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7 Maggio 2016Ci sono uomini e ci sono esseri che hanno solamente l’apparenza di uomini, ma non lo sono; sono qualcos’altro: vermi, corvi, o forse dèmoni. Gli uomini "veri" sono quelli che stanno dalla propria parte ideologica; gli altri, sono quelli che si aggirano, con fare losco e con pessime intenzioni, nelle ideologie "altre", esplicitamente o implicitamente nemiche. Così, almeno, la pensa l’intellettuale italiano tipico: sempre molto politically correct, sia che il vento soffi da sinistra, sia che soffi da destra o, magari, dal centro.
Un tipico intellettuale italiano, e tipicamente di sinistra, è stato Elio Vittorini: già fascista (oh, ma fascista di sinistra: mi raccomando, bisogna specificarlo!), poi "compagno" inossidabile del grande Partito dei lavoratori, delle persone oneste e serie, dell’Italia "giusta" (contro quella sbagliata, che comunista non era, né voleva esserlo). E il suo più tipico romanzo è stato Uomini e no, scritto negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale e apparso in libreria nel 1945, portato dal soffio impetuoso del "vento del Nord" e della meravigliosa Liberazione (ma come, quale "liberazione"? la Liberazione per antonomasia, che discorsi; l’unica che vada scritta con la l maiuscola).
Non ci soffermeremo a parlare di quel libro: non ne vale la pena. Basterà dire che è una "romantica" (si fa per dire) apologia dei G.A.P., cioè di quei Gruppi di Azione Patriottica che seminarono le città dell’Italia centro-settentrionale di assassinii mirati, per lo più contro obiettivi inermi; e valga per tutti il caso del filosofo Giovanni Gentile, freddato per la strada, a Firenze, il 15 aprile 1944: un vecchio di quasi settant’anni che girava senza scorta e che non aveva fatto del male a una mosca. Ma ci interessa evidenziare il modo di ragionare (anche se "ragionare" è, in questo caso, una parola grossa) dell’intellettuale tipico. Per Vittorini, i partigiani sono "uomini"; i fascisti e i tedeschi, no. Del resto, non vale la pena di dimostrarlo: è una cosa evidente. Non impiegano il loro tempo, i fascisti e i tedeschi, a far sbranare la gente dai cani? È con questa scena raccapricciante, in particolare, che Vittorini ritiene d’aver giustificato il titolo e la tesi del suo romanzo. C’è forse bisogno di spiegare perché chi commette azioni simili non è degno d’essere chiamato uomo?
Ora, proprio perché intendiamo mostrare la profonda disonestà intellettuale dei sedicenti intellettuali nostrani, con o senza i loro vittoriniani "astratti furori", con o senza le loro "conversazioni in Sicilia" o in qualsiasi altro luogo, vogliamo subito chiarire che il fatto di cui parla il romanzo non è, purtroppo, inverosimile: perché cose simili, ahimè, accaddero. Il punto chiave non è la bestialità umana, specialmente nel furore di una guerra civile (già, appunto: perché se non si ammette, e gl’intellettuali italiani lo hanno negato per settant’anni, che quella del 1943-45 fu una guerra civile, si nega il contesto storico che rende possibile la vera comprensione dei fatti); il punto chiave è che tale bestialità non è solo quella dei "nemici", ma anche degli "amici". O si capisce questo, o non si è capito nulla. O si capisce questo, oppure — per dirla con il buon Vittorini — non si è uomini, ma scimmie ammaestrate, che parlano solo per schemi ideologici e riflessi condizionati. Che cosa avrebbe detto Vittorini di quel che fecero i "gloriosi" partigiani a Norma Cossetto, sventurata ragazza istriana che fu violentata innumerevoli volte prima di essere infoibata, dopo aver subito mutilazioni fisiche e l’introduzione di un pezzo di legno nella vagina, al principio di ottobre del 1943? Che cosa furono, quei partigiani: uomini, o che altro?
Passando ora su un terreno meno drammatico, ma sempre significativo, proviamo a chiederci che cosa distingua gli uomini dai non uomini, nel rapporto dialettico fra il pensiero e l’azione. Il pensiero è stato, ed è tuttora, importantissimo per l’agire politico: tutta la modernità, in particolare dall’illuminismo in poi, è stata contraddistinta dalla forza crescente delle ideologie. Il giacobinismo, il romanticismo, il liberalismo, il democraticismo, il radicalismo, l’anarchismo, il marxismo, il darwinismo (compreso quello "sociale"), il positivismo, il naturalismo, il decadentismo, l’estetismo, il nazionalismo, l’internazionalismo, il socialismo, il comunismo, il fascismo, il nazismo, il capitalismo, il consumismo, lo scientismo, l’esistenzialismo, il freudismo, l’ambientalismo, il femminismo, l’animalismo, l’omosessualismo… e potremmo continuare. Tutte queste ideologie, quasi per colmare un vuoto (la cacciata del Vangelo?), hanno preteso di offrire una interpretazione esaustiva e "perfetta" della realtà; hanno preteso di incarnare la Verità contro l’Errore: e, così facendo, hanno preteso una fedeltà religiosa dai loro seguaci, e un’implacabile inimicizia verso tutti gli altri. E tutte, dalla prima all’ultima, hanno fallito, sono cadute, o stanno cadendo.
