CHE C’È MUSSOLINI. PERQUISITE BENE, FATE PASSARE TUTTI GLI ANGOLI, NON LASCIATELO SCAPPARE, PERCHÉ SIAMO SICURI CHE C’È" [la sottolineatura è nostra].

Pedro mi ringraziò assicurandomi che avrebbe inviato immediatamente un garibaldino a Dongo per avvisare Bill [nome di battaglia del partigiano Urbano Lazzaro, autore di un libro controverso e assai critico verso i suoi ex compagni: "Dongo. Mezzo secolo di menzogne"] di controllare attentamente tutto perché lui aveva dato benestare alla colonna di procedere verso Dongo, assicurando che non vi sarebbero stati atti ostili.

Don Mainetti, dunque, esordisce affermando che, al passare della colonna tedesca, la prima cosa che ebbe in animo di fare, fu di evitare spargimenti di sangue. Lodevole intenzione, degna di un premuroso pastore delle sue pecorelle! Evidentemente, però, egli non ritenne che nelle vene di Mussolini scorresse del sangue: forse pensava che il Duce fosse una specie di rettile e che la sua eventuale uccisione non avrebbe pesato sulla coscienza di alcuno, tanto meno sulla sua, di buon cristiano e di prete stimato dalla sua comunità. Si potrebbe obiettare — debole obiezione – che egli non immaginava che Mussolini sarebbe stato passato per le armi senza processo, visto che lo stesso Pedro, cioè Pier Luigi Bellini delle Stelle, il locale comandante partigiano, non era di questo avviso, ma si accingeva a consegnarlo vivo ad emissari del generale Raffaele Cadorna, il quale, secondo quanto stabilito in una precisa clausola dell’armistizio di Cassibile, si era impegnato a consegnare Mussolini agli Alleati; e che fu il "colonnello Valerio", cioè Walter Audisio, suo superiore in grado, presentatosi nel primo pomeriggio del 28 aprile, insieme a "Guido", Aldo Lampredi, uomo di fiducia di Luigi Longo, a decidere per l’esecuzione immediata, secondo gli ordini ricevuti a sua volta dal C.L.N.A.I. riunitosi a Milano. Come è noto, esiste una complessa e controversa letteratura sull’argomento, che vede parecchie versioni contrastanti sulle ultime ore di Mussolini e sulla decisione di procedere alla sua esecuzione sommaria, questione nella quale non ci addentreremo. Quel che ci interessa notare è la posizione di don Mainetti, il parroco di Musso, che fece un uso così discutibile delle informazioni di cui era venuto a conoscenza dalla bocca di ministri di Salò che erano venuti a bussare alla sua porta, uomini morituri che si erano fidati di lui e che avevano chiesto la sua mediazione per arrendersi alle forze partigiane. A noi sembra che, di quei discorsi, don Mainetti avrebbe dovuto farsi geloso custode, come di cose rivelategli in confessione: invece si precipitò a spiattellare al comandante Pedro che Mussolini si trovava con la colonna tedesca e gli raccomandò, con gratuita e criminosa petulanza, che bisognava perquisirla bene, passandola al setaccio, perché Mussolini era lì e non dovevano lasciarselo scappare. Questo fu il modo in cui quell’uomo di Dio ritenne di assolvere i suoi doveri spirituali e civili. Alla luce di questi fatti, si capisce meglio l’atteggiamento di certi preti coinvolti nelle guerre civili del Terzo Mondo. Molti anni sono passati da allora e don Mainetti si è presentato da tempo davanti al tribunale di Dio, né tocca agli uomini almanaccare sul Suo giudizio. Qualora toccasse a loro di esprimersi, verrebbe da pensare che, se l’Inferno esiste — e, per un cristiano, è certo che esiste — quelle parole da lui pronunciate gli hanno ben meritato un posto. Ma, per fortuna, ripetiamo, non tocca a noi giudicare…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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