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Nazionalismo e fascismo nella interpretazione della storiografia liberale

L’interpretazione del fascismo operata dalla storiografia liberale "classica", rappresentata in modo esemplare da Benedetto Croce, è stata quella di una malattia che colpisce un corpo ancora gracile, ma, nel complesso, sano; una malattia che passa, come passano il morbillo e gli orecchioni, lasciando l’organismo più robusto e temprato di prima. Il corpo sano era la società italiana, forgiata dal Risorgimento e, in modo speciale, dalle forze politiche liberali, particolarmente dal Cavour: una società che, grazie appunto all’opera del partito liberale, si stava avviando verso la realizzazione di una società integrata, socialmente e culturalmente, in cammino verso la democrazia e la valorizzazione delle forze del lavoro, quale necessario complemento all’azione politica della classe dirigente giolittiana, cioè della componente liberale progressista.

Diametralmente opposta ad essa è l’interpretazione del fascismo proposta da un ex liberale come Giovanni Gentile: il fascismo è stato la prosecuzione, la ripresa e il culmine del movimento risorgimentale, passato attraverso la grande prova della partecipazione italiana alla Prima guerra mondiale e dei nuovi problemi posti non solo dal dopoguerra, ma dall’avvento della società di massa e dalle forme più avanzate dell’economia, della finanza e della politica moderne, in un mondo sempre più "globalizzato". Per Croce, dunque, esso fu l’Antirisorgimento; per Gentile, l’erede legittimo e diretto del Risorgimento ottocentesco; l’erede della grande tradizione di Mazzini, di Garibaldi, di Pisacane, insieme a quella di matrice liberale e monarchica.

E il nazionalismo, come si colloca in questo schema? Secondo la storiografia liberale, il nazionalismo, proprio come il fascismo, è stato un corpo estraneo nel contesto della società italiana di inizio Novecento: esso ha rivendicato un ruolo imperiale per l’Italia, ma soltanto sul piano della forza e nella sfera territoriale, senza alcuna idealità; e così esso ha negato quanto vi era di meglio nel patrimonio ideale del Risorgimento, prendendo a prestito da filosofie straniere il proprio bagaglio ideologico, specialmente dallo statalismo hegeliano, dal darwinismo sociale, dal superomismo nietzschiano e dal sindacalismo rivoluzionario soreliano; e avvalendosi, poi, soprattutto dell’apporto dei settori sociali italiani più "retrivi" (l’espressione, assai poco imparziale, è del Salvatorelli), vale a dire i clericali, gli industriali ultraconservatori e, in genere, gli esponenti più reazionari della vecchia classe dirigente liberale, invelenita, dopo il 1919, per il fatto di essere stata praticamene spodestata dalle forze nuove del socialismo e del cattolicesimo politico.

Fu così, secondo gli storici liberali progressisti, che ebbe luogo la "saldatura" fra nazionalismo e quella parte del socialismo massimalista che, diventato interventista nel 1914-15, era venuto a convergere con gli obiettivi del nazionalismo "retrivo" e "clericale", contrapponendosi al blocco "progressivo" dei nuovi partiti di massa e delle giovani organizzazioni sindacali, ai quali il giolittismo aveva fatto da levatrice e che aveva immesso nell’alveo della vita politica nazionale, sottraendole alla irrilevanza e ad una cultura politica del rifiuto, di segno puramente negativo. Di nuovo, ci troveremmo così di fronte a una marcia verso il progresso delle forze sociali liberali, cattoliche e socialiste, sbarrata da un blocco reazionario formato da ex massimalisti pentiti, nazionalisti, fascisti e clericali, cui si sarebbero aggiunti quei liberali che, amareggiati per il tracollo elettorale del primo dopoguerra e per la crisi economica che colpiva la loro base sociale borghese, sognavano la rivincita e, con essa, il ritorno alla guida politica del Paese. Guarda caso, una interpretazione storica che esalta il ruolo della stessa parte politica che rivendica di aver svolto la funzione decisiva nella evoluzione democratica della nazione; e che, nello steso tempo, rovescia su altri — guarda caso, sugli sconfitti del 1943 — ogni responsabilità per la interruzione di quella marcia rassicurante, e si auto-assolve per qualunque eventuale responsabilità, egoismo o miopia.

Un classico esponente di questa lettura del nazionalismo e del fascismo, così politically correct dopo il 1943, è stato Luigi Salvatorelli (Marsciano, Perugia, 1886-Roma, 1974), tipico liberale progressista, già aderente alla Unione Nazionale di Giovanni Amendola, poi, nel 1942, tra i membri fondatori del Partito d’Azione. Il fascismo non era quasi caduto, che già egli dava alle stampe, nello stesso 1943, Pensiero e azione del Risorgimento, nel quale, prima ancora che il fascismo fosse definitivamente liquidato come esperienza storica (ciò che sarebbe avvenuto, come è noto, solo due anni dopo), già ne pronunciava l’epitaffio e divideva le forze della società italiana in "buone" e "cattive": buone, quelle liberali progressiste, che avevano fatto l’Unità d’Italia, avevano avviato la nazione sulla strada delle riforme e della democrazia, e che si candidavano, ora, insieme agli altri gruppi antifascisti, a riprendere il cammino interrotto dopo l’infausta "parentesi" del Ventennio; cattive, quelle che avevano tradito lo spirito del Risorgimento, deformandolo in nazionalismo, indi avevano gettato il Paese nelle braccia di un dittatore che aveva soffocato l’emergere della dialettica democratica, svuotato di senso il Parlamento, imbrigliato le forze del lavoro, imbavagliato la stampa, e stretto un patto perverso con gli agrari più reazionari e con i clericali più ultras.

Scriveva, dunque, Luigi Salvatorelli, uno dei massimi esponenti della storiografia liberale, nel suo classico Pensiero e azione del Risorgimento, a proposito di "mussolinismo" — l’espressione è sua — e nazionalismo (Torino, Einaudi, 1943; nona edizione, 1981, pp. 180-183):

Chi avesse fatto il punto dello svolgimento politico italiano alla vigilia della guerra europea [del 1914]- il cinquantenario del Regno ne offriva l’occasione migliore – avrebbe trovato che esso era un punto culminante. L’Italia stava realizzandosi come democrazia nazionale, liberale e sociale. Vi era tuttavia un fattore generale di debolezza nella ancor limitata diffusione dell’educazione politica, e nella conseguente ristrettezza di base della classe dirigente. La vita politica italiana somigliava a un adolescente di complessione delicata, che presenta un rigoglio giovanile, ma non è assicurato ancora contro malattie di costituzione, pericolose per la sua esistenza.

Precisamente a malattie costituzionali del genere si potevano paragonare due nuovi fattori della vita politica italiana, entrati in campo alla vigilia della guerra e in considerazione dei quali si deve affermare che la crisi interna italiana precedette, in realtà, quella estera. I due nuovi fattori erano il socialismo mussoliniano e il nazionalismo, allora in antitesi estrema apparente, in realtà affini e destinati in pochi anni a confondersi insieme.

La ripresa rivoluzionaria del socialismo italiano, durante e subito dopo la guerra di Libia, fu qualcosa di assai diverso dalla tendenza intransigente che nel decennio anteriore aveva lottato , in seno al partito socialista, contro il riformismo, Benito Mussolini non faceva questione di collaborazione o meno con i partiti e i governi borghesi, ma propugnava (contro tutto lo svolgimento del socialismo, da Marx in poi) l’azione diretta come metodo normale di lotta politica. Il mussolinismo veniva a rinnegare il gioco normale dei partiti, la vita parlamentare, il metodo liberale, l’evoluzione progressiva e consensuale. Esso si incontrava col precedente sindacalismo, trasponendone metodi e spirito dalla lotta sindacale a quella politica: ispiratore comune Georges Sorel, il cui nerbo ebbe allora larga diffusione in Italia, dai pulpiti più diversi, e da cui molta gente apprese il culto della violenza e l’odio della democrazia.

In quel culto e in quest’odio il neorivoluzionarismo mussoliniano si trovò appunto a comunicare col nazionalismo. Questo movimento sorse fra noi negli anni immediatamente precedenti alla guerra libica, e crebbe durante essa a importanza nazionale. Gli iniziatori provennero dalle più diverse parti: dal campo conservatore-liberale, dalla democrazia irredentistica, dal sindacalismo, e fraternizzarono dapprima in un generico slancio patriottico per l’elevazione e la grandezza d’Italia. Dietro questo patriottismo generico, però, c’erano una dottrina politica, una ideologia e un metodo di lotta politica, che andarono assumendo lineamenti sempre più precisi, con un processo parallelo di secessione e di ricomposizione nel corpo degli adepti. L’ideologia del nazionalismo italiano era una combinazione di positivismo spenseriano (lotta per l’esistenza, selezione, trionfo del più forte) e di statalismo tedesco hegeliano o neohegeliano, fusi nello stampo dottrinario del nazionalismo francese di Daudet e Maurras; e la fusione era impregnata di retorica patriottarda e imperialista, e di nietzscheismo bellicistico, eroicizzante, antiumanitario: maestri nell’una e nell’altra Gabriele D’Annunzio. Era dunque un’ideologia di molteplici impronte, quasi tutte estere, completamente estranea alle tradizioni italiane del Risorgimento, direttamente opposta al suo spirito liberale e umanitario. Questo spirito, il nazionalismo italiano coscientemente lo rinnegava, dichiarando che l’unica cosa importante nel processo risorgimentale era stata la formazione territoriale-statale, di cui le idealità del Risorgimento dovevano considerarsi semplici strumenti occasionali, da gettar via, a formazione compiuta, come inutili ingombri, o piuttosto da eliminare come fermenti di dissoluzione. Ideale politico del nazionalismo era la distruzione del liberalismo, della democrazia, del socialismo, per il dominio dispotico dello Stato-nazione, ente puramente astratto e formale nei suoi lineamenti teorici, ma che in pratica assumeva le funzioni di un idolo: Moloch ingoiante i cittadini scarificati al suo nume. Era una risurrezione dello Stato assoluto, ma assai peggiorato, perché se ne estendeva illimitatamente il potere e l’arbitrio, abbandonandone il vecchio contenuto morale; e così il nazionalismo si costituiva come ripresa inasprita e peggiorata dell’Antirisorgimento.

Con questa ideologia il nazionalismo non poteva trovare i suoi appoggi che egli elementi più retrivi della nazione; e tali appoggi furono i denari dei siderurgici e i voti dei clericali. Questi erano allettati dalla lotta antimassonica e antiliberale del nazionalismo, dalla larga parte ch’esso riserbava all’influenza ecclesiastica, dall’esaltazione del papato (in quanto potenza politica, non in quanto fattore religioso) come elemento costitutivo, fondamentale della grandezza italiana. L’alleanza con i clericali più spinti completava e svelava il carattere nettamente antirisorgimentale del nazionalismo. E tuttavia esso, ostentatamente antiliberale, penetrò anche largamente nel campo liberale, in quanto i liberali italiani erano divenuti in larga parte dei semplici antisocialisti conservatori e anti reazionari; e, inaciditi per l’esclusione dal potere, non pensavano che a riprenderlo con tutti i mezzi, non rifuggendo neppure da un’opera disgregatrice che meritò ai più estremisti di loro la qualifica di anarchici. A questi simpatizzanti "liberali", e in genere ai "benpensanti", il nazionalismo si imponeva con i suoi metodi di lotta presi in prestito dai "sovversivi": linguaggio e gesti violenti, aggressività personale, tumultuarietà piazzaiola. Il contenuto reazionario, cioè, si realizzava attraverso il metodo demagogico: alleanza che, con la complicità dei "conservatori anarchici", doveva divenire nel dopoguerra una chiave della politica italiana.

È strano, o piuttosto è significativo, il fatto che Salvatorelli non sembri accorgersi minimamente di tutto quel che non funziona nel suo bel quadretto, così rassicurante per la propria parte politica e così auto-celebrativo: semplicemente, ciò che intralcia la sua "lettura" del nazionalismo e del fascismo viene da lui ignorato o minimizzato, mentre quel che gli torna utile, viene gonfiato oltre misura. E allora diciamo: primo, che il nazionalismo di inizio Novecento è la logica evoluzione del patriottismo ottocentesco, e sia la politica imperiale del fascismo, sia la partecipazione alla Seconda guerra mondiale, altro non sono stati che il coronamento dell’opera del Risorgimento, mediante una quinta guerra d’indipendenza (la quarta essendo stata quella del 1915-18); secondo, che è stato il giolittismo a tenere a battesimo sia il nazionalismo come forza politica rilevante (con la guerra di Libia), sia quella esasperazione del massimalismo socialista, da cui avrebbe avuto origine il mussolinismo, negli anni 1914-19; che è troppo comodo scaricare sui liberali conservatori la responsabilità d’avere flirtato sia col nazionalismo, sia col fascismo, senza prima fare i conti con il dato inoppugnabile che fu un governo liberale conservatore, quello di Antonio Salandra, a voler portare l’Italia nella Grande guerra, con tutte le conseguenze che ne derivarono, fascismo compreso; quarto, che è scorretto ridurre il dannunzianesimo fiumano a banale rigurgito nietzschiano (Salvatorelli ha mai letto la Carta del Carnaro?); quinto, che l’agonia del parlamentarismo, fra il 1919 e il 1925, è stata preparata dalla corruzione e dalla inefficienza dei liberali, non dei marziani…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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