Ebbene: la loro caratteristica essenziale è stata il disprezzo nei confronti del principio di realtà. Ciascuna di queste ideologie ha voluto fare della realtà solo ciò che essa riteneva giusto e vero e buono; e ha preteso di escludere dalla realtà tutto ciò che non rientrava nel quadro. Si è incominciato con la "santa ghigliottina" e si è proceduto con i ricoveri in manicomio per i dissidenti e gli oppositori. Logico: chi non apprezza il Paradiso in terra, chi rifiuta la nuove Tavole della Legge, è degno di morte, o, nel migliore dei casi, di un pronto internamento psichiatrico. Gli uomini fatti sbranare vivi dai cani e le ragazze violentate, torturate e uccise, dall’una e dall’altra parte politica, hanno questo in comune: che sono considerati nemici del Nuovo Ordine, dunque devono essere soppressi. Va da sé che fermarsi a compiangerli significa fiancheggiare il nemico, significa evocare i mostri del Vecchio Ordine: parlare di Norma Cossetto è da "fascisti". Parlare dei sette fratelli Govoni è, del pari, da fascisti: bisogna parlare solo dei sette fratelli Cervi. I sette fratelli Cervi sono caduti per la Giusta Causa; gli altri, hanno pagato il fio d’avere servito la causa del Male. Giustizia è stata fatta. Come nel caso di Giovanni Gentile. Parola di Concetto Marchesi, altro tipico, tipicissimo intellettuale italiano di sinistra.
Il fatto è che la cultura italiana è stata egemonizzata dalla sinistra per circa settant’anni; fino alla caduta del comunismo in Unione Sovietica, e anche oltre (perché i nostri intellettuali erano, e sono, più realisti del re). Prima, per vent’anni, erano stati, in larga maggioranza, fascisti, pochi, come Indro Montanelli, lo hanno ammesso lealmente; alcuni hanno tirato fuori, come un’attenuante, la faccenda del "fascismo di sinistra", come appunto Vittorini, Romano Bilenchi e Curzio Malaparte (e, quasi, quasi, anche il povero Cesare Pavese, Dio sa come; non lo fece lui, in verità, ma ci provarono gli storici della letteratura, anch’essi quasi tutti marxisti, come Carlo Salinari; e senza poi dimenticare gli storici dell’arte, come Ranuccio Bianchi Bandinelli, già cicerone di Hitler durante la sua visita in Italia nel 1938). Altri ancora hanno sventolato le loro benemerenze di emigrati interni (una assurdità linguistica e concettuale che sono in Italia è stata presa sul serio), a cominciare dal vecchio sultano, don Benedetto Croce, così poco "perseguitato" dal fascismo e così saldamente insediato nel suo feudo di Napoli, che poteva, come un signore medievale, imporre la servitù della gleba a una intera generazioni di giovani storici e filosofi, a livello nazionale. La maggior parte, comunque, hanno sostenuto di essere sempre stati contrari al fascismo, senza "se" e senza" ma"; perfino quelli che rimasero indisturbati in Italia, che scrissero e pubblicarono durante il Ventennio, e che solo dopo il 25 luglio del 1943 resero pubblico il loro dissenso, la loro opposizione, il loro disprezzo per lo sciagurato regime; perfino quelli, come Ruggero Zangrandi, i quali avrebbero fatto meglio a tacere, e che si vantarono, sì, d’avere servito il fascismo, ma solo per "minarlo" e indebolirlo dall’interno, insomma per sabotarlo: persino costoro salirono sulla cattedra del giudice, alzarono la voce e pronunciarono, con tono d’incontenibile, fremente indignazione, la loro inappellabile sentenza contro il fascismo, cumulo e punto d’arrivo di tutto un tortuoso percorso di bassezza morale, viltà, opportunismo, cialtroneria (ma sempre da parte degli altri; mai di se stessi).
Insomma: servi per vent’anni del fascismo; servi per settant’anni del marxismo; e ora, felicemente intruppati sotto le accoglienti bandiere del cattocomunismo, il che permette loro di risparmiarsi la pena di abiurare i loro passati errori e anzi, semmai, di sfidare il mondo intero, sostenendo che il tempo ha dato loro ragione e che, alla fine, si è visto da che parte stessero i veri valori: cioè dalla parte del Vangelo; che, guarda caso, avendoli accolti più che a braccia aperte, è come se avesse reso loro testimonianza d’aver servito la Verità, nonostante le vili insinuazioni dei soliti "fascisti".
