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Charles Lindbergh e quel nome che nessuno ha il diritto di pronunciare

Perfino un eroe nazionale degli Stati Uniti d’America, Charles Lindbergh (Detroit, 4 febbraio 1902-Mau, Isole Hawaii, 27 agosto 1974) è andato a sbatterci contro e si è fatto male, molto male: la sua fama si è offuscata irreparabilmente, il suo nome è stato insultato, odiosi sospetti sono stati avanzati sul suo conto. Ancora oggi, evocare il nome di Lindbergh provoca, nella maggior parte del pubblico, una curiosa, duplice reazione, o, per dir meglio, una reazione in due tempi: la prima, istintiva, è di ammirazione per il celebre aviatore e per il coraggioso trasvolatore solitario; la seconda, frutto di un riflesso condizionato, indotto a sua volta dalla cultura politically correct, è di perplessità, diffidenza, ripulsa: Lindbergh? Uhm…! Ma non era quel tipo, per caso, un po’ nazista, o, quanto meno, un po’ amico dei nazisti? L’accusa di filo-nazismo, però, come vedremo, era palesemente strumentale, e nasceva da un’altra accusa, non meno strumentale, e, tuttavia, molto più reale e originata da cause concrete: quella di essere antisemita. Lindbergh aveva toccato il tasto (intoccabile) dell’azione politica e culturale esercitata dagli ebrei newyorchesi, e questo non gli venne mai perdonato. Tutte le sue disgrazie ebbero origine da lì.

Dopo aver toccato i vertici del successo e della popolarità per la prima trasvolata atlantica in solitario e senza scalo, il 20-21 maggio 1927, con il suo Spirit f St. Louis, ed essere stato l’uomo del momento, il cavaliere senza macchia e senza paura che tutti gli americani sognano di essere, la seconda parte della sua vita è scivolata verso qualcosa di peggio del semplice oblio: l’impopolarità, la diffidenza, il disprezzo; padre di una famiglia numerosa, ha dovuto arrabattarsi non poco per trovare un impiego; il suo nome è diventato la testa di turco sulla quale rovesciare tutta l’acredine e tutta la vendicatività di una opinione pubblica montata ad arte dai maggiori mezzi d’informazione e da alcuni pezzi da novanta della politica e del governo.

Il segretario degli Interi di Roosevelt, Harold Hickes, lo chiamava pubblicamente, con spregio, ex colonnello dell’aviazione americana, dopo che era stato il governo a costringerlo, in pratica, a dare le dimissioni dalle Forze Armate; di più: lo chiamava: "il cavaliere dell’Aquila tedesca", in riferimento ad un’alta decorazione che Göring stesso gli aveva consegnato, per conto di Hitler, mentre Lindbergh si trovava a Berlino. Si dimenticava, però, di precisare che Lindbergh, a Berlino, c’era andato per incarico delle Forze Armate statunitensi; che il suo compito era stato proprio quello di raccogliere informazioni sulla Luftwaffe tedesca, a vantaggio del proprio Paese; che il ricevimento in questione si era svolto nella residenza dell’ambasciatore americano, e che la medaglia gli era stata offerta sotto gli occhi e con l’approvazione del medesimo.

Hickes, Roosevelt, il Partito democratico e buona parte della stampa insinuavano che le simpatie di Linbdbergh andassero al nazismo e che per questo non volesse riconsegnare alla Germania la decorazione ricevuta; che lui — figlio d’immigrati svedesi – non fosse un buon cittadino americano; che non volesse condannare apertamente i misfatti di Hitler per ragioni di affinità ideologica. Anche la moglie dell’aviatore, la scrittrice Anne Spencer Morrow, grande aviatrice ella stessa e scrittrice di talento (fu autrice, fra l’altro, del noto romanzo Listen! The Wind), finì nel tritacarne mediatico: il suo terzo libro, The Wawe of the Future, venne definito sempre da Hickes, e in perfetta malafede, "La Bibbia di ogni nazista americano", mentre molti librai ebrei si rifiutavano di ricevere ed esporre in vetrina qualunque suo libro.

