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22 Luglio 2016Di storici come Gioacchino Volpe (Paganica, frazione de L’Aquila, 16 febbraio 1976-Santarcangelo di Romagna, allora in provincia di Forlì e oggi di Rimini, 1° ottobre 1971) l’Italia non ne ha avuti molti; Gaetano Salvemini, che pure era schierato sul versante ideologico opposto, lo definì "il migliore storico della sua e della mia generazione".
Fondatore della medievalistica nel nostro Paese, parlamentare, accademico d’Italia, autore di studi di fondamentale importanza, nei quali univa alla passione per le idee il più vivo interesse per le vicende sociali, non si tirò mai indietro dall’impegno politico: nel 1925 firmò il Manifesto degli intellettuali fascisti e, dopo l’8 settembre, aderì alla Repubblica Sociale. Ciò fu sufficiente a far sì che, alla fine della guerra, venisse espulso dall’insegnamento, senz’altra motivazione che quella di essere rimasto fedele, nell’Italia dei voltagabbana, ai propri ideali.
Volpe veniva dal pensiero liberale ed era stato soprattutto un nazionalista; aveva fatto la Prima guerra mondiale come ufficiale, guadagnandosi niente di meno che una medaglia d’argento al valore; aveva seguito con entusiasmo l’impresa fiumana di D’Annunzio, ed era stato soprattutto per reazione alla "vittoria mutilata" e al parlamentarismo degenere che si era avvicinato al fascismo e, poi, vi aveva aderito, senza più ripensamenti. Era tutt’altro che un fanatico, e meno ancora un violento: basti dire che fu lui a convincere Mussolini, presso il quale esercitava un notevole ascendente, a far liberare dal confino e far riconsegnare il passaporto a Nello Rosselli, suo ex studente, e all’amico di lui, Piero Calamandrei. Però, a guerra finita, non volle piegare la testa, non volle ritrattare, non volle sconfessare niente e nessuno: e fu questa rara fierezza a provocarne l’epurazione totale e definitiva.
Il paradosso è che Volpe pensava, da storico, che una vittoria dell’Asse nella Seconda guerra mondiale avrebbe accelerato la fine del fascismo, nel senso che avrebbe ridato forza alle istanze liberali, momentaneamente represse per le superiori esigenze del bene dello Stato; in fondo, partiva dallo stesso ragionamento di Giovanni Gentile, un altro liberale passato al fascismo. Quindi, vedeva nel fascismo un fenomeno di transizione: dal Risorgimento alla piena realizzazione di quest’ultimo, ossia alla conquista della effettiva sovranità nazionale, in un’Europa dove l’Italia avrebbe esercitato il peso che le spettava nel consesso internazionale.
La sua scelta di aderire alla moritura Repubblica di Salò — ed egli, da storico, vedeva benissimo che era una scelta "suicida", in termini politici e umani — nasceva appunto dallo sdegno per la viltà di Badoglio e per la resa senza condizioni, che significava davvero la fine ingloriosa della sovranità nazionale. E il bello è che Volpe era anche un convinto monarchico: convinto, nel senso che riteneva la monarchia un istituto indispensabile per la coesione morale e spirituale del popolo italiano. Altro paradosso: un monarchico tutto d’un pezzo che aderisce alla Repubblica di Salò; perché la Patria minacciata di distruzione, per lui, viene prima di tutto, anche prima della forma istituzionale che pure gli sembra indispensabile.
La verità è che Volpe, con rara lucidità e assoluta coerenza intellettuale e morale, vide quel che quasi tutti gli altri intellettuali italiani non videro, o piuttosto non vollero vedere, né prima, né durante, né, tanto meno, dopo la guerra: che la sconfitta sarebbe stata, per la Patria, il "male assoluto", da evitare a qualunque costo. Mentre la Vulgata politicamente corretta ci ha sempre insegnato che, pur di vedere la caduta del fascismo e il ritorno della "libertà", la sconfitta dell’Italia non sarebbe stata un prezzo troppo alto da pagare, egli invece vide e capì benissimo che la sconfitta dell’Italia sarebbe stata un male irreparabile, che avrebbe relegato per sempre il nostro Paese fra le nazioni che contano poco, perché non possiedono una vera autonomia, e, inoltre, perché avrebbe significato la definitiva rinuncia a "fare gli Italiani", secondo la famosa espressione di Massimo D’Azeglio: cioè a portare a compimento il processo storico iniziato, ma soltanto iniziato, dal Risorgimento, e non ancora compiuto neppure settant’anni dopo, nel 1940, con il raggiungimento dell’Unità politica. E rimasto incompiuto, difatti, ancora oggi.
