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Come e perché l’Italia si è giocata il ruolo di grande potenza

In parte prima ancora della Prima guerra mondiale (1882: ingresso, a pari titolo, nella Triplice Alleanza, con Germania e Austria-Ungheria), ma soprattutto dopo il 1918, grazie ai frutti della vittoria, l’Italia raggiunse — e non "sfiorò" solamente, come sostiene Sergio Romano — lo status di grande potenza, non solo europea, ma mondiale. Acquistò gradualmente un peso politico e militare, e un prestigio internazionale, quale non aveva mai avuto prima, e mai più ebbe in seguito. Con il Trattato Navale di Washington, del febbraio 1922, fu ammessa nel club delle cinque maggiori potenze marittime mondiali: e la sua flotta da guerra, fino al 1940, non fece che crescere, diventando una delle maggiori del pianeta. Anche la sua aviazione ebbe una fase di grande prestigio; fu ammirata e invidiata, specialmente al tempo delle due grandi trasvolate atlantiche: quella dell’Atlantico meridionale, verso il Brasile, del 1931 e quella dell’Atlantico settentrionale, verso gli Stati Uniti, del 1933. Nel 1935-36, con la conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’Impero, nonostante le sanzioni decise dalla Società delle nazioni, l’Italia divenne anch’essa una potenza coloniale di tutto rispetto. Questa parabola ascendente proseguì con il Patto d’acciaio, stipulato il 22 maggio 1939, da pari a pari, con la maggiore potenza militare dell’epoca, la Germania di Hitler, e poi con la stipulazione del Patto Tripartito, il 27 settembre 1940, a pari dignità e diritto, con la Germania e il Giappone.

Poi, si sa come è andata. Oltre alle sconfitte militari, alla distruzione della marina commerciale e alla resa ignominiosa di quella militare, alla perdita delle colonie, all’armistizio dell’8 settembre 1943, all’implosione delle istituzioni, alla drammatica lacerazione della guerra civile e al trattamento da Paese sconfitto ricevuto nel trattato di Parigi del 10 febbraio 1947, con buona pace delle anime belle, democratiche e resistenziali, che pensavano di traghettare tranquillamente l’Italia verso un futuro radioso, accanto alle potenze ex nemiche e in perfetta sintonia con loro, come se nulla fosse stato: oltre a tutto questo, ci fu qualche cos’altro. Ed è su questo punto che vogliamo svolgere una riflessione, anche per capire meglio il nostro presente.

L’Italia del 1947 era una azione sconfitta, sì, ma, in fin dei conti, e nonostante la perdita di credibilità causata dal voltafaccia dell’8 settembre di tre anni e mezzo prima, esistevano ancora degli spiragli, se la sua classe politica avesse giocato bene le proprie carte, per riguadagnare nell’Europa postbellica una buona parte di ciò che aveva perduto con la guerra e con la disfatta. In fin dei conti, anche la Francia, con la disfatta del giugno 1940, era uscita, di fatto e di diritto, dal club delle grandi potenze, eppure nel 1947 riuscì a riconquistarlo. E nondimeno, è evidente che la vera Francia era stata quella del maresciallo Pétain; per quattro anni, la maggioranza del popolo francese aveva approvato la sua politica. De Gaulle non era che un generale ambizioso e indubbiamente patriottico, ma, nell’estate del 1940, era un capo senza esercito, senza armi e senza idee, che dipendeva interamente dallo scomodo alleato inglese (scomodo, per il proditorio attacco navale di Mers-el-Kebir e per quello terrestre contro la Siria) e dal futuro alleato americano. Eppure, De Gaulle seppe giocar bene le sue carte, e, nel 1945, alla resa dei conti, gli Anglo-americani e i Sovietici fecero finta di credere che la vera Francia fosse la sua, e le "restituirono" benignamente, almeno sulla carta, il suo ruolo di grande potenza, con tanto di seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’O.N.U., mentre il povero Petéin, Laval e i gli altri uomini di Vichy presero su di sé tutte le colpe e, grazie al loro sacrificio, il Paese poté traghettare felicemente sulla sponda dei vincitori, dove si decidevano i destini del mondo.