I coniugi Lindbergh avevano già molto sofferto, nel 1932, per il rapimento e l’uccisione del loro figlioletto Charles, un bambino di appena due anni; delitto oscuro e terribile, avvenuto nonostante il pagamento del riscatto, e per il quale un uomo (l’immigrato tedesco Bruno Hauptmann) venne arrestato, processato e condannato a morte, finendo sulla sedia elettrica, senza che le circostanze precise della vicenda venissero mai chiarite interamente. Ma il declino della popolarità dei due coniugi venne a partire da quando il presidente Roosevelt decise di portare gli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale, a fianco della Gran Bretagna e dell’Unione Sovietica – cosa che aveva sempre promesso di non fare – e Lindbergh vi si oppose strenuamente, sia perché riteneva che la partecipazione a quel conflitto non rientrasse negli interessi nazionali degli Stati Uniti, sia perché pensava che si trattasse di una guerra per la supremazia europea fra i due totalitarismi e che, comunque, fra i due, il male minore fosse rappresentato da Hitler e Mussolini, non dal comunismo sovietico. Si può dissentire da queste opinioni, senza con ciò mettere in dubbio il patriottismo di chi le professava: tenendo presente, del resto, che esse erano anche quelle di decine di milioni di cittadini americani, quasi certamente la maggioranza, e che fu Roosevelt a trarre in inganno il popolo americano, e a tradire i suoi stessi elettori, portando il Paese in guerra, dopo essersi fatto eleggere — per la terza volta! – con la solenne promessa di restarne, invece, fuori. Un particolare interessante: sia Lindbergh che Roosevelt erano massoni. Atterrando a Parigi dopo la sua epica impresa, l’aviatore aveva portato con sé la bandiera della sua Loggia di Saint Louis, anche se, negli anni successivi, le sue idee mistiche e religiose conobbero una singolare evoluzione in senso cristiano (ma non nell’accezione comune) e taoista; Roosevelt era un massone di altissimo livello e si vantava pubblicamente delle origini ebraiche dei suoi antenati, provenienti dall’Olanda.

Non fu, comunque, la propaganda neutralista di Lindbergh a mettere in ginocchio la sua popolarità, in un Paese dove la stampa e la radio facevano il bello e il cattivo tempo, innalzavano alla celebrità chi volevano, o lo precipitavano nell’abisso del pubblico disprezzo; non furono le sue appassionate e affollatissime conferenze a favore della neutralità, tenute soprattutto per conto dell’Università di Yale e per l’America First Committee; e nemmeno il rifiuto di rendere a Göring la sua medaglia d’oro con la svastica (gesto che Lindbergh considerava "una offesa gratuita alla classe dirigente tedesca"): quello che lo mise in una situazione insostenibile fu l’aver indicato negli Ebrei una delle tre cause che stavano preciptando gli Stati Uniti verso l’intervento. Le altre due, secondo lui, avevano un nome preciso: Churchill e Roosevelt. Il primo ministro britannico e il presidente statunitense avevano deciso di portare gli Stati Uniti in guerra, l’uno per alleggerire la pressione dell’Asse sull’Impero britannico, l’altro per ragioni di calcolo politico personale; ma nessuna ragione valida esisteva, secondo lui, perché l’America si gettasse in una guerra catastrofica, nella quale non erano in gioco, a suo parere, gli interessi vitali della nazione.

