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Cosa è stato il fenomeno Mattei nella storia italiana contemporanea?

Chi è stato realmente Enrico Mattei (1906-1962), e che cosa ha rappresentato, in ultima analisi, il "fenomeno" Mattei, nel contesto della storia italiana contemporanea? Il giudizio storico è stato diversificato, anche se, in generale, non ci pare che gli storici di professione abbiano prestato una attenzione adeguata a lui e alla sua vicenda. In compenso, vi si sono sbizzarriti i giornalisti, specialmente quelli che lo hanno conosciuto di persona, per averlo intervistato e per aver seguito e raccontato le varie fasi della sua avventurosa carriera. Fra questi, Piero Ottone, pseudonimo di Pier Leone Mignanego (classe 1924), ha formulato un giudizio particolarmente aspro, ritenendo di identificare in lui il prototipo del grande corruttore e il simbolo di una Italia arretrata, irrispettosa delle regole e della democrazia, e, in ultima analisi, poco "civile".

Scriveva, dunque, Piero Ottone, a proposito di Enrico Mattei, nel suo libro L’Italia è un Paese civile? (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1995, pp. 66-71):

Egli si serviva dei suoi fondi per finanziare i partiti, e le correnti all’interno dei partiti, e gli uomini singoli  all’interno delle correnti; per finanziare cioè coloro dai quali dipendeva il rinnovo della sua nomina alla presidenza, e dipendevano soprattutto le decisioni che avrebbero consentito all’ENI di svolgere le sue temerarie imprese.

Era imprese di pretta marca nazionalistica. Ho già detto che una caratteristica  dominane nella classe politica italiana, fin dalla seconda metà dell’Ottocento, era quell’insieme di sentimenti patriottici e nazionalistici  che ho chiamato sciovinismo.  Se ne capisce facilmente l’origine: ogni nazione nuova, non appena acquista una certa autonomia, vuole affermarsi, vuole farsi valere, vuole far sapere che c’è, come un adolescente ambizioso, impaziente, irrequieto.  Fu questo desiderio di autoaffermazione, più ancora che la brama di nuovi territori e di nuovi sudditi,  a spingere gli italiani in Abissinia e in Libia: non erano alla ricerca di pozzi di petrolio o di giacimenti d’oro, che comunque non avevano neanche i mezzi necessari per andare a scovare, ciò a cui ambivano era la qualifica di Grande Potenza Coloniale, se possibile addirittura di potenza titolare di un impero, alla pari (l’eterno sogno!) con la Francia, alla pari con l’Inghilterra.

Dopo il 1945, la pulsione sciovinista sembrò affievolirsi nella nostra classe dirigente. La batosta della guerra, l’umiliazione della sconfitta ci avevano fatto guarire:

sopportammo con equanimità la perdita delle colonie, anche se Carlo Sforza, (un antifascista: ma non abbiamo già detto che i contorti tra fascismo e antifascismo, dopo tanti anni, si annebbiano?) fece l’impossibile per conservare almeno l’Eritrea e la Tripolitania. Riuscimmo anche a mantenere il sangue freddo nel dibattito su Trieste, a differenza di quel che era accaduto per Fiume dopo l’altra guerra. Ma tutto il potenziale di nazionalismo esistente nella classe dirigente italiana si concentrò in Enrico Mattei, e fu da lui rappresentato.

Accadde così un fenomeno che conferma in modo perfetto, mi sembra, la tesi della continuità fra il fascismo e quel che accadde dopo. Proprio Enrico Mattei, che durante la guerra, dopo una gioventù agnostica in fatto di politica, era diventato un partigiano di alto grado, e aveva militato con coraggio nella resistenza, ereditò le aspirazioni, gli obiettivi e i sogni che avevano contraddistinto il fascismo. Fu lui, più di tutti, il continuatore della filosofia mussoliniana, l’erede della impostazione mentale del ventennio.

Di persona lo incontrai a Londra, nell’albergo Westbury, all’angolo fra Curzon street e Bond street. Ero allora, alla fine degli anni Cinquanta, corrispondente del "Corriere della Sera". Mattei si avvicinava alla fine del suo ciclo. Mi espose le proprie idee in un lungo monologo, parlando con la franchezza tipica di chi sa di essere potente, e non teme le conseguenze di quel che dice. Mi disse che l’Italia era un paese bistrattato, osteggiato, umiliato. Eravamo la vittima di un complotto internazionale che mirava a sottometterci, precludendoci ogni fonte di ricchezza. Io lo ascoltavo e pensavo: riecco l’Italia proletaria, piena di gente volenterosa e laboriosa, oppressa dalle demoplutocrazie occidentali. Quel che aveva sempre detto Mussolini.