In Italia, Vittorio Emanuele III e Badoglio, le loro carte, le giocarono malissimo: in pratica, sprecarono i quarantacinque giorni fra l’arresto di Mussolini e l’annuncio dell’armistizio, provocando un disastro materiale e morale dal quale il Paese non si riprese più, perché non bastò loro scaricare ogni colpa sulla caduta dittatura, non furono all’altezza del cambio di bandiera e non seppero vendere bene neppure il loro tradimento. Fino all’ultimo chiesero un aviosbarco su Roma, al quale avrebbero dovuto cooperare le non poche divisioni italiane presenti nell’area della capitale; e quando gli Alleati si resero conto che stavano solo tergiversando e cercando di guadagnare tempo, senza un vero piano, senza volontà di battersi, anzi, rimuginando ancora in extremis da che parte buttarsi, se coi Tedeschi o contro di loro, decisero di soprassedere e di annunciare alla radio l’avvenuto armistizio. Avevano capito con chi avevano a che fare, e non se lo fecero dire due volte: da quel momento, l’Italia fu declassata ai loro occhi, non solo in quanto Paese sconfitto, ma in quanto Paese governato da una classe dirigente inaffidabile, spregiudicata fino al cinismo e bassamente machiavellica: insomma, un futuro partner necessario, vista la sua importanza strategica, ma assolutamente inaffidabile.

Per dirla con De Gaulle (in una intervista concessa al giornalista Indro Montanelli): l’Italia non era un Paese povero, ma un povero Paese. Il trattamento punitivo riservato all’Italia "cobelligerante" nei trattati di pace del 1947 fu la dimostrazione evidente di quel che gli Alleati pensavano della nostra classe dirigente: l’antifascismo, per loro, voleva dire ben poco, se persistevano tutti i vecchi vizi della dittatura e quelli ancora più antichi, del moribondo Stato liberale: clientelismo, opportunismo, trasformismo, dilettantismo, faciloneria criminosa, corruzione, inefficienza, furbizia da quattro soldi, assoluta mancanza di principi, di coerenza, di credibilità. Cosa ancor più grave, la classe dirigente italiana, a cominciare dai politici e dagli intellettuali, non volle fare una seria riflessione sulle radici dell’esperienza fascista: utilizzò il fascismo come testa di turco, per scaricare su di esso tutte le "colpe" per cui il Paese era stato portato alla disfatta; ben pochi si chiesero se, per caso, la sconfitta del fascismo non fosse stata anche la definitiva sconfitta degli interessi nazionali italiani, cioè dell’opera iniziata con il Risorgimento e culminata con l’Unità.

Eppure, nonostante tutto, il destino volle offrire all’Italia un’ultima possibilità di reinserirsi nel circolo ristretto delle grandi potenze — grandi, si capisce, relativamente parlando, perché dopo la Seconda guerra mondiale tutta l’Europa, vittima del proprio suicidio, era diventata molto più piccola di quanto non lo fosse nel 1939. Non si deve credere che fosse solo la disponibilità di un arsenale militare nucleare, o del possesso di un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a fare la differenza tra i Paesi che contano e quelli che non contano: la Germania e il Giappone, i nostri ex alleati della guerra, si trovavano, da quel punto di vista, nelle nostre stesse condizioni. La vera differenza era fra una classe dirigente efficiente e affidabile — efficiente all’interno e affidabile sul piano internazionale. La Germania e il Giappone l’avevano, come l’aveva la Francia; l’Italia, non l’aveva e non ce l’ha nemmeno oggi. Questa è la vera differenza, dalla quale discendono tutte le altre.

Il nostro Paese, protagonista di uno sviluppo economico tumultuoso e, per certi aspetti, spettacolare, con una moneta di nuovo molto forte, con un cospicuo risparmio pubblico e privato, con una riserva aurea di prima grandezza, con un sistema bancario in ordine, con una larga disponibilità di manodopera a basso costo e con una classe imprenditoriale ben preparata, laboriosa, onesta e coraggiosa, specie ai livelli medi e piccoli, era, a cavallo degli anni ’50 e ’60 del Novecento, nella posizione giusta per riguadagnare le posizioni perdute e per tenersi ad un livello produttivo pari a quello delle maggiori potenze europee. Erano gli anni in cui le automobili Fiat sfrecciavano in tutti i Paesi d’Europa (e del mondo); Enrico Mattei "soffiava" alle Sette sorelle i mercati petroliferi mediorientali; le macchine da scrivere Olivetti e le lavatrici Indesit si vendevano ovunque; le scarpe e i vestiti italiani dettavano le regole della moda; il cinema italiano conquistava i premi e le sale cinematografiche di mezzo mondo, e perfino i cantanti italiani tenevano botta ai maggiori artisti e gruppi anglosassoni; mentre la lira era una garanzia di stabilità, e ai bambini, nelle scuole elementari, si regalava un salvadanaio per educarli al senso del risparmio.

Ecco: in quel momento, nonostante l’8 settembre del 1943 e nonostante il trattato di Parigi del 1947, l’Italia ebbe una estrema opportunità di reinserirsi nel gruppo delle maggiori potenze europee e di tornare a svolgere un ruolo internazionale di un certo peso. Ma De Gasperi non c’era più, e nessun uomo politico italiano, dopo di lui, seppe conquistarsi una posizione di prestigio analoga alla sua, né in Italia, né all’estero. I vecchi problemi irrisolti, dal divario fra Nord e Sud alla mafia, dalla lentezza della giustizia alla invadenza dei partiti e dei sindacati, non furono avviati a soluzione, anzi, si aggravarono ulteriormente: la classe dirigente tirava a campare, viveva di compromessi, faceva una politica di piccolo cabotaggio. Non sapeva pensare in grande, non sapeva sacrificare privilegi anacronistici, non osava mettere il coltello nella piaga degli sprechi, delle inefficienze, dei clientelismi, dei privilegi corporativi; non sapeva o non voleva incidere a fondo, far uscire il pus, disinfettare e medicare le ferite, ripartire su basi nuove. La demagogia dominava ovunque: tutti facevano a gara nel promettere sempre di più, i partiti, i sindacati; e le promesse si bruciavano da sole, senza che vi fosse mai un mea culpa, una assunzione di responsabilità, un repulisti dei corrotti e degli incapaci, un redde rationem per chi aveva fallito.

In queste condizioni l’Italia fu sorpresa dal vento di rivolta del 1968 e, poi, dall’autunno caldo del 1969; la crisi petrolifera conseguita alla guerra del Kippur, pochi anni dopo, avrebbe fatto il resto. L’Italia non decollò, anzi, incominciò a retrocedere; i governi divennero sempre più precari e la loro azione, di conseguenza, sempre più aleatoria, sempre più marginale: ciò a cui miravano era di durare qualche mese in più, qualche settimana in più, non a impostare le grandi riforme strutturali — della giustizia, del fisco, della scuola, del sistema elettorale — di cui il Paese aveva assoluto bisogno per ripartire. Dalla fine degli ani ’60 e dall’inizio degli anni ’70, l’Italia cominciò ad essere il grande malato d’Europa: un malato ingombrante, se non altro per le sue dimensioni, ma soprattutto per il divario stridente, ed evidente, fra le sue potenzialità e ciò che, in pratica, stava facendo di essa la sua classe dirigente, ossia un Paese marginale, arretrato, quasi allo sbando. In breve, la madre di tutti i problemi italiani era, ed è, la cattiva amministrazione: Paesi meglio amministrati, come la Francia, ma con potenzialità, tutto sommato, inferiori alle nostre, ci sono definitivamente passati avanti; mentre noi siamo rimasti al palo, o siamo scivolati indietro.

Non era un destino che così fosse. Perfino oggi, che il nostro momento favorevole è passato da un pezzo, conserviamo un livello di eccellenza in alcuni settori ben definiti: i nostri artigiani e professionisti, specie nel settore edile, o dell’arredamento, o dell’artigianato di qualità, sono tuttora apprezzatissimi e quasi senza rivali in Europa. Che cosa non avremmo potuto fare, se fossimo stati supportati, come sistema-Paese, da una classe dirigente, e specialmente da una classe politica, all’altezza dei loro compiti! Né la carenza di materie prime, né l’assenza di un arsenale atomico o di un seggio permanente all’O.N.U., avrebbero fermato la marcia dell’Italia verso le posizioni di vertice dell’Europa unita e della politica internazionale, specie nello scacchiere mediterraneo. I rapporti con il mondo islamico, con l’area balcanica, con le realtà africane, avrebbero visto l’Italia fra protagonisti della grande politica. Invece non contiamo quasi più nulla: lo si è visto in Serbia nel 1999, in Iraq nel 2003, in Libia nel 2011, dove Americani, Britannici e Francesi ci sono sistematicamente passati davanti, senza nemmeno consultarci, e creando delle situazioni geopolitiche ed economiche contrarie ai nostri interessi nazionali.