Ad ogni modo, non fu l’aver puntato il dito contro Churchill e nemmeno contro Roosevelt, che segnò irreparabilmente la parabola discendente del celebre aviatore, che era sembrato incarnare, per oltre un decennio, i valori migliori del popolo americano: il coraggio, l’intraprendenza, la lealtà, la tenacia, l’idealismo e la pulizia morale; fu l’aver puntato il dito contro gi interessi degli Ebrei americani, suggerendo, implicitamente, che essi costituivano una nazione dentro la nazione. Tanto bastò perché scattasse, immediata, l’accusa di antisemitismo; e a nulla valsero le esplicite, risentite, puntigliose smentite, né il fatto che in nessuno dei suoi discorsi pubblici vi fossero elementi a suffragio d’una simile accusa. A ciò si aggiunga, per completare il quadro, che nessuno, nel 1940, né in America, né altrove, sapeva nulla della "soluzione finale" hitleriana del problema ebraico, per il semplice fatto che essa non era ancora iniziata (incominciò, infatti, nel 1941 e si precisò dopo la battaglia di Mosca: quando Hitler, che sarà stato anche un pazzo, ma non era uno stupido, comprese che la guerra era perduta e che la sconfitta totale della Germania era ormai solo una questione di tempo). In compenso, si sapeva abbastanza delle purghe staliniane, dello sterminio dei kulaki e della collettivizzazione forzata nelle campagne russe, per avere ben chiaro quanto fosse criminale la politica di Stalin: ma, una volta che Roosevelt aveva deciso l’intervento, i crimini di Stalin scomparvero miracolosamente, e rimasero solo quelli di Hitler.

A Roosevelt mancava solo il pretesto giusto, come già altre volte esso si era provvidenzialmente presentato: nel 1898, per la guerra contro la Spagna, con l’affondamento della corazzata Maine, e nel 1915, per l’intervento nella Prima guerra mondiale (che ebbe luogo due anni dopo), con l’affondamento del transatlantico Lusitania; e anche questa volta la Provvidenza, si fa per dire, ci mise una mano, servendo al Presidente il pretesto desiderato su un piatto d’argento: l’attacco giapponese a Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941. C’è sempre un Dio che viene in aiuto delle buone cause, evidentemente; a meno che gli uomini si diano alquanto da fare per aiutare quel Dio ad aiutarli, al momento giusto e nelle condizioni ideali.

Dunque, Lindbergh e gli Ebrei: ecco il nome che non si poteva pronunciare senza venire accusati automaticamente di antisemitismo; anche se, quel nome, lo si pronunciava con rispetto e senza alcuna intenzione offensiva; anche se si teneva ben distinta la linea politica ebraica dal popolo ebreo in quanto tale. Vale la pena di riportare un passaggio della biografia dell’aviatore americano scritta dal saggista A. Scott Berg, tanto più notevole se si tiene conto che l’Autore condivide, in buona sostanza, il pregiudizio, tutt’oggi perdurante, di un Lindbergh, se non proprio antisemita, certo almeno un po’ filo-nazista (da: A. Scott Berg, Lindbergh, l’aquila solitaria; titolo originale: Lindbergh, 1998; traduzione dall’inglese di Carla Lazzari, Milano, Mondadori, 1999, pp. 400-403):

Lindbergh si era da tempo ripromesso che nel momento in cui l’entrata in guerra dell’America fosse apparsa inevitabile, avrebbe compiuto un gesto clamoroso, facendo pubblicamente i nomi dei "gruppi più potenti che maggiormente avevano contribuito a spingere gli Stati Uniti allo stato di belligeranza". Il giorno in cui accettò l’invito di America First a parlare a Des Moines, capì che quel momento era arrivato. Scrisse e riscrisse a matita quello che sarebbe stato il suo discorso più provocatorio e gli diede un titolo inequivocabile: "Chi sono i fomentatori della guerra?".