Lui, Mattei, cercava di riscattarci. Aveva sfidato le Sette Sorelle, le grandi società petrolifere anglo-americane (come Mussolini aveva sfidato nel 1935 Londra e Parigi, per conquistare all’Italia "un posto al sole"). Aveva stabilito rapporto diretti, e molto amichevoli, con i paesi produttori del petrolio; aveva concesso a quei paesi una diversa spartizione  della ricchezza petrolifera, cinquanta e cinquanta invece di trenta e settanta come imponevano gli americani. Aveva spiazzato i petrolieri dell’Occidente grasso ed egoista. Gli arabi, i persiani, ci volevano bene; lui Mattei, aveva stabilito con loro ottimi rapporti, era accolto come un amico (e, possiamo aggiungere noi, come un sovrano).

Ma che cosa faceva il nostro stato? Che cosa facevamo i nostri ambasciatori? Mattei continuava la sua perorazione, che ascoltavo in silenzio: invece di seguire le se sue indicazioni, diceva, invece di assecondarlo nell’interesse nazionale, no gli davano retta, o addirittura lo contrastava no, in sintonia con gli interessi del capitalismo anglo-americano. Mattei ne parlava come se fossero stati, quei nostri ambasciatori, traditori o stupidi. E teneva il linguaggio di un capo di stato, non del presidente di un ente statale: pareva che fosse suo compito decidere la politica estera italiana, senza interferenze da parte del ministero. Era immedesimato nelle sue argomentazioni appassionate, non ne vedeva l’assurdità.

Fu dunque lui l’esponete del nazionalismo della classe dirigente italiana, quando le vicende della storia avevano ormai affievolito le pulsioni nazionalistiche nell’opinione pubblica; fu lui l’uomo della continuità. Lo fu anche per quel che riguarda il basso livello etico. Tutto quanto egli faceva nei rapporti con i partiti sfidava i più elementari principi del diritto e della morale. Teneva fondi neri, amministrava denaro a piacimento, aveva una cassaforte piena di documenti compromettenti per molti di coloro che governavamn0o l’Italia; arrivò a fondare con i soldi del’ENI un giornale, "Il Giorno", e a negare per tre anni di esserne il proprietario, sebbene tutti sapessero che lo era: nega l’evidenza, come gi adulteri di fronte al giudice. La corruzione della vita politica italiana ha radici antiche, come si è detto; la nostra storia è un continuo passaggio di fondi segreti dallo stato ai privato, dai prefetti agli editori,dai privarti ai deputati, dai banchieri ai ministri. Ma con Mattei l’operazione di finanziamento clandestino ai partiti assunse proporzioni ciclopiche, e fu il punto di partenza della gigantesca corruzione che ha condotto, all’inizio degli anni Novanta, ai grandi scandali delle tangenti.

Tutto questo è tipico dei uno stato arretrato: il boiardo che s’impadronisce di un’agenzia statale come se fosse roba di nessuno, la gestisce e la crescere a suo piacimento, senza curarsi della volontà degli organi pubblici;il boiardo che paga partiti e parlamentari, e acquista un vasto potere che esercita a suo arbitrio, al cospetto di organi pubblici, di giornali e di un’opinione pubblica indifferente; un boiardo così autonomo può avere via libera solo in uno stato di strutture deboli e di mentalità feudale, in uno stato arretrato.

Quel che più caratterizza il fenomeno Mattei è il fatto che tutti sapevano. Indro Montanelli pubblicò una serie di articoli nel "Corriere della Sera", nell’esatte de 1962; le sue affermazioni e le sue rivelazioni potevano sorprendere l’uomo della strada, ma non certo gli ambienti politici e industriali. Tutti sapevano: e tutti tolleravano, anzi molti ritenevano, o sembravano credere, che il fenomeno fosse normale, o addirittura benefico al nostro paese. Solo i concorrenti lo osteggiavano. Uomini di cultura e di retto sentire lo appoggiano, lo difendevano di fronte ai suoi nemici, di fronte ai rappresentanti dell’iniziativa privata (anche perché sapevano che questi avevamo, a loro volta, gli scheletri nell’armadio).

È proprio questo consenso a rendere preoccupante il fenomeno. L’Italia nel suo insieme considerava normale che il presidente di un ente pubblico si comportasse a quel modo. Poiché quel comportamento era concepibile solo in uno stato debole, di basso livello etico e di sconfinato disordine, l’opinione pubblica, non rendendosi conto del suo carattere perverso, mostrava di essere alo stesso livello.

