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Un eroe del nostro tempo

Dello scrittore tedesco Ernst Wiechert (1887-1950) ci siamo già occupati, specialmente sotto il profilo letterario (cfr. l’articolo Nei libri di Ernest Wiechert l’ardente nostalgia dell’Assoluto, pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 15/02/2012, e ripubblicato anche su Il Corriere delle Regioni); in questa sede desideriamo, invece, approfondire il significato morale della sua opera, sullo sfondo della Prima guerra mondiale, della Repubblica di Weimar e, poi, della Germania nazista, del diluvio della Seconda guerra mondiale, delle molteplici e profondissime ferite che questa ha provato nella società tedesca, aspetto poco considerato nel resto d’Europa, ove i Tedeschi sono ancora percepiti come il popolo che ha fatto soffrire gli altri, ma, quanto a se stesso, se l’è cavata, forse, anche troppo a buon mercato (tanto è vero che il "mite" Albert Einstein avrebbe voluto che la bomba atomica fosse sganciata su una città tedesca, e rimase assai contrariato per la resa della Germania e la diversione del bombardamento nucleare sul lontano Giappone, che, tutto sommato, gli riusciva indifferente).

Wiechert non appartiene al filone culturale direttamente o indirettamente influenzato dal marxismo, il che, di per sé, è stato un elemento a sfavore della sua notorietà, specialmente dopo il 1945, quando solo ciò che sapeva di marxismo pareva aver valore agli occhi degli intellettuali europei, mentre ciò che marxista non era, automaticamente veniva guardato con diffidenza, con sospetto, se non con aperta ostilità, perché chi non è con Marx non è con il popolo, e chi non sta dalla parte del popolo deve essere, per forza di cose e per logica, inoppugnabile deduzione, un fascista, un nazista, un guerrafondaio e uno sfruttatore dell’umanità. Wiechert si era opposto, sì, al nazismo, ma senza enfasi e senza sentirsi un soldato nelle file dell’esercito di sinistra; era, semplicemente, un cristiano, cui i metodi dei nazisti ripugnavano dal profondo del cuore, e suscitavano un autentico sgomento, al quale egli non aveva altre armi da opporre che quelle della sua stessa, sofferta umanità. Ma tali armi, Wiechert le impugnò e le adoperò senza paura: non fu timido nel prendere posizione contro il regime hitleriano e pagò un prezzo salato, che non tutti i militanti dell’ideologia marxista pagarono in eguale misura, anche se, a guerra finita, si trovarono automaticamente promossi a profeti cui la storia ha dato ragione, e circonfusi di gloria per la persecuzione subita.

Wiechert, no. Il mite, il riservato, l’introverso cantore della vecchia società patriarcale e il lirico poeta dei boschi, delle brughiere, delle paludi, dei vasti spazi solitari della Germania orientale, di una natura selvaggia e romantica, di una vita semplice a contatto con la santità della campagna, ancorata agli affetti familiari e alla morale cristiana, non era tipo da farsi avanti per reclamare il suo momento di gloria, per lasciarsi arruolare nell’esercito dei vincitori, per concede interviste dall’alto del pulpito come chi, alla fine, si è visto premiato nei suoi sforzi e nella sua lungimiranza. Wiechert era un uomo schivo e uno scrittore del tutto indifferente alle mode letterarie, alla ricerca del facile successo, a qualsiasi cosa potesse anche solo vagamente adulare o blandire il pubblico. Lui era uno scrittore vero, che diceva solo quel che il cuore e la mente gli dettavano e che non amava furbizie, compromessi, sotterfugi: era un tedesco tutto d’un pezzo, della vecchia Germania pre-nazista, di una società ordinata e tutto sommato bonaria, anche se un po’ rigida; un uomo dal codice morale indistruttibile, a prova di bomba, abituato a non chinar mai la schiena, a non negoziare mai i suoi principi. Si è parlato molto, dopo la guerra, della "emigrazione interna", per intendere il corrucciato silenzio, lo sdegnoso appartarsi di quei tedeschi che non fecero la scelta di espatriare, ma neppure si piegarono ad adulare il regime; Wiechert fu qualcosa di più di un "emigrato interno": fu un lottatore che sfidò il nazismo e finì in campo di concentramento. Fece "solo" alcuni mesi a Buchenwald, è vero: ma bastarono a minare il suo fisico per sempre.

Dal 1938 al 1945, del resto, visse sotto il costante controllo della polizia: gli era stato detto, da Goebbels in persona, che, la prossima volta, avrebbe pagato un prezzo ben più salato, se avesse osato ancora dar fastidio al regime. Eppure, a guerra finita, non ci risulta che sia stato acclamato come uno dei più coraggiosi intellettuali tedeschi rimasti in Germania negli anni cupi del nazismo; furono acclamati, invece, Bertolt Brecht, che era fuggito fin dal 1933; Thomas Mann, che aveva fatto la stessa cosa, nello stesso anno, cioè non appena Hitler era salito al potere; e Günter Grass, che in Germania era rimasto, che si era arruolato giovanissimo nelle Waffen SS, e aveva combattuto per il regime di Hitler fino all’ultimo; ma che poi, con rapida inversione, era passato all’area politica marxista e si era segnalato come il capofila degli scrittori di sinistra, rifacendosi una problematica verginità democratica (messa in crisi solamente mezzo secolo dopo, dalla sua ammissione, ormai quasi ottantenne, di aver militato nelle famigerate SS).

Per Ernst Wierchert, che non era comunista e neppure volle diventarlo; che aveva sempre prediletto la tranquilla società piccolo borghese, descrivendo gli affetti semplici dell’uomo medio, timorato di Dio e amante della propria famiglia; per questo intellettuale che non aveva mai pensato in termini di lotta di classe, che non aveva mai sventolato la bandiera della rivoluzione, e che, a differenza anche di Heinrich Böll, non aveva una spiccata propensione sociale e progressista, ma, "semplicemente", una profonda umanità e una dirittura morale a tutta prova, non vi furono squilli di fanfara, ma un rapido, ingeneroso oblio; anche se, prima della guerra, era stato fra gli scrittori più letti e più apprezzati, di colpo, nel cima successivo al 1945, la sua scrittura apparve datata, obsoleta, irrimediabilmente retrò: aveva il profumo del "mondo di ieri" (per dirla con Stefan Zweig), non rispecchiava, né inneggiava alla marcia trionfale del progresso. Perfino i luoghi da lui cantati, le pianure boscose e solitarie della Prussia orientale, erano un ricordo del passato: quelle zone erano state annesse in parte dalla Polonia, in parte dall’Unione Sovietica, e i loro abitanti erano stati espulsi, nel corso di una gigantesca operazione di "pulizia etnica", dopo aver sofferto tutto quel che un popolo vinto può soffrire da un conquistatore ben deciso a vendicarsi delle violenze subite: stupri, saccheggi, brutalità di ogni genere, umiliazioni pubbliche sapientemente calcolate.

Così ha rievocato la sua figura il giornalista Enzo Biagi in uno dei suoi migliori libri di interviste e ricordi, Mille camere (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1984, pp. 270):

Wiechert è forse lo scrittore tedesco che ho amato di più, perché è un incontro della giovinezza. Ormai è quasi dimenticato, e anche i suoi compatrioti lo han messo da parte. Il suo mondo, le sue storie, i suoi personaggi — contadini, servi, pastori d’anime – i suoi cieli prussiani e le foreste, le pianure sterminate, le paludi, le nevi, le torbiere, gli stormi migranti, sono lontani, cancellati da nuove trame, e anche la sua voce rassegnata si perde nel frastuono che ci circonda.

Per questo feci viaggio a Wolfratshausen, per conoscere la signora Paulmarie Wiechert. Ancora una vedova.

Quando i nazisti erano saliti al potere, distruggendo le botteghe degli israeliti percuotendo avversari, annunciando rimedi per la disoccupazione, nuove glorie per i vessilli dei vecchi soldati, veloci autostrade per i buoni borghesi, lo scrittore Ernst Wiechert, provveditore agli studi nella città di Berlino, aveva detto: "non voglio trattare con questa gente, voglio essere solo".

Si era ritirato in campagna, coi suoi libri, coi suoi sogni di uomo semplice, cresciuto tra grandi selve, abituato a riconoscere gli uccelli dal canto, e l’andamento delle stagioni dalle fughe della selvaggina.

Quando il pastore Niemöller, che predicava contro la violenza, venne imprigionato,, e la famiglia, rimasta senza alcun sostegno, non aveva da vivere, il taciturno scrittore Ernst Wiechert rifiutò il suo contributo al soccorso invernale del partito e mandò del denaro alla moglie del ribelle. Fu ancora una volta solo, e poco dopo due robusti personaggi vestiti di grigio si presentarono ala sua porta, e caricarono su una grossa automobile nera quel mite signore dallo sguardo malinconico ("Aveva gli occhi rassegnati dei cervi della sua terra", diceva la moglie), dalla altissima fronte, ancora più accentuata dalla calvizie, dai modi calmi e riservati. Alto, magro, con un’aria sofferente, chiuso in un riserbo quasi impenetrabile, Ernst Wiechert seguì serenamente i due poliziotti. "La vergogna del Reich" aveva deciso "non sarà la mia vergogna".

Attorno a lui c’era tanta viltà, tanta miseria: tutti si erano adattati al volere del Führer, e lo seguivano con devozione: "Servi sulle cattedre universitarie, sui seggi dei tribunali, dietro l’aratro che squarcia le zolle, al tavolo dei poeti" scrisse; e il tradimento del suo popolo lo riempì di sgomento.

Lo mandarono in carcere, gli presero le impronte digitali, fu tra i delinquenti comuni, coi perseguitati politici, conobbe ogni genere di umiliazione, interrogatori estenuanti, l’abbandono degli amici, la volgarità di una certa vita in comune, l ipocrisia o l’indifferenza del prossimo.

Il cappellano della prigione di Amberg disse ad un poveraccio, condannato a quindici anni di detenzione, per confortarlo: "Ebbene, mio caro, non è poi così terribile. Come vede, tre giorni sono già passati".

Poi lo condussero a Buchenwald; e da allora egli non poté più vedere, senza orrore, una foresta di faggi, gli pareva che tra gli alti alberi si muovessero fantasmi: quelle foglie inondate di sole coprivano, nascondevano una pena senza fine,

Lo trasferirono a Heltesberg, e gli diedero un numero: 7180, rosso. Voleva dire: "politico". C’erano i neri, renitenti al lavoro, e i verdi, criminali di professione, e i numeri rosa, per certi disgraziati dalle inconsuete debolezze [come si sente che Biagi scriveva queste righe trenta’anni fa esatti: oggi, nessun giornalista potrebbe adoperare impunemente simili espressioni, anche se è, o piuttosto, specialmente se è, in quota alla cultura progressista!], e i numeri gialli per gli ebrei. Il numero 7180, rosso, era rispettato da tutti, e anche amato: capivano che quel prigioniero non aveva che una colpa, difendeva la libertà di tutti, le sue idee erano il suo peccato.

Quando decisero di rimandarlo a casa, il ministro Goebbels volle parlargli: due minti, non fu un dialogo. Pallido, nervoso, sprezzante, Goebbels disse una sola frase: "Se sentiremo ancora una sua parola, la annienteremo nello spirito e nel corpo".

Tornò quassù, a Wolfratshausen: debole, malato, ancor più assorto nelle sue irraggiungibili visioni: il vecchio cane lupo gli corse incontro scodinzolando, come se nulla fosse accaduto, la moglie e la figliola lo abbracciarono senza lacrime.

Fece un lungo giro sul prato, s fermò davanti alla vite selvatica che copre di un bel coloro ruggine i muri di pietra viva, salì sull’altana dove si ritirava a lavorare, e rimise in ordine i suoi quaderni. Passò davanti alla pendola olandese, e gli fece piacere sentire battere le ore; rivide, davanti alla porta della sua camera, la grossa testa dell’alce, che ricordava le cacce del suo paese lontano, laggiù nella Prussia orientale. Ricominciò a scrivere, e la mogie nascondeva le pagine tra le pianticelle della serra. In lui non era rimasto alcun segno dell’odio. Se ne andò a morire in Svizzera: non c’era nel suo cuore né amarezza né paura. Ancora solo, come solo era vissuto.

Mi disse la signora Wiechert, congedandomi: "Resterò in questa casa fino all’ultimo, per mantenere viva l’atmosfera che riempiva il suo spirito. Le sue parole non sono per tutti, per questo pochi lo seguono oggi, come pochi furono ieri con lui".

Un cane abbaiava lontano, dai boschi veniva il freddo vento che rende ancor più misteriosa e piena di presagi la notte. La signora Wiechert era ferma sulla porta, agitava stancamente una mano nel saluto.

Chissà; forse, se la Germania post-bellica invece di formarsi, e di formare i suoi giovani, su spettacoli e letture come L’opera da tre soldi di Brecht o Il tamburo di latta di Grass, avesse rivolto la sua attenzione ai libri di Ernst Wiechert, non solo tirando fuori dagli scaffali quelli anteriori alla Seconda guerra mondiale, come Il servo di Dio Andreas Nyland, del 1926, Novella pastorale, del 1935, e La vita semplice, del 1939, ma anche andando a leggersi quelli usciti dopo, come I figli Jeromin, del 1945-47, e Missa sine nomine, del 1950 (l’anno della sua morte), forse avrebbe appreso più cose su se stessa, sul proprio passato, e acquisito anche le basi per un futuro più saggio. Ciò non è accaduto, per via della fama di conservatore che accompagnava Wiechert, e, più ancora, per il fatto che la critica lo accusava (e lo accusa) di essere un intellettuale "disimpegnato", che cerca, fuori della storia, improbabili idilli bucolici, lontano dai problemi "veri" della società, alle cui problematiche non pare interessato.

Forse, se si fosse levata (e si levasse) il paraocchi ideologico del politically correct, la critica si accorgerebbe, una buona volta, che c’è più sostanza, più amore vero per gli uomini, più interesse per i loro drammi, le loro speranze, le loro delusioni, e una maggiore capacità di dare ad essi delle risposte profonde e universali, in uno scrittore apparentemente non impegnato, come Ernst Wiechert, che in tanti intellettuali lodati per il loro impegno e più che disposti a sbandierare ovunque la loro militanza politica (di sinistra, ovviamente: come se essi soltanto avessero le "credenziali" giuste per essere presi sul serio, in una società democratica e matura dal punto di vista civile), ma che poi si sono rivelati, in prospettiva, tanto meno illuminanti, tanto meno profondi, tanto meno sensibili alle vere questioni umane, di quel che sul momento non sembrasse.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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