Il fatto è che la classe di governo di questi ultimi anni si è spinta ancora più avanti sulla strada della auto-mortificazione nazionale: non si è limitata a non saper difendere gli interessi vitali della nazione, si è prestata attivamente a favorire i disegni stranieri a danno del nostro Paese. Noi stiamo qui a parlare come se ci trovassimo in una democrazia matura e "normale", ma le cose non stanno proprio così. Molti di noi si sono quasi dimenticati, o sono indifferenti, al fatto che, dal 2011, l’Italia non ha più avuto un governo democraticamente eletto dal popolo, e chi ci governa oggi vorrebbe protrarre questa situazione, innaturale e pericolosa, il più a lungo possibile. Monti, Letta, Renzi: tre premier che si sono succeduti l’un altro, e nessuno dei quali si è degnato di passare attraverso la verifica delle urne elettorali. Tre nominati dall’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Per conto di quali forze, e per fare gli interessi di chi?

Ecco, sul tema dell’Italia come grande potenza mancata, le riflessioni di Sergio Romano (in: Europa, storia di un’idea. Dall’impero all’Unione, Milano, Longanesi & C., 2004, 155-158):

L’Italia [dopo il 1945] non poteva aspirare, come la Francia, al ruolo di "grande potenza" europea che aveva sfiorato nel periodo fra le due guerre. Ma anche il suo europeismo ebbe subito una forte motivazione nazionale. Quando il parlamento dovette ratificare il trattato di pace, alcuni esponenti della vecchia classe dirigente liberale (Croce, Nitti, Orlando) lo considerarono ingiustamente punitivo. Croce, in particolare, sostenne che era preferibile non accettare il Diktat, non piegare la testa. Luigi Einaudi invece ritenne che era meglio formare, chiudere in fretta quel capitolo della storia nazionale e guardare al futuro. Forse aveva compreso, meglio di Croce, che il fascismo era riuscito a esprimere le aspirazioni nazionali del Paese e che il suo fallimento avrebbe inevitabilmente proiettato un’ombra sull’intera storia dello Stato risorgimentale. Ad attizzare il fuoco del dibattito avrebbero pensato i comunisti, i massimalisti del partito socialista, i nostalgici del potere temporale, i cattolici di sinistra. Per evitare il ripudio e la condanna di quasi cento anni di storia nazionale, era necessario dare un nuovo senso all’Italia, assegnare allo Stato risorgimentale, per meglio salvarlo, un nuovo compito. La costruzione dell’unità europea avrebbe risparmiato all’Italia una acrimoniosa e inconcludente discussione sulla storia nazionale.

L’uomo che meglio riuscì ad argomentare il disegno di Einaudi fu probabilmente Carlo Sforza. […] Quando Alcide De Gasperi lo chiamò al ministero degli Esteri nel gennaio 1947, Sforza poteva quindi sostenere, con qualche forzatura retorica, che la Repubblica proclamata nel giugno dell’anno precedente aveva le sue radici in quella sognata da Mazzini negli anni in cui fondava la Giovane Italia e la Giovane Europa. E poteva affermare che quella Italia non aveva perduto la guerra. In un discorso pronunciato a Perugia il 18 luglio 1948 ricordò che Talleyrand aveva salvato la Francia sconfitta al Congresso di Vienna , nel 1815, persuadendo gli altri sovrani a ricostruire l’Europa secondo il principio di legittimità. Ebbene lui, Sforza, avrebbe salvato l’Italia divenendo il migliore avvocato della causa europea."Bisogna che tutti sappiano", disse, "che l’unico modo di salvarci da una terza guerra mondiale e l’unico modo di acquistarci il primato che alla lunga conta, quello delle idee, è divenire araldi dell’unione di un’Europa abbastanza generosa e chiaroveggente a persuadere ognuno dei piccoli Stati che la compongono — anche la Germania, anche la Francia sono divenute piccole di fronte alla tecnica moderna . a rinunziare a una pare della propria sovranità , come i nuovi stati nordamericani abdicarono a una pare della loro sovranità, come due generazioni dopo fecero i cantoni svizzeri. […]

Mentre Sforza per salvare l’Italia e fare l’Europa, si appellava a Mazzini, Alcide De Gasperi ricorreva alla sua esperienza di parlamentare tirolese a Vienna negli anni n cui la Dieta dell’impero asburgico rappresentava una straordinaria costellazione di gruppi etnici e nazionali. I riferimenti all’impero carolingio divennero da allora, per alcuni anni, uno dei più abusati leitmotiv della retorica europeista. Ma è probabile che l’Europa apparisse davvero a De Gasperi una ideale continuazione del Sacro romano impero e che egli traesse da questo sentimento di continuità un ceto ottimismo per il futuro. […]