In tutto il ragionamento di Ottone c’è un errore di fondo, un circolo vizioso insuperabile: da un lato, egli parte dal presupposto che l’Italia non è un Paese normale, ossia che è uno stato arretrato, debole, disordinato e di basso livello etico, cioè un Paese poco civile (tutti passaggi che non sarebbero affatto scontati, perché c’è una bella differenza, ad esempio, fra "arretrato" e "incivile", senza contare che bisognerebbe almeno precisare "arretrato" rispetto a che cosa), ma che lui considera come tali; dall’altro lato, si scandalizza che un uomo come Mattei abbia agito come un "boiardo", che abbia disprezzato la normale prassi politica e amministrativa, che abbia voluto scavalcare certi passaggi legali, che si sia servito di mezzi riprovevoli per imporre la sua linea come presidente dell’ENI. Ora, questo ragionamento è contraddittorio: egli critica Mattei come se l’Italia degli anni Cinquanta fosse stata la Gran Bretagna o la Francia (Paesi da lui tanto ammirati), dove esisteva una tradizione statale antica di secoli e dove esisteva una classe dirigente collaudata, che aveva imparato, nel corso del tempo, a far convergere, almeno parzialmente, interesse pubblico e interesse privato, o, almeno, a non porre l’uno apertamente contro l’altro. Ma in Gran Bretagna non c’erano la mafia e la camorra; non c’era una grande borghesia codarda e opportunista; non c’era una amministrazione pubblica corrotta e inefficiente (anche qui Ottone si contraddice: da un lato ammette che la corruzione c’era già, dall’altro fa di Mattei il grande corruttore nazionale). E, per finire, la Gran Bretagna, già padrona di un immenso impero coloniale, grazie al quale aveva conquistato una supremazia finanziaria continentale e mondiale che, altrimenti, sarebbe stata impensabile, era uscita vittoriosa dalla Seconda guerra mondiale, mentre l’Italia ne era uscita disastrosamente sconfitta. In un contesto economico, politico e culturale come quello italiano, un presidente dell’ENI, che fosse anche, come lo era Mattei, un uomo geniale, attivo, intraprendente e, quel che più conta, un sincero servitore dell’interesse nazionale (cosa che Ottone qualifica "sciovinismo", chissà perché, e, per giunta, parlandone come fosse un vizio tutto italiano, e non anche, e assai più, inglese o francese), aveva solo due possibilità: o arrendesi alle logiche, perverse e aberranti, della Repubblica di Pulcinella, dove fanno carriera solo i raccomandati e dove il merito e l’intelligenza sono quasi una colpa da tenere nascosta, il che gli avrebbe consentito, comunque, di portare a casa il suo lauto stipendio e di coltivare, se ne avesse avuto voglia, le sue utili amicizie politiche, magari per farsi la villa, o lo yacht, o il conto all’estero; oppure fare come in realtà fece: infischiandosene delle regole e andando avanti dritto per la sua strada, ma senza mettersi in tasca, come lo stesso Ottone riconosce, nemmeno un soldo, e badando unicamente all’interesse dell’Italia.

Che poi, in un Paese normale, la politica estera la faccia il governo, e non il presidente di un ente pubblico, è cosa ovvia; ma Ottone ha ampiamente ammesso, e vi si è soffermato a lungo, che l’Italia non era un Paese normale, né efficiente, né onesto. Mattei, pertanto, si regolò esattamente come il Principe di Machiavelli: dovendo agire in un mondo "non buono", adottò una linea di condotta flessibile nelle forme, ma estremamente coerente quanto al fine: decise di servire l’Italia, anche a dispetto dei suoi rappresentanti ufficiali. Ottone rileva che era assurda la pretesa di Mattei di sostituirsi al ministro degli esteri o agli ambasciatori italiani all’esterno, e che non si rendeva conto di tale assurdità; ma lui, Ottone, a sua volta, non si rende conto di quanto fosse assurdo che il ministro degli esteri e gli ambasciatori perseguissero l’interesse nazionale con minore convinzione, con più timidezza, per non dire viltà, o peggio, di quanta ne mostrasse Mattei. E allora, fra un Paese ufficiale che non serve lo Stato, ma interessi stranieri (il capitalismo americano e le Sette Sorelle), e un funzionario pubblico di alto livello, che non sta dentro i suoi limiti costituzionali, ma che prende estremamente a cuore l’interesse nazionale, vorremmo sapere chi dei due meriti maggiore stima o apprezzamento. Da parte nostra, non abbiamo il minimo dubbio; e aggiungiamo che sarebbe una gran cosa, per l’Italia, avere, ai nostri giorni, dei servitori dello stato come lo fu Mattei, invece di questa pletora vergognosa di politici corrotti e infedeli, per non dire traditori, perché traditore è chi favorisce l’interesse straniero a danno di quello della propria nazione; mentre di intellettuali sempre pronti a criticare chi, pur deviando dalle regole, tuttavia persegue il bene pubblico, e a difendere chi, pur rispettando le regole, persegue unicamente il proprio, ne avevamo e ne abbiamo fin troppi, e di una simile genia il Paese potrebbe fare benissimo a meno.

