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Il mito della frontiera americana visto da fuori e dal di dentro

Da quando lo storico americano Frederick Jackson Turner (Portage, Wisconsin, 1861-San Marino, 1932) avanzò, nel 1893, la sua teoria sul ruolo svolto dalla "frontiera" nella formazione del carattere americano, molto si è discusso, in America e fuori di essa, sul valore di quella intuizione; è certo, in ogni caso, che tanto negli Stati Uniti, quanto in Europa, si è diffusa l’idea che il mito della frontiera abbia potentemente contribuito a fare del popolo americano quel che esso è diventato, con i suoi pregi e i suoi difetti: un popolo profondamente pervaso dall’ideale democratico; un popolo individualista, dinamico, intraprendente, ottimista, fiducioso in sé, aggressivo, inesorabile con i suoi nemici e determinato ad abbattere gli ostacoli che gli si frappongono. Secondo Turner, la frontiera ha creato il senso della libertà e spezzato i limiti dell’abitudine, offrendo la possibilità di fare nuove esperienze e favorendo la nascita di nuove istituzioni e forme di attività.

Ma che cos’è, in effetti, o meglio, che cosa è stata, la frontiera, nella percezione dei primi pionieri che, nella seconda metà del XVIII secolo, durante gli ultimi anni della dominazione britannica e dopo l’indipendenza, si misero in movimento attraverso i Monti Appalachi ed oltre, verso il bacino del Mississippi-Missouri, e poi oltre ancora, fino alle Montagne Rocciose, e poi ancora più lontano, attraverso i vasti altopiani del Colorado e dello Utah, il Gran Bacino senz’alberi, e i deserti del New Mexico e dell’Arizona, scavalcando la formidabile barriera delle Sierras, e infine arrivando alla lontana costa del Pacifico? E che cosa ha rappresentato, non la frontiera in sé, ma il mito di essa, cioè la sua realtà trasfigurata nei racconti delle generazioni immediatamente successive a quelle dei primi coloni, e divenuta patrimonio ideale comune a tutti gli americani, anche a quelli che non sono mai stati nel West e che non hanno mai conosciuto altri luoghi che le città della costa atlantica, o della costa californiana, o, magari, della Florida?

È difficile, per un europeo, comprendere di che cosa si tratti. Più che un’idea, o un insieme di idee, è un sentimento, e un insieme di valori (o di pseudo valori, secondo i punti di vista: non si scordi che quel mito è scritto anche col sangue degli Indiani, votati al genocidio); è il sentimento delle immense distanze, delle solitudini, di un "altrove" che incomincia proprio al di là del proprio villaggio, e popolato da una fauna e da una vegetazione diverse, sorprendenti, e da una umanità ancor più strana, quella dei "selvaggi". La frontiera è anche una palestra: una palestra di guerra. In essa, l’agricoltore e l’allevatore si abituano a essere sempre pronti a combattere per difendere il loro campo o la loro mandria: contro i banditi, contro i "selvaggi", contro chiunque. L’individualismo, lo spirito d’iniziativa, la tendenza a farsi giustizia da sé, trovano qui le loro radici: in una geografia smisurata e imprevedibile, dove bisogna contrare solo su se stessi e dove ogni imprudenza, ogni leggerezza, ogni dilettantismo, possono essere pagati con la vita e con la perdita dello scalpo. Calcolare le distanze, intuire la presenza della selvaggina, saper trovare l’acqua, sentire in tempo l’avvicinarsi di un tornado, diventano abilità indispensabili: chi non le possiede, non dura; la frontiera è una palestra severa, che non fa sconti a nessuno, e dove non c’è posto per i deboli o gl’inesperti. Di qui, l’apparente paradosso; la frontiera è aperta a tutti, indipendentemente dal loro stato sociale, dalla cultura, vero paradiso potenziale per un self-made-man; però, nello stesso tempo, è estremamente selettiva, aristocratica, perché non si lascia penetrare da chiunque, tanto meno conquistare. Come una cavalla selvaggia, scalcia all’impazzata per disarcionare il cavaliere: ed è questi che deve mostrarsi sufficientemente forte da farsi obbedire.

Anche la percezione della natura, per un uomo della frontiera, è completamene diversa da quella di un uomo sedentario, nato e vissuto in città e abituato al rassicurante tran-tran di una vita interamene organizzata dalle istituzioni sociali, e garantita contro qualsiasi imprevisto (tranne forse i terremoti e le eruzioni vulcaniche). Per l’uomo della frontiera, la natura non è amica, né nemica: è neutrale; ne ammira la bellezza (ah, le notti stellate trascorse all’aperto, accanto al fuoco di bivacco), ma senza sentimentalismi. Egli non farebbe l’errore di prendersi troppa confidenza con essa: sa che bisogna star sempre sul chi vive, e che abbassare la guardia può significare la morte.