I fatti hanno dimostrato che Volpe aveva ragione, e gli altri torto: il popolo italiano è rimasto una costruzione a metà; l’Italia è scomparsa dal novero delle potenze sovrane: e questo senza contare gli aspetti morali della filosofia dell’antifascismo e della Resistenza, vale a dire l’attiva collaborazione col nemico affinché il proprio Paese venisse sconfitto. Episodi come il processo per tradimento dell’ammiraglio Maugeri (insignito di un’alta onorificenza dal governo degli Stati Uniti per averlo aiutato durante la guerra), o come l’infame articolo 16 del trattato di Parigi del 1947, che vieta allo Stato italiano di perseguire i suoi cittadini, e soprattutto i membri delle Forze Armate, che ebbero intelligenza con gli Alleati fin dal 10 giugno del 1940, mostrano, a chi lo vuol vedere, che in Italia, e solo in Italia, gli apologeti della Resistenza sono arrivati a gloriarsi, e a farne una nuova filosofia della storia, di aver contribuito alla sconfitta della Patria per mano del nemico che la stava invadendo, affamando e bombardando, e che si accingeva a toglierle, per sempre, la sua effettiva indipendenza e la sua sovranità.
E questo conferma la giustezza del giudizio di Volpe: evidentemente, in Italia lo spirito di parte prevale tuttora sul sentimento nazionale, su quello che una volta si chiamava (ma ora l’espressione stessa è stata bandita, come tronfia e retorica, dalla dominante cultura di sinistra), "amor di Patria". Nelle altre nazioni d’Europa, i cittadini non hanno alcun dubbio: prima viene la Patria, poi viene la propria ideologia: right or wrong, it’s my Country, come dicono gli Inglesi. Da noi, e solo da noi, prevale la filosofia opposta: qualsiasi cosa, anche la disfatta della Patria, purché il partito politico avverso venga abbattuto, magari con l’intervento degli eserciti stranieri. Notiamo, en passant, che le cose non sono affatto cambiate ai nostri giorni, se è vero, come è vero, che le dimissioni di Silvio Berlusconi dal governo, il 12 novembre 2011, furono accolte con giubilo, con lancio di monetine e con le grida di "Buffone!" da parte di tanti Italiani che non capirono, o non vollero capire, né allora, né dopo, che quelle dimissioni erano state il risultato di una manovra internazionale per far fuori definitivamente l’Italia come nazione sovrana. E questo lo diciamo con perfetta serenità, noi che siamo sempre stati contrari a Berlusconi, e che abbiamo sempre denunciato il male che costui stava facendo all’Italia, come capo del governo.
Ma questa è la vera linea di demarcazione fra chi ama innanzitutto l’Italia e chi ama innanzitutto la propria parte politica: saper stabilire responsabilmente una priorità fra la sconfitta del proprio avversario e la rovina del proprio Paese. Gioacchino Volpe pensava, e noi riteniamo che avesse ragione, che l’Italia viene prima di tutto: che nulla è perduto, finché l’Italia è libera e grande, mentre tutto è perduto se l’Italia è vinta e umiliata; che un popolo moralmente sano, come lo era e lo è l’italiano, troverà sempre il modo di correggere gli eventuali errori della politica, ma che nessun popolo può resistere all’infinito al processo di avvilimento e di abbrutimento morale e spirituale causato dalla perdita della sovranità e dell’indipendenza, perché in quel popolo, a poco a poco, si insinuano tutti i vizi connessi alla sudditanza: la vigliaccheria, l’opportunismo, la corruzione, la slealtà, il cinismo, la mancanza di responsabilità, la furberia da quattro soldi, la cialtroneria eretta a sistema di vita e perfino nobilitata da sofismi cortigiani. Sì: il dramma non è stato solo la sconfitta del 1945, ma il modo in cui essa è avvenuta: senza onore, senza orgoglio, e con una guerra civile che è stata alimentata e finanziata dagli invasori per facilitare ad essi la conquista del Paese. Tipico esempio: il criminale consiglio della missione britannica, ai partigiani veneti, di dare battaglia ai Tedeschi e ai reparti fascisti sul Monte Grappa, nel settembre del 1944, quando dei ragazzi quasi disarmati vennero mandati allo sbaraglio al solo scopo di alleggerire il fronte alleato sulla linea degli Appennini. E si vide poi, con il trattato di pace, come gli Alleati ringraziarono gli Italiani "antifascisti e democratici" per il loro contributo alla vittoria finale: trattando l’Italia da nazione nemica e sconfitta, senza appello e senza sconti.
Vale la pena di rileggersi alcune righe di Gioacchino Volpe, scritte sulle macerie ancora calde dell’Italia e pubblicate sulla rivista d’ispirazione cattolica Idea, diretta, a Roma, da monsignor Pietro Barbieri, nel giugno del 1949, in un articolo intitolato Dopo il fascismo. Bilancio (da: Gioacchino Volpe, L’Italia che fu. Come un Italiano la vide, sentì, amò, Milano, Edizioni del Borghese, 1961, pp. 214-217; 224):
…Venne poi l’armistizio, cominciò la guerra civile, che, nella primavera del ’45, assunse il carattere di strage civile: strage di armati contro inermi; di già vincitori, se così non senza ironia si possono chiamare, contro già vinti o anche estranei alla contesa. Esplosero cieco furore di parte, contrapposti interessi e rancori personali, spirito di rapina, quasi da saccomanni che calano sul campo dopo la battaglia, meditati piani rivoluzionari di sapore e di ispirazione moscoviti nascosti fra le molte pieghe delle bandiere della "liberazione". Difficile trovare un motivo ideale. Pagina nera della nostra storia. Né tutto finì lì. Si levò allora quel "vento del Nord", presuntuoso e cattivo, cioè quel furore a freddo che parve dovesse abbattersi, oltre la linea gotica, su tutta la penisola e investire, per "purificarla", quella Italia dei "terroni", che conservava in mezzo al furore un certo senso di umana misura. E da Roma, restaurato il governo, entrarono in piena attività le leggi eccezionali, la punizione dei "delitti fascisti", la "epurazione", le leggi con valore retroattivo, mantenute anche quando la nuova Costituzione le condannò. Già in crisi era l’Italia "fascista", anche prima della guerra, aggravata dalla guerra stessa, in sé o in quanto mal preparata e mal condotta, e dai primi rovesci. Ma ora, la crisi precipitò: e fu anche effetto di quelle stragi, di quelle leggi, di quella "epurazione". Si assisté ad una gara di rinnegamenti e camuffamenti, per nascondersi e anche per accodarsi al vincitore e dividerne le fortune, che non mancò di elementi caricaturali e, venuta dopo una sconfitta di cui allora non si volle vedere se non gli aspetti negativi, dopo il dissolvimento e la polverizzazione dell’esercito, fornì ai nemici qualche materia di riso e rese TOTALE la loro vittoria. Spettacolo, in verità, non edificante, che ridiede attualità alle vecchie domande, ai vecchi dubbi: insomma, che cosa sono questi Italiani? Non meno edificante lo spettacolo di quei "colonnelli" da guerra civile, di quei "partigiani" accanitisi più contro gli Italiani che non contro i Tedeschi, di quegli esuli o fuorusciti tornati in groppa al cavallo del vincitore e circolanti sotto la garanzia di un fatidico numero, cioè di un umiliante articolo del "Diktat", di quegli ex manovratori di radio clandestine e segnalatori di navi in partenza e di obiettivi più o meno militari, che circolarono per le piazze, si esibirono nei teatri o fra i ruderi romani, ascesero ad alti posti di comando, entrarono in Parlamento, s’insediarono in onorifici e lucrosi uffici, senza che molto scandalo ne prendesse l’opinione pubblica.