Resta il fatto che né allora, né oggi, costoro hanno imparato a fare i conti con il principio di realtà. Essi avevamo torto quando vestivano la camicia nera, perché il fascismo, se pure era sorto con l’intenzione di ricompattare il popolo italiano, diviso e lacerato da ancestrali lotte di fazione, intorno all’idea luminosa della Patria, rappresentata dagli eroi del Piave e di Vittorio Veneto, dai sacrifici sopportati in guerra per la salvezza comune, aveva poi sprecato la sua grande occasione — ma non fu colpa solamente sua — trasformandosi in una banale, retorica, imbolsita dittatura, fatta di slogan e di proclami, dove "tutto veniva cambiato, affinché nulla mai cambiasse". E lo si vide dopo il 25 luglio del 1943, quando si scoprì che nessuno era mai stato fascista. In Sicilia, fra parentesi, lo si scoprì qualche giorno prima: non appena i primi soldati angloamericani sbarcarono sull’isola e si videro venire incontro frotte di podestà e gerarchi ex fascisti, i quali proclamavano la loro inveterata fede democratica, lamentavano l’oppressione ventennale cui erano stati sottoposti, e leccavano i polsini e gli stivali dei loro provvidenziali e attesissimi liberatori. Ma avevano torto anche durante gli anni dell’egemonia marxista, dal 1945 fin quasi ad oggi. Perché mentre in tutto il mondo, e specialmente in Unione Sovietica, venivano a galla i crimini del comunismo (che non furono soltanto di Stalin, quasi si fosse trattato d’un mero incidente di percorso), solo in Italia gli intellettuali continuavano a farneticare di comunismo, di collettivismo, di Libretti Rossi, di Lunghe Marce; a discettare su Che Guevara e a tener convegni su Antonio Gramsci; solo in Italia essi pretendevano di monopolizzare la vita culturale, dalla poesia al teatro, dal cinema alla pittura, rifiutandosi di vedere e di ascoltare tutto ciò che non rientrava nel loro quadretto idillico della lotta di classe e della dittatura del proletariato. Solo in Italia si rifiutavano di leggere Solženicyn o di trarre le debite conclusioni dal modo in cui erano stati trattati Bulgakov o Pasternak. E solo in Italia si continuava a presentare Cuba come il Paradiso tropicale dei lavoratori. Sarebbe stato un po’ più onesto dire che il blocco economico statunitense aveva esasperato le tendenze autoritarie che già erano insite nella concezione e nella prassi politica castrista; invece no: si negava il fatto della dittatura, lo si riduceva a "normale" repressione contro il pericolo d’un ritorno dei nostalgici di Fulgencio Batista. Così, g’intellettuali di sinistra gettavano via anche quella parte di ragione che pur c’era, nei loro ragionamenti: per avere tutta la ragione, negavano il principio di realtà, e si facevano dare torto dai fatti. Ma la realtà non fa sconti; chi nega il principio di realtà è destinato a cadere, e male.
Gl’intellettuali moderni, sempre politicamente corretti, negano il principio di realtà. Le cose che riescono loro sgradevoli — che sono, poi, quelle che riescono sgradevoli alla cultura imposta dal totalitarismo finanziario: ben misero destino, per tutti codesti post-marxisti! — le negano, le aboliscono per decreto, fanno finta che non esistano. Arrivano, forse, a non vederle davvero. La malattia, la vecchiaia e la morte, per esempio: sono sgradite alla cultura edonista e materialista oggi imperante; dunque, le si nega. E le si esorcizza. Come si fa ad esorcizzare la malattia? Attaccandosi all’idea di una scienza medica che sconfigga, una dopo l’altra, tutte le malattie; oppure negando la malattia stessa, come nel caso di quella mentale. Ma la malattia non è la somma delle varie malattie: le malattie si possono sconfiggere; la malattia, no. Fa parte dell’uomo, che è una creatura e, quindi, imperfetto. Ma ciò non piace a quei signori. Dunque, bisogna esorcizzarla. La vecchiaia piace ancor meno; dunque, cancellata anch’essa. Recitava lo slogan di un manifesto pubblicitario, a Milano, una ventina d’anni fa, giunta rosso-verde (lo notava Vittorio Messori): Vecchio sarai tu! E lo gridavano, con arroganza, degli ultrasettantenni. Truccati da vecchi-non vecchi; pardon, da "anziani" non veramente anziani. Perché non si deve dire a nessuno: vecchio; sarebbe un’offesa; bisogna dirgli: anziano. Quello, è rispetto. E poi sbatterlo in casa di cura, affinché non rompa le scatole con la sua fastidiosa presenza (fastidiosa, perché bisognosa di assistenza). Basta cambiare le parole, e il gioco è fatto: un vecchio non è più vecchio, ringiovanisce; un handicappato non è più tale, se sia chiama disabile, o meglio ancora, diversamente abile: e il gioco è fatto. La morte, poi: lo scandalo degli scandali. Come! Dopo tanta idolatria dell’ego, bisogna crepare e lasciar tutto ai vermi? Oibò, non sia mai: dunque, vietato parlare della morte! Vietato, soprattutto, pensarci seriamente.
Questa è la differenza fra chi è uomo, e chi no. Gli uomini si confrontano con il principio di realtà; e riconoscono d’aver sbagliato, quando se ne sono allontanati. Gli altri, no: continuano a litigare con i fatti, a dar torto ai fatti (cioè all’universo mondo), per sentirsi sempre i nobili araldi della Verità…
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