[Nel 1954, quando fallì, per un voto dell’Assemblea nazionale francese, la CED, Comunità europea di difesa, propugnata da De Gasperi…] vi era già allora una parte della classe politica italiana per cui l’Europa non era uno scopo, ma un mezzo, utile per permettere che il Paese uscisse il più rapidamente possibile dal ghetto degli Stati sconfitti e riconquistasse la propria autonomia soprattutto nel Mediterraneo. Era un’Italia indotta a "fare da sé", paradossalmente, non soltanto dalle sue ambizioni, ma anche dall’incapacità di stare al passo con gli altri. Negli anni in cui Francia, Italia e Germania erano afflitte dagli stessi mali (disoccupazione, finanziamento della ricostruzione, conversione dell’economia di guerra in economia di pace, creazione di un nuovo sistema politico), De Gasperi era riuscito a creare con Adenauer e Schumann un triumvirato di saggi, rispettato da tutti gli europei. Ma con il passare del tempo, mentre gli altri problemi venivano gradualmente risolti, l’Italia scivolò fuori dal gruppo dirigente.

La colpa fu principalmente del sistema politico. Dall’inizio degli anni Sessanta, dopo l’apertura a sinistra dei successori di De Gasperi, l’esecutivo divenne sempre più fragile, i governi sempre meno stabili, i partiti politici sempre più invadenti, le corporazioni sindacali sempre più arroganti. Non basta. Questo sistema inefficace si dimostrò presto terribilmente oneroso. I continui patteggiamenti e compromessi tra le forze politiche avevano un inevitabile costo economico. Dalla fine degli anni Sessanta i governi italiani cominciarono a distribuire più risorse (pensioni, sanità, sussidi alle imprese, prezzi politici per servizi pubblici) di quante il Paese non ne producesse. E ricorsero, per esportare, a svalutazioni competitive. L’Europa capì di non poter contare sull’Italia quando si accorse che la crisi studentesca e sociale della fine degli anni Sessanta stava producendo effetti più gravi e duraturi che in qualsiasi altro Paese della Comunità. Per le maggiori potenze europee e più generalmente dell’Occidente l’Italia divenne un partner scomodo, spesso imbarazzante: troppo grande per essere trascurato, e ignorato, tropo inaffidabile per essere ammesso a un circolo direttivo. Quando il Presidente francese, Valéry Giscard d’Estaing, propose un club delle maggiori potenze industriali, l’Italia non venne invitata. Fu ammessa più tardi, grazie agli Stati Uniti , preoccupati della possibilità che quello "schiaffo" indebolisse i partiti moderati e filo-occidentali a vantaggio dei comunisti. Fu questa la ragione per cui l’Italia, soprattutto dalla seconda metà degli anni Sessanta, fu diligentemente europea, ma poco adatta ad assumere, al vertice della Comunità, responsabilità direttive. Ed è questa la ragione per cui una parte della classe politica è continuamente tentata dal desiderio di "fare da sé": un modo per evitare scomodi confronti con Paesi meglio governati.

Resta poco da aggiungere a questa analisi, impietosa e quasi crudele, ma acuta.

In definitiva, la svolta tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 del ventesimo secolo è quella che ci ha visti retrocedere fatalmente nell’area anonima delle nazioni che hanno poca voce in capitolo su tutte le grandi questioni internazionali. Un esempio di ciò è dato dal fatto che i generosi finanziamenti italiani all’O.N.U. non sono mai serviti neppure a creare quel minimo di simpatie internazionali per caldeggiare la candidatura italiana quale sede dei giochi olimpici; e che il gravoso impegno militare italiano all’estero ha fatto sì che disperdessimo uomini, mezzi e denari in parecchi scacchieri del mondo, nessuno dei quali è per noi vitale, mentre ci troviamo penosamente a corto di uomini, mezzi e denari (oltre che di idee) proprio nei settori che sarebbero decisivi per la protezione dei nostri supremi interessi nazionali. Un solo esempio renderà l’idea, e possiamo formularlo in questa domanda: che senso ha continuare a finanziare la nostra presenza militare nel lontano Afghanistan, quando altri Paesi fanno il bello e il cattivo tempo nel mare di casa nostra, rovesciano il governo libico che era nostro alleato, e creano le condizioni perché le nostre coste siano invase da folle immense di migranti che salpano proprio dai porti della Libia?