Per trovare qualcosa di simile al mito della frontiera, in Europa, bisogna andare indietro di secoli. Non fino all’Impero Romano: perché il limes imperiale era, per definizione, un "limite", un qualcosa di fisso e inamovibile, che separava nettamente e irreversibilmente un "dentro" e un "fuori"; e, una volta perso lo slancio espansivo, il che accadde già al tempo di Augusto (per la precisione, con il disastro di Varo nella Selva di Teutoburgo, dove tre legioni vennero annientate dai Germani di Arminio), i Romani rimasero sempre sulla difensiva, e subirono una serie di invasioni che si conclusero solo con il crollo dell’Impero stesso. Bisogna andare, invece, al Medioevo: alle incursioni dei Vichinghi, degli Ungari e dei Saraceni; e, soprattutto, alla lenta, graduale penetrazione dei coloni tedeschi verso il mondo slavo, verso le immense foreste dell’Europa orientale, popolate da orsi, lupi e da branchi di uri e di bisonti. Bisogna andare ai tempi d’oro dei cavalieri dell’Ordine Teutonico, alla loro conquista delle terre oltre l’Oder, un tempo abitate da popoli germanici, che erano poi state colonizzate dagli Slavi, quando gran parte di quelli si era riversata a Occidente e a Mezzogiorno, nella fantastica Wolkerwanderung, sempre più lontano, in Francia, in Italia, in Spagna e addirittura nell’Africa settentrionale, dove si erano mescolata con le popolazioni locali, fino praticamente a sparire.

Ma i pionieri americani del XVIIII e del XIX secolo non potevano, né volevano, mescolarsi con i Pellirosse: per loro, "l’unico indiano buono era quello morto". Anche gli animali selvaggi erano, per lui, soprattutto un fastidio: e fu così che egli distrusse le immense mandrie di bisonti, al posto delle quali creò enormi allevamenti di bestiame, o ricavò lo spazio per impiantare sconfinate coltivazioni di cereali. Anche le foreste erano di ostacolo: e, dunque, via le foreste! Certo, non era questa la psicologia dei primi coloni: molti di essi amavamo quell’ambiente selvaggio, e non pochi andavano d’accordo con gli indiani, con i quali commerciavano le pellicce. Ma i primi pionieri erano cacciatori individualisti e amanti della solitudine, ed erano pochi; dietro di loro, veniva l’esercito sterminato dei colonizzatori: agricoltori e allevatori, soldati e mercanti, artigiani e costruttori di ferrovie. A questa gente le foreste non interessavano, se non in termini di legname da abbattere e da vendere; così come ai mercanti di pellicce non interessava la carcassa del bisonte, che veniva lasciata a marcire, ma solo la pelliccia. Ed ecco che ai primi cacciatori, interessati a non alterare l’equilibrio ecologico della foresta e della prateria, successero i cacciatori di professione: quelli che, come Buffalo Bill, erano capaci di abbattere centinaia di capi in un giorno solo — e di vantarsene.

Ma intanto, il mito della frontiera era già nato spontaneamente e si era sviluppato con membra gagliarde; Frederick Jackson Turner non fece altro che codificarlo in una veste pseudo scientifica. La prima a impadronirsene, era stata la letteratura, che immediatamente aveva trasfigurato il fatto della frontiera — una frontiera mobile, si badi, in continua espansione, come quella dei Cavalieri Teutonici sul Baltico, ma con ritmi estremamente più rapidi — in una epopea, dove si forgiavano e si esaltavano i grandi ideali dell’homo americanus: il coraggio, la lealtà, l’astuzia, lo spirito d’iniziativa, la tenacia, la disponibilità al sacrificio.

Prendiamo uno dei più tipici esponenti della "letteratura della frontiera", James Fenimore Cooper (nato nel 1789 e morto nel 1851) che tutti conoscono, non solo in America, per la trasposizione cinematografica del più fortunato dei suoi romanzi, L’ultimo dei Mohicani. Un racconto del 1757, che è divenuto rapidamente, ed è stato a lungo, uno dei classici della letteratura per ragazzi, anche in Italia. In molti dei suoi libri si parla della frontiera come di un qualcosa di geograficamente vago, ma, nello stesso tempo, assai preciso; si descrivono i monti, i fiumi, i laghi, le immense praterie, gli Indiani (soprattutto gli Indiani); si evoca un tempo non così remoto che i più vecchi non possano ricordarlo, e sia pure attraverso i racconti dei propri genitori o dei propri nonni, quando New York era poco più che una cittaduzza e le sconfinate foreste popolate di selvaggina e di gruppi di pellirosse, non sempre amichevoli, giungevano a lambire gli avamposti della civiltà.