Un’ultima osservazione circa il nazionalismo e il fascismo. Ottone sostiene che Mattei riprese, paradossalmente, la politica nazionalista di Mussolini: e lo dice per mostrare come l’Italia, a suo parere, fosse e sia rimasta un Paese "arretrato", cioè propenso ad affidarsi alla retorica imperiale di un dittatore, o di un personaggio che agisce in sprezzo alle regole democratiche e parlamentari: l’altro ieri un Mussolini, ieri un Mattei. Ammette, però, nello stesso tempo, che la politica coloniale è stata una costante della classe dirigente liberale, prima e dopo la dittatura fascista: da Giolitti a Carlo Sforza. Basterebbe già questo per far cadere tutto il ragionamento di Piero Ottone: se la politica coloniale è stata una costante della politica estera italiana, prima, durante e dopo il fascismo, ciò significa, evidentemente, che le nostre classi dirigenti, a torto o a ragione, l’hanno sempre considerata come essenziale. In tal caso, però, la politica "nazionalista" di Mattei è stata, più che la prosecuzione di quella mussoliniana, la prosecuzione di quella nazionale, indipendentemente dal tipo o dalla forma di governo vigente a un dato momento storico (il che, ampliando il ragionamento, vale anche per il fascismo stesso, a dispetto della comoda teoria crociana del fascismo come "malattia" temporanea della società italiana). Tutti i Paesi perseguono la politica che ritengono essenziale al proprio interesse nazionale; la domanda, pertanto, dovrebbe essere perché, nell’Italia degli anni Cinquanta, l’interesse nazionale fosse difeso assai più dal presidente dell’ENI che non dal Parlamento e dal governo.

Forse è questa la vera anomalia dell’Italia, che non c’entra affatto né col fascismo, né col nazionalismo (o con lo sciovinismo, come lo chiama Ottone, adoperando non a caso un francesismo): che il Parlamento e il governo italiano, troppo spesso, sono occupati da persone che non badano principalmente all’interesse essenziale della nazione, ma ai loro interessi di partito, di corrente, o privati; oppure, peggio ancora, badando, magari per averne dei vantaggi personali, all’interesse di potenze straniere o di gruppi finanziari e industriali stranieri. Ottone sorvola sul modo in cui è caduto il fascismo (per una doppia congiura di palazzo e non per un moto popolare); sulle conseguenze pratiche, e non solo morali o psicologiche, della sconfitta nella Seconda guerra mondiale; e sul vergognoso articolo 16 del Trattato di Parigi del 1947, che recita: L’Italia non incriminerà né altrimenti perseguiterà alcun cittadino italiano, compresi gli appartenenti alle forze armate, per il solo fatto di avere, durante il periodo di tempo corrente dal 10 giugno 1940 all’entrata in vigore del presente trattato, espresso simpatia o avere agito in favore della causa delle Potenze alleate e associate. Tradotto in parole semplici: l’Italia si impegna a rimanere un Paese a sovranità limitata, dove i traditori che, fin dal principio della guerra (e non solo dopo il 25 luglio del 1943), al servizio del nemico, si sono adoperati in ogni modo per la sua sconfitta, ora non possono essere perseguiti, e, quindi, rimangono nella pubblica amministrazione e nelle stesse Forze Armate, sotto l’occhio compiacente e l’attiva protezione delle Potenze straniere ed ex nemiche, alle quali l’Italia, evidentemente, continua ad essere sottomessa. Potenze che, altrettanto evidentemente, sorveglieranno che quanti governano l’Italia, lo facciano ponendo al primo posto il loro interesse e non certo quello italiano. Questo vuol dire perdere una guerra, come quella del 1940-45: non semplicemente perdere dei territori nazionali, o le colonie, o la flotta. Vuol dire perdere tutto e diventare una colonia appena mascherata, che deve essere governata nell’interesse dei suoi nuovi padroni; il resto sono chiacchiere. Ed è una situazione che perdura tuttora. Siamo proprio sicuri che anche gli ultimi governi (Monti, Letta, Renzi) abbiano governato il Paese, e lo stiano governando oggi, nell’interesse esclusivo dell’Italia, e non già nell’interesse di potenze e di gruppi stranieri?

Ad un tale stato di cose cercò di opporsi Enrico Mattei; e lo fece con un coraggio da leone, oltre che con intelligenza e — sì, lo ammettiamo — con molta spregiudicatezza. Ma questo, un giornalista come Piero Ottone, non arriverà mai a capirlo. Per capirlo, infatti, bisognerebbe possedere almeno la centesima parte di quella nobile fierezza d’Italiano che aveva un uomo come Enrico Mattei…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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