
Col panno sporco del razzismo abbiamo gettato anche il bambino della società organica?
19 Aprile 2016
La buona novella della modernità è un gioioso inno escrementizio?
20 Aprile 2016Come studieremmo la storia, oggi, se a vincere la Seconda guerra mondiale fossimo stati noi?

Come studierebbero la storia, oggi, i nostri studenti; come la spiegherebbero i nostri professori; e come la esporrebbero i nostri libri di testo, se a vincere la Seconda guerra mondiale fossero state — diciamo, così, per amore d’ipotesi — le potenze dell’Asse?
Quello che è certo, è che le buone ragioni dell’Italia, per essere scesa in campo il 10 giugno 1940, sarebbero esposte, quanto meno, con la stessa convinzione e con lo stesso fervore con i quali erano sostenute, almeno fino a qualche anno or sono (ultimamente, già un po’ meno, ma per ragioni diverse dalle contingenze politiche internazionali) quelle che indussero il governo Salandra, nel maggio del 1915, a dichiarare guerra all’Austria-Ungheria, nostra partner della Triplice Alleanza, e poi, nell’agosto del 1916, anche alla Germania.
Così come, per l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, si è a lungo parlato di Quarta guerra d’indipendenza (e l’espressione non è affatto inesatta, o arbitraria, almeno se intesa nel significato più ampio dell’espressione, cioè non solo geografico e territoriale), senza dubbio si parlerebbe, per la Seconda guerra mondiale, di quinta guerra d’indipendenza. Si metterebbe in evidenza la necessità di spazio per l’espansione demografica, di materie prime, di mercati, di libero accesso agli oceani, nonché di una revisione generale — non solo dal punto di vista italiano — delle questioni rimaste irrisolte, o ingiustamente definite, dalla pace di Versailles; si elencherebbero gli atti poco amichevoli delle democrazie: le "inique" sanzioni al tempo della guerra d’Etiopia, l’uso strumentale della Società delle Nazioni per coprire l’imperialismo anglo-francese, la minaccia finanziaria rappresentata dagli speculatori di Wall Street, l’incombere del comunismo sovietico e dello spettro di una nuova ondata bolscevica sull’Europa. Senza dubbio, si parlerebbe anche del complotto sionista internazionale; si evidenzierebbe la missione civilizzatrice svolta dall’Italia nel suo impero africano; e si farebbe notare come il possesso di quell’impero sarebbe stato, e rimasto, fragile e aleatorio, fino a quando Gibilterra, Tunisi, Malta, Suez, Aden e Gibuti fossero rimaste nelle mani della Gran Bretagna e della Francia, tagliando il nostro commercio e le nostre rotte marittime fuori dall’Oceano Atlantico e dall’Oceano Indiano. Infine, si parlerebbe degli interessi storici, strategici, economici, dell’Italia nell’area balcanico-danubiana; della necessità di assicurarsi, con la Dalmazia, delle basi realmente sicure per la flotta, e quindi il controllo pieno e indiscusso del Mare Adriatico; dei legami e delle convergenze d’interessi con l’Ungheria, la Romania, la Bulgaria: insomma, del ruolo mondiale che l’Italia era chiamata a svolgere, insieme alla Germania e al Giappone, nel generale sommovimento e nella ridefinizione complessiva delle sfere d’influenza e dei rapporti di forza tra le maggiori potenze, a livello planetario.
Del resto, se vogliamo farci un’idea di come i libri di storia, oggi, parlerebbero di quelle vicende, nell’ipotesi che abbiamo fatto, non occorre lavorare troppo di fantasia: è sufficiente prendere in mano i testi scolastici, e non scolastici, pubblicati negli anni della guerra stessa. Abbiamo scelto, per questo scopo, l’ultima lettura, Stati Uniti e Giappone, all’interno della Appendice, intitolata La guerra europea sino all’agosto 1941 — XXI, curata da Piero Gribaudi – ma il suo vero nome era Ferdinando -, figlio dell’insigne geografo Piero Gribaudi, e geografo anch’egli, posta a conclusione del corso paterno di Geografia per la Scuola Media Inferiore, L’uomo e il suo regno, Torno, S.E.I., 1941, vol. III, pp. 220-221):
Una guerra, che scuote i cardini dell’assetto mondiale, rivendicando ai popoli giovani sani e poveri quel maggior spazio e quella più equa distribuzione di materie prime cui essi hanno diritto, non poteva non avere ripercussioni al di là degli oceani. Gli Stati Uniti, come detentori di immense ricchezze economiche, e dei quattro quinti dell’oro del mondo, stretti da vincoli di razza e di lingua con la Gran Bretagna, si mostrarono subito disposti a sposarne la poco nobile causa, e trovarono nel presidente F. D. Roosevelt un fiero sostenitore degli aiuti al’Inghilterra. Una colossale mistificazione, fondata sulla propaganda contro un inesistente pericolo d aggressione da parte delle Potenze dell’Asse, sta alla base di tutta la montatura bellicistica, ordita dal giudaismo e dai plutocrati statunitensi. Ma la realtà di è che il più sfacciato imperialismo americano voglie l’occasione per fare lauti sismi profitti con le forniture belliche, per stringere sempre più a sé, nello stesso destino, le nazioni sudamericane, e per prepararsi a raccogliere le spoglie del cadente impero britannico.