Per evocare l’atmosfera della frontiera, ci piace riportare qui la Prefazione a uno dei suoi romanzi "minori" (ma va detto che, per il grosso pubblico, o almeno per quello europeo, sono tutti, più o meno, "miniori", rispetto a L’ultimo dei Mohicani; eppure ne ha scritti una quarantina o giù di lì, e uno anche di argomento italiano: I Bravo, del 1831, ambientato nella Venezia del XVIII secolo), Lo sterminatore di Daini (titolo originale: The Deerslayer, or the First War-Path, 1841; traduzione dall’americano di Fiorella Severi, Novara, Edipem, 1974, pp. 7-8):

Nell’immaginazione umana, gli eventi subiscono gli effetti del tempo. Nello stesso modo, l’uomo che ha viaggiato lontano e che ha visto molte cose, può credere di aver vissuto a lungo, e la storia, che è fatta soprattutto di incidenti insignificanti, prende presto una patina di leggenda. In nessun altro modo si spiega l’aria venerabile che già si sta raccogliendo intorno agli annali americani.

Quando la mente torna ai giorni più lontani della storia coloniale, il periodo sembra oscuro e remoto, e per i mille cambiamento che si infittiscono lungo gli anelli del ricordo, le origini della nazione sembrano risalire ad un giorno così’ lontano che si perde nelle nebbie del tempo; eppure, quattro vite di media durata basterebbero a trasmettere di bocca in bocca, nella forma della tradizione, tutto ciò che l’uomo civile ha portato a termine entro le frontiere della repubblica.

Benché la sola New York possieda oggi una popolazione numericamente superiore a quella della intera Confederazione Elvetica, sono passati poco più di due secoli dacché gli Olandesi cominciarono qui il loro insediamento, riscattando la regione dallo stato selvaggi. Così, ciò che sembra venerabile per via di un grande numero di cambiamenti, viene ridotto ad una dimensione più familiare se lo consideriamo unicamente in connessione col tempo. Questo sguardo nella prospettiva del passato preparerà il lettore a seguire le vicende che ci accingiamo a descrivere con meno meraviglia e basteranno alcune spiegazioni per portarne indietro l’immaginazione fino a sentire con esattezza la condizione di quella società.

È parte della storia che gli insediamenti sulla Riva Est del fiume Hudson, posti come Claverack, Kinderhook e persino Poughkeepsie, non erano ritenuti al riparo dalle incursioni indiane fino ad un secolo fa; c’è ancora sulle rive del fiume l’abitazione del ramo più giovane della famiglia Van Renselaern, ed intorno ad essa ci sono ancora le trappole costruite per lo stesso astuto nemico, benché tutto questo non risalga ad un tempo troppo lontano. Altre simili testimonianze dell’infanzia del paese si trovano sparse attraverso ciò che è oggi considerato il cuore della civiltà americana, e forniscono le prove più evidenti che tutto ciò che possediamo in fatto di sicurezza dal nemico è frutto di un tempo poco più lungo di quel che di solito riempie la vita di un uomo. I fatti di questa storia si svolgono fra gli anni 1740 e 1746, quando la parte colonizzata dell’area di New York era limitata alle quattro Contee Atlantiche, uno stretto corridoio di terra su ciascuna riva dell’Hudson, che si estendeva dalla foce fino alle cascate vicino alla sorgente, e ad alcuni avamposti sul Mohawk e sul Schoharie. Sulle rive del prime fiume si stendevano larghe strisce di terra vergine e selvaggia, che giungevano fino al New England, offrendo il riparo delle foreste al passo silenzioso dei mocassini del guerriero indiano, calcanti il segreto e sanguinoso sentiero di guerra. A volto d’uccello, l’intera regione a est del Mississippi si sarebbe presentata come una vasta distesa di boschi, interrotta soltanto da una zona relativamente stretta di coltivazioni lungo il mare, punteggiata dalle brillanti superfici dei laghi e attraversata dalle linee serpeggianti dei fiumi.

C’è un romanzo di Jorge Amado in cui si descrive l’avanzata di due gruppi di boscaioli che intaccano una foresta vergine, partendo da due opposte direzioni, e che finiscono per ricongiungersi, dopo averla attraversata tutta, tagliando le piante al loro passaggio. Un’epopea emozionante, e, all’inizio, quasi disperata, tanto immane pareva lo sforzo da compiere. Ma poi, quando l’obiettivo è raggiunto, la foresta è stata domata e ha perso per sempre l’arcano e misterioso incanto. E così la frontiera americana: quando la marcia giunge al termine, qualcosa di epico si è perso per sempre. A quel punto, che ne sarà di tutte le energie accumulate per superarla: non diverranno autodistruttive?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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