Il problema di fondo, però, non è neppure la cattiva amministrazione, accompagnata dalla instabilità politica, del nostro Paese; e nemmeno le dimensioni spaventose che ha assunto il nostro debito pubblico. Il problema è che la classe dirigente italiana è l’espressione naturale del carattere nazionale: il quale possiede, senza dubbio, delle qualità invidiabili, ma, quasi sempre, di tipo strettamente individuale; quando sono chiamati a fare gioco di squadra, gli Italiani — per usare un gentile eufemismo – non sanno dare il meglio di se stessi. Detto in parole ancora più semplici: gli Italiani hanno la classe dirigente che si meritano. Il cittadino italiano medio non è migliore del politico medio, o del pubblico amministratore medio, o dell’insegnante medio, o dell’imprenditore medio: opinare diversamente, significa illudersi, e coltivare il vecchio vizio del vittimismo e della dissociazione delle proprie responsabilità dalle responsabilità generali. Non si può dare sempre la colpa agli altri: bisogna anche sapersi guardare allo specchio, riconoscere le proprie insufficienze e assumersi le proprie responsabilità.

Si tratta di problemi che risalgono al Risorgimento ed al modo in cui è stata fatta l’unità nazionale; ma risalgono anche più indietro, di secoli e secoli; problemi che, cosa ancor più grave, non sono stati oggetto di una profonda riflessione autocritica da parte della nostra cultura e della nostra classe dirigente. Peccato, perché uno studio di quel genere avrebbe potuto rivelarci molto di noi stessi, e aiutarci a trovare una risposta adeguata a molti dei problemi irrisolti che ci affliggono. Il dramma non è che da noi accadano ancora incidenti ferroviari come quello di Andria, del 12 luglio 2016: il dramma è che i responsabili, per prima cosa, gridino la loro innocenza.

Il carattere nazionale è stato bene illustrato dalla vicenda del capitano Schettino, specialmente durante e dopo il processo. I suoi compaesani lo hanno accolto con affetto e simpatia, lo hanno difeso a spada tratta, lo hanno salutato come un eroe che ritorna dalla guerra di Troia, come un novello Ulisse che approda alla sua petrosa Itaca, dopo mille avventure e lunghe sofferenze. E, con ciò, si sono qualificati da soli. Ebbene: questo è un ritratto frustrante, ma sostanzialmente veritiero, del nostro carattere nazionale, e sia pure con qualche distinguo e qualche differenza, specialmente fra il Nord e il Sud del Paese. Finché gli abitanti dei quartieri malavitosi seguiteranno ad accogliere la polizia a fischi e sputi, e a gettare contro di essa ogni sorta di proiettili impropri, dalle finestre, delle case — tazze, vasi da fiori, arredi da bagno – quando si presenta per arrestare un mafioso o un camorrista, non vi sarà alcuna speranza di riscatto, né di vedere l’Italia assurgere a quel ruolo di Paese guida cui la sua storia, la sua tradizione, la sua arte, la sua scienza, la sua funzione spirituale e religiosa, le darebbero, in teoria, pieno diritto.

Non resta che sperare nelle prossime generazioni. Forse, esse sapranno sottrarsi, prima o poi, al vecchio e radicato vizio italiano di scantonare davanti alle proprie responsabilità: il vizio dei generali dell’8 settembre. Altrimenti, non vi sarà neppure la più pallida speranza che le cose possano prendere, prima o dopo, una piega diversa, e assicurare all’Italia un futuro degno di questo nome, e un posto eminente nel consesso delle nazioni.

Ma, se anche ciò accadesse, vi sarà ancora abbastanza tempo per invertire la rotta ed evitare il naufragio?

Tanto più che l’Italia, fra due o tre generazioni, non sarà più l’Italia che noi abbiamo conosciuto, che abbiamo amato e (qualche volta) anche detestato, ma per troppo amore; sarà, come gran parte dell’Europa, un’altra cosa. Sarà un’appendice del mondo islamico.

A quel punto, il problema di riformare il carattere nazionale diverrà obsoleto, per il semplice fatto che non ci sarà più una nazione, né un carattere specificamente italiano…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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