Di fatto, dopo essersi fatte cedere le migliori basi navali ed aeree che la Gran Bretagna possedeva nei mari dell’America settentrionale e centrale, gli Stati Uniti hanno mandato truppe in Groenlandia ed in Islanda. Palese, è quindi, l’intento di una sempre più diretta e prepotente intromissione nelle cose d’Europa, con una diretta manovra contro la Germania. Dopo aver scientemente provocato il conflitto che insanguina il continente europeo distribuendo, a dritta ed a manca, promesse, non mantenute, di aiuti, e, dopo aver sospinto i piccoli Stati ad ostacolare le potenze dell’Asse nel loro piano di ricostruzione europea, l’America di Roosevelt, temendo soprattutto che l’Europa di domani sfugga al controllo economico delle grandi plutocrazie, si accinge al passo decisivo.
Ma non le mancano ostacoli sulla strada intrapresa. Il principale di essi è rappresentato dall’atteggiamento del Giappone. Aderendo al Tripartito, questo paese ha voluto significare che anch’esso lotta per gli ideali di maggior giustizia internazionale e interna, che l’Asse propugna. Popolo giovane anch’esso, prolifico, sobrio, laborioso, militarmente disciplinato, il giapponese si accinge ad assumere nell’Asia Orientale la stessa funzione che Italia e Germania svolgono in Europa. Per questo il Giappone ha come massimo interesse quello di sottrarre l’Asia orientale alle ingerenze che Inghilterra e Stati Uniti hanno colà acquistato con l’intrigo e con la potenza finanziaria. Per questo il Giappone, avendo pacificato e potenziato economicamente gran parte della Cina, combatte contro le residue forze di Ciang Kai Scek, legate al carro dei capitalisti. Gli ultimi avvenimenti, come l’accordo con la Francia per l’Indocina, ora occupata dalle truppe giapponesi (agosto 1941), dimostrano che il Giappone ha scelto definitivamente la sua strada, e che non se ne lascerà smuovere, lottando insieme all’Italia ed alla Germania per la liberazione del mondo dalla schiavitù dell’oro.
Ecco: appunto. La Seconda guerra mondiale, e specialmente la partecipazione italiana ad essa, sarebbe presentata così come la presentò la propaganda dell’Asse e, poi, del Tripartito: come un gigantesco scontro mondiale fra il sangue e l’oro, fra il lavoro e il capitale, fra i popoli poveri, ma giovani e in espansione, e i popoli ricchi, egoisti e decadenti. La propaganda alleata, viceversa, che parlava della libertà, della democrazia, dei diritti fondamentali dell’uomo, sarebbe denunciata come menzognera e prezzolata dal capitale finanziario e industriale internazionale; e l’alleanza fra le plutocrazie occidentali e l’Unione Sovietica, sarebbe additata come la prova di un oscuro complotto giudaico mondiale, capace di coalizzare tutte le forze possibili, anche le più eterogenee e le più naturalmente inconciliabili, nello sforzo supremo di abbattere l’idea rappresentata dal fascismo: un nuovo ordine mondiale, dominato non più dagli affaristi di Wall Street, o dai commissari del popolo di staliniana osservanza, ma dai popoli lavoratori delle nazioni emergenti.
La cosa interessante, per chi abbia voglia di vederla, è che la propaganda alleata di guerra è passata, pari, pari, nei libri di storia e nei manuali scolastici, e viene abitualmente insegnata come sacrosanta e indubitabile verità oggettiva nelle aule dei licei e delle università; le scolaresche vengono portate in devoto pellegrinaggio a visitare i campi di sterminio nazisti (ma non si dice loro che molte centinaia di migliaia di civili innocenti morirono sotto le bombe, anche atomiche, dei "liberatori", comprese intere popolazioni inermi le quali, a guerra ormai finita, subirono la rappresaglia, la violenza, la deportazione, il massacro, ad opera degli esercirti vincitori. Di più: se un insegnante, per esempio, osasse mettere indubbio le cifre del genocidio degli ebrei, o la non completa e deliberata intenzionalità, almeno nelle fasi iniziali, di esso, rischierebbe seriamente una accusa di negazionismo e una condanna penale, se passerà l’apposita proposta di legge cui si lavora in Parlamento, fino a tre anni di prigione, come del resto già avviene in altri civilissimi Paesi d’Europa, come l’Austria o la Francia.