Infine, lo smantellamento della vecchia impalcatura statale. Con un processo più che sommario, fu condannata l’unità ed instaurato lo "Stato regionale". Condannata anche la Monarchia, già riconosciuta sussidio potente di quella unità; messa al bando una dinastia a cui pure si erano quasi universalmente riconosciute fino allora molte benemerenze di fronte alla stria ed all’Italia. Ma bisognava trovare un capro espiatorio di colpe che, se colpe erano, erano di tutti, anche e forse specialmente di quanti, pur condannando il vecchio regime, nulla di serio avevano fatto, nulla patito, nulla rischiato per modificarlo o demolirlo, anzi più di una volta avevano unito la loro voce di plauso al plauso degli altri. E il capro espiatorio fu il Re. […]
Ma non bisogna mentire a noi stessi e agli altri, Il Fascismo fu anche, per milioni e milioni di Italiani, un’altra cosa: fu Mussolini. Oggi pare dimostrato che egli fu il più orrendo mostro vomitato dall’averno, il più volgare istrione. Tanti lo han detto, ed anche con filosofica competenza e sicurezza [questa frecciata è, in primo luogo, per Benedetto Croce]. Ma nessuno può dubitare che egli prese, "ammalò" di sé milioni e milioni di Italiani. Tutti scellerati, venduti, babbei? In realtà, egli ebbe eccezionali doti di conduttore di uomini, anche se non ressero fino in fondo. Ed animò gli Italiani anche a cose alte e belle. Li aiutò a risalire la corrente dopo il 1919, a riconquistare fiducia nelle forze della Nazione. Rese più lieto, perché illuminato da speranze, il lavoro di molti, di ogni lavoro e di ogni classe. Qualche volta li portò a temperature di fusione. In ogni modo, egli è morto e non rinascerà, né altri verrà al su posto…
Chi ha scritto queste parole, e le ha scritte nel 1949, e le ha scritte dopo aver perso la cattedra, le cariche, gli onori, per restar fedele alla memoria dei morti, ed ai sentimenti e al lavoro di una vita; e chi le ha scritte nel Paese di Pulcinella, dove, al termine di una mattanza civile che ha prodotto decine di migliaia di morti, parecchi dei quali ammazzati dopo aver deposto le armi, o anche senza averle mai impugnate, ma dove decine di migliaia di "eroi" si affannarono a indossare la camicia o il fazzoletto rossi e ad avanzare la richiesta di riconoscimento ufficiale della loro qualità di "combattenti per la libertà": ebbene, queste parole sono quelle di un galantuomo, di un signore, di una personalità come non si può dire che l’Italia ne abbia prodotte molte, nel corso della sua storia recente.
Se avessimo avuto qualche Gioacchino Volpe in più, e qualche Palmiro Togliatti in meno, l’Italia, pur nella sconfitta, sarebbe rimasta, o sarebbe ridiventata, un grande Paese, fiero di sé e capace di guardare al futuro con speranza, con coraggio e a testa alta. Forse, oggi non assisteremmo alla migrazione inversa di migliaia e migliaia di giovani italiani, laureati, professionisti, imprenditori, intellettuali, che se ne vanno via dall’Italia, forse per sempre, per non avervi trovato, non solo le condizioni necessarie a vivere e lavorare in condizioni ragionevolmente accettabili, ma neppure un ragionevole orizzonte di speranza per il domani, per i loro figli che nasceranno. Perché la crisi dell’Italia è, prima ancora che economica e finanziaria, una crisi morale; e la sue radici partono da lontano: partono, probabilmente, dalla guerra civile del 1943-45, e dal vergognoso castello di menzogne che ha costruito su di essa la retorica democratica e resistenziale.
Anche a questo proposito, suona tremendamente lucida la predizione di Gioacchino Volpe — morto nel 1971, quarantacinque anni fa — che pare scritta oggi: Per un pezzo e forse per sempre saremo ridotti a uno staterello, una specie di pianeta spento come la luna, un grosso Portogallo, una grossa Grecia.
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