Nel discorso Lindbergh sosteneva che allo scoppio del conflitto gli americani si erano opposti con forza all’intervento, e che da allora "tre gruppi avevano indirizzato il Paese verso la guerra": l’amministrazione Roosevelt, la Gran Bretagna e gli ebrei. Dietro questi, aggiungeva, c’erano "numerosi capitalisti, anglofili e intellettuali, convinti che il loro futuro e quello dell’umanità dipendano dal dominio dell’impero britannico". Il prmo gruppo di pressione, diceva Lindbergh, voleva l’intervento per acquistare maggior potere. Il secondo vedeva nella belligeranza americana un modo per alleggerire il proprio peso militare e finanziario. Ma era il terzo gruppo al centro del suo attacco, quello costituito dagli ebrei, al quale Lindbergh riservava i commenti più taglienti.

Questa parte del discorso di Charles gettò Anne "nel più nero sconforto", non perché dissentisse dalle affermazioni del marito ("quello che dice è, a quanto ne capisco, vero ed espresso con moderazione, senza astio né rancore"), ma perché, confidò al diario, "odio vederlo toccare gli ebrei. Temo la reazione contro di lui". Immaginava già i titoli dei giornali: "Lindbergh attacca gli ebrei", e sapeva che molti non avrebbero letto altro, "desiderosi com’erano di credere le cose peggiori di C.". "L’orrendo grido ‘antisemita’ gli verrà gioiosamente scagliato contro e sbandierato", pensò, perché "è molto più semplice imprimere un marchio infamante su qualcuno che darsi la briga di leggere quello che dice". Tentò di dire queste cose al marito, di fargli capire che il significato delle sue parole non corrispondeva all’effetto che avrebbero avuto, che il suo discorso sarebbe stato considerato "un incitamento all’odio contro gli ebrei".

Charles replicò che il problema non era quali effetti il suo discorso avrebbe avuto su di lui, ma "se quello che dico è VERO oppure no, e se contribuisce a tenerci lontano dalla guerra". […]

Il discorso di Des Moines ebbe luogo l’11 settembre, mentre Roosevelt dava notizia che il cacciatorpediniere americano "Greer" era stato attaccato dai Tedeschi: azione che, però, aveva avuto luogo una settimana prima!]. Benché all’inizio gli altoparlanti non funzionassero bene, i primi intervenuti scaldarono l’atmosfera quel tanto che bastava perché, quando Lindbergh prese a parlare, gli spettatori fossero pronti ad ascoltare, compresi quelli che erano venuti per disturbare. Sei minuti dopo, quando Lindbergh arrivò ai tre gruppi guerrafondai, quasi tutti i presenti scattarono in piedi applaudendo. E per tutto il discorso i pochi dissenzienti vennero messi a tacere.

Nella stesura finale del suo intervento Lindbergh aveva ridotto i commenti sugli ebrei a tre soli paragrafi. E questa fu l’unica occasione pubblica durante il corso di tutto il grande dibattito in cui egli li citò. Benché l’oratore fosse convinto di dimostrare comprensione verso una "tribù" a lungo perseguitata, ognuna delle frasi che pronunciò avrebbe contribuito a imprimere ancora più a fondo sulla sua immagine pubblica il marchio dell’antisemitismo. Dichiarò Lindbergh: "È facile capire perché gli ebrei vogliano la fine della Germania nazista. Le persecuzioni che sono state loro inflitte in quello Stato sarebbero sufficienti a trasformare in un nemico odiato qualsiasi razza. Nessuno che possegga il senso della dignità dell’uomo può giustificare la persecuzione della razza ebraica. Ma nessuno che sia dotato di onestà e lungimiranza può osservare qui e oggi la politica filo interventista degli ebrei senza scorgere i pericoli insiti in tale politica, per noi come per loro… Anziché propugnare la guerra, i gruppi ebraici di questo Paese dovrebbero opporvisi con oggi possibile mezzo, perché essi saranno i primi a pagarne le conseguenze. Le tolleranza è una virtù che ha bisogno di pace e di forza. La storia dimostra che essa non sopravvive alla guerra e alle devastazioni. Alcuni ebrei avveduti se ne rendono conto e si oppongono all’intervento. Ma non è così per la maggioranza. Il pericolo più grande per questo paese deriva dal fatto che essi possiedono e influenzano buona parte del nostro cinema, della nostra stampa e del nostro governo."

Paradossalmente, fu con il terzo paragrafo, quello in cui Charles intendeva pronunciare le parole più compassionevoli, che suscitò le ire più furibonde: "Non ce l’ho né con gli ebrei né con gl’inglesi. Sono due razze che ammiro. Ma io affermo che i leader delle due razze, per ragioni tanti comprensibili dal loro punto di vista quanto improvvide dal nostro, per ragioni che non sono americane, vogliono coinvolgerci nella guerra. Non possiamo biasimarli perché vogliono realizzare quelli che ritengono i loro interessi, ma anche noi dobbiamo badare ai nostri. Non possiamo permettere che le passioni e i pregiudizi naturali di altri popoli conducano il nostro Paese alla distruzione."

Lindbergh si era fatto in quattro per essere gentile nei confronti degli ebrei, ma nel momento stesso in cui lasciava intendere che gli ebrei americani erano "un altro popolo" e che i loro interessi NON erano americani, implicitamente li escludeva, minando così le fondamenta stesse degli Stati Uniti. Lindbergh trascorse quasi tutta la giornata seguente sul treno che lo riconduceva a casa e perciò fu soltanto all’arrivo a New York, il sabato mattina, che apprese con quale profondo disprezzo fosse ormai considerato. Quasi tutti i giornali nazionali rovesciavano insulti sul suo discorso.+"Lo attaccano da tutte le parti" annotò Anne nel diario "l’amministrazione, i gruppi di pressione e gli ebrei, come apertamente nazista e seguace della dottrina nazista". Meditando su questa reazione, Anne si domandò perché mai nessuno l’avesse criticato per aver detto che la Gran Bretagna e il presidente erano filo interventisti. Ma, aggiunse, "pronunciare la parola ‘ebreo’ è antiamericano, anche se lo si fa senza odio o rancore e senza criticare". […] Charles, annotò Anne nel diario, era ormai "il simbolo dell’antisemitismo in questo Paese, e guardato come se ne fosse il leader"…

Lasciamo a Scott Berg la responsabilità di concludere che nel discorso di Des Moins fosse implicita una politica di segregazione razziale: egli è molto abile nel rovesciare la frittata e sostenere che le tesi di Lindbergh "minavano le fondamenta stesse degli Stati Uniti". La verità, secondo noi, sta all’opposto: non era Lindbergh che auspicava il segregazionismo, ma gli ebrei americani (e non loro soltanto) che pretendevano di giocare, per così dire, su due tavoli: come leali cittadini americani, che si identificavano in tutto con gli interessi della loro patria d’adozione, ma anche come ebrei fedeli al giudaismo internazionale e legati alla difesa dei loro confratelli sparsi nel mondo, a cominciare dalla Germania. Va da sé che le due pretese erano, e sono, inconciliabili: è inevitabile che una fedeltà prevalga sull’altra, e non ci sono dubbi su quale delle due prevalse allora, e prevalga oggi. Infatti, così come ci si può chiedere se Lindbergh e tutti quelli che la pensavano come lui — la maggioranza, probabilmente, ripetiamo – avessero poi torto nel sostenere che gli Stati Uniti non avrebbero dovuto entrare in una guerra alla quale erano estranei i loro interessi vitali, allo stesso modo ci si può domandare se la politica filo-israeliana dei governi americani che si sono succeduti dopo la Seconda guerra mondiale e la nascita dello Stato d’Israele, coinvolgendo l’America nel groviglio mediorientale e, più in generale, mettendola in uno stato di conflitto latente con tutto il mondo islamico, rientri davvero nei suoi interessi nazionali: e da chi quella politica venga sostenuta con tanta convinzione, e perché. Si scoprirebbero, crediamo, degli interessanti parallelismi fra le due situazioni. Evidentemente, il discorso di Lindbergh a Des Moines è ancora di grande attualità…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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