Sorge, a questo punto, una ovvia domanda: se la propaganda di guerra degli Allearti è diventata la verità storica, che viene insegnata e trasmessa dalla cultura ufficiale tanto nei Paesi ex vincitori che nei Paesi ex sconfitti; e visto che la versione dei medesimi libri, dei medesimi professori, dei medesimi corsi liceali e universitari, sarebbe diametralmente opposta, qualora, per ipotesi, il Tripartito avesse vinto la Seconda guerra mondiale e l’Italia avesse partecipato, da una posizione di forza, alla ridefinizione del potere mondiale, quale garanzia abbiamo che la storia, così come viene insegnata, possieda i requisiti minimi di obiettività, serietà e rispetto del vero, che noi tutti diamo per scontato essere alla base di essa, e senza i quali il suo studio diverrebbe non solo inutile, ma addirittura dannoso sotto il profilo intellettuale e morale?
Se la storia è la storia dei vincitori — e sappiamo bene che è così, da quando l’homo sapiens sapiens soppiantò l’uomo di Cro-Magnon, fino a quando l’uomo bianco distrusse i Pellerossa nelle grandi pianure americane — a che scopo non solo la si insegna, ma la si insegna giurando e spergiurando che essa è la pura verità, nient’altro che la verità, e addirittura minacciamo di erogare il carcere a chi volesse mettere ciò in dubbio? A che scopo, se non per condurre una gigantesca opera di mistificazione e di stravolgimento della verità, ossia per riscrivere la storia a senso unico, cancellando, alterando e deformando le ragioni dei vinti, e avvalorando in maniera indiscriminata, servile, adulatrice, quelle dei vincitori — i quali, guarda che coincidenza, sono tuttora i padroni del mondo, come lo erano divenuti nel 1945?
Ora, quel che ci proponiamo di fare, con queste riflessioni, non è di sostituire una verità strumentale, di comodo, con un’altra verità strumentale e di comodo. Non stiamo tentando di rovesciare, come un guanto, il giudizio sulle vicende della storia contemporanea: non siamo interessati a mutare una faziosità con un’altra faziosità, opposta e simmetrica. Quel che ci interessa, è di ricordare a tutti, e anche a noi stessi, che la ricerca della verità non può mai accontentarsi di ascoltare una sola delle parti che furono in lotta; che la parte uscita soccombente dalla lotta ha il dirotto, sul piano intellettuale e anche su quello etico, di essere ascoltata, attraverso le sue ragioni, con la stessa attenzione, con lo stesso scrupolo di verità, che tutti riconoscono essere necessari per decidere qualsiasi questione scientifica, o, quanto meno, per impostarla in maniera corretta. Amplificare le colpe, gli errori ed i crimini di chi è uscito sconfitto, e, nello stesso tempo, minimizzare, scusare o addirittura ignorare le colpe, gli errori ed i crimini di chi è uscito vincitore, non è indice di rispetto della verità, e nemmeno di autentica dirittura morale. Ricordiamolo una volta di più: se, da un punto di vista etico, la distruzione ingiustificata di una sola vita umana è inaccettabile (ma quando si può dire realmente "giustificata"?), da un punto di vista rigorosamente e imparzialmente storico è necessario, per quanto possa riuscire sgradevole, contare i morti, i feriti, i deportati, con avara e minuziosa scrupolosità, senza cedere alla tentazione di caricare ogni addebito allo sconfitto; perché la storia non ha lo scopo di distribuire la pagella dei buoni e dei cattivi, ma di capire; e, per capire, è necessario conoscere i fatti, così come si sono svolti, senza aggiungere o togliere nulla, neppure una unità, si trattasse anche di un conto di milioni di vite.
Quanto all’Italia e alla Seconda guerra mondiale, siamo proprio sicuri che tutti gli argomenti della propaganda fascista del 1940 fossero pretestuosi, sbagliati, disonesti, retorici, razzisti, cinici, immorali? Siamo sicuri che lo fossero molto di più di quanto non lo erano quelli di tutte le altre nazioni in lotta? Ma, si dirà, c’è una bella differenza fra le nazioni democratiche e quelle totalitarie; nelle prime, finita la guerra, subentra la serietà imparziale degli storici di professione, nei secondi, permangono la propaganda e la falsificazione della verità. E tuttavia, siamo sicuri che le cose stiano così? Siamo propri sicuri che, in democrazia, la verità non sia degradata a propaganda del vincitore?
Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio