
La visione cattolica della vita equivale a una forma di naturalismo?
12 Febbraio 2016
Il culto e le attività sociali: che cosa viene prima, nella prospettiva cattolica?
14 Febbraio 2016L’esperienza coloniale dell’Italia è durata dal 1882, anno in cui la sovranità sulla Baia di Assab è passata dalla Società di navigazione Rubattino al governo italiano, al 1943, quando il nostro ultimo esercito in terra africana è stato sconfitto e fatto prigioniero, fine poi ratificata dal Trattato di Pace di Parigi del 1947: una sessantina d’anni in tutto, che salgono a più di settanta se si parte dalla data del 1869, allorché Assab fu acquistata, a titolo privato, da Giuseppe Sapeto, missionario e orientalista, che agiva, in realtà, ma occultamente, per conto del nostro governo.
Settantaquattro anni non solo poi tanto pochi: corrispondono a circa tre generazioni (di allora; oggi il ricambio generazionale si è alquanto allungato). Eppure, in tre generazioni pochissimi scrittori si sono presi la briga di parlare dell’esperienza coloniale italiana. La battaglia di Adua, nella quale sono morti più soldati italiani che in tutte le guerre del Risorgimento messe insieme, non ha avuto il suo cantore epico e neppure il suo disincantato cronachista. Dai poeti, silenzio assoluto: Carducci, così propenso a cantare le italiche glorie, non ha voluto commemorare i caduti di una politica di conquiste coloniali che gli ricordava le brutalità dei Croati inquadrati nell’esercito austriaco ai danni dell’Italia. D’Annunzio se n’è uscito con una frase infelicissima, nel romanzo «Il piacere» (1889), quando fa dire al protagonista, Andrea Sperelli, a proposito di Dogali: «Per quattrocento bruti, morti brutalmente», che suscitò una vivace polemica a livello nazionale (cfr. il nostro articolo: «"Per quattrocento bruti, morti brutalmente": Dogali e la polemica su D’Annunzio», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 03/04/2013). Poi c’è un saggio di Alfredo Oriani, «Fino a Dogali» (sempre del 1889), ma il titolo è ingannevole, perché parla poco dell’impresa africana e molto, invece, della crisi economica e religiosa dell’Italia post-unitaria. Per la guerra di Libia, che pure risultò vittoriosa, niente, a parte il quarto volume delle «Laudi» dannunziane, «Merope», nel 1912. Poi, per alcuni decenni, silenzio. Un libro di Mario Appelius, «Il crollo dell’Impero del Negus», nel 1936, per celebrare la conquista dell’Etiopia; un grappolo di libri di memorie di Paolo Caccia Dominioni su El Alamein e la campagna del Nord Africa nella Seconda guerra mondiale. Infine un romanzo anomalo, «Tempo di uccidere», nel 1947, scritto da Ennio Flaiano su invito di Leo Longanesi, e subito vincitore del Premio Strega: storia di un’avventura in Etiopia d’un nostro ufficiale, dapprima erotica, poi drammatica e infine tragi-comica, secondo la vena grottesca dell’Autore (cfr. il nostro articolo: «Una pagina al giorno: un incontro conturbante, di Ennio Flaiano, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 06/10/2008 e ripubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 18/01/2016). Intanto l’Italia aveva perso tutte le sue colonie e il capitolo dell’espansione in terra africana si era chiuso per sempre, ad eccezione della anacronistica "coda" per quanto riguarda l’amministrazione fiduciaria della ex Somalia Italiana, dal 1950 al 1960.
L’impero coloniale tedesco ha avuto una vita assai più breve: sorto nel 1984, di colpo, per un brusco cambio di rotta della politica estera di Bismarck, finisce nel 1914, con lo scoppio della Prima guerra mondiale e la conquista, da parte alleata, di quasi tutte le colonie del Kaiser; solo il piccolo esercito dell’ Africa Orientale tedesca resisterà vittoriosamente fino al novembre del 1918; poi, con la Conferenza di Versailles, le colonie tedesche verranno ufficialmente sparite fra i vincitori, sia pure con formula ipocrita del "mandato" da parte della Società delle Nazioni. Trent’anni, dunque: neppure la metà dell’impero coloniale italiano, nato un po’ prima e cancellato via quasi trent’anni dopo. Eppure, in un tempo così breve, e oltretutto molto travagliato — solo verso il 1907 la maggior parte delle colonie furono definitivamente "pacificate" e una seria politica di sviluppo economico poté essere felicemente avviata — il "mal d’Africa" ebbe modo di attaccarsi almeno ad uno scrittore tedesco, se non fra i maggiori, nemmeno fra gli ultimi; uno scrittore che oggi è stato pressoché dimenticato, ma che, allora, ebbe un certo nome e godette di un certo prestigio, e fu anche tradotto in alcune lingue estere, fra le quali l’italiano: Hans Grimm, nato a Wiesbaden, in Assia, il 22 marzo 1875 e spentosi a Lippoldsberg, presso Kassel, il 27 settembre 1959.
Grimm cominciò a scrivere racconti di argomento africano fin dalla vigilia della Prima guerra mondiale («Südafrikanische Novellen», 1913) e mentre essa infuriava («Der Gang durch den Sand», 1916, e «Due Olewagen-saga», 1918); ma il grosso della sua produzione narrativa, sempre ispirata al tema delle colonie africane, e particolarmente all’Africa Sud-Occidentale tedesca, apparve negli anni Venti e Trenta, con il proposito costante di tener desta l’opinione pubblica su quel tema e di contribuire a un ritorno alla madrepatria delle colonie perdute. Fu una ricca produzione di romanzi, racconti e taccuini di viaggio: «Der Richter in der Karu und aldere Novellen» (1926); «Volk ohne Raum» (1926); «Die dreizen Briefe aus Deutsch Südwestafrika» (1928); «Das deutsche Südwester-Buch (1929); «Was wir suchen ist alles. Drei novellen» (1932); «Der Olsucher von Duala. Ein afrikanisches Tagebuch» (1933); e, infine, «Lüderitzland. Sieben Begebenheiten» (1934),; ai quali vanno aggiunti un paio di saggi di argomento non africano e alcune opere apparse postume, fra le quali «Kaffernland. Eine deutsche Sage», pubblicato nel 1961, ma scritto ben mezzo secolo prima, fra il 1911 e il 1915. Il nome di Grimm è stato ormai non solo virtualmente dimenticato, ma è anche politicamente impronunciabile, perché il suo colonialismo e il suo nazionalismo si sono intrecciati, a un certo punto – com’era fatale che avvenisse, dato il quadro politico determinatosi in Germania dopo l’avvento di Hitler – con l’ascesa, le fortune e i misfatti del regime nazista; e solo un nome solidamente affermato, ad esempio di un Ernst Jünger, o di un Martin Heidegger, avrebbe potuto superare una prova del genere, anche se la verità è che Hans Grimm — il quale, a suo modo, era certamente un idealista, e forse anche un ingenuo — non si può considerare, puramente e semplicemente, uno scrittore "nazista", o non più di quanto, ad ogni modo, lo si possa fare per una buona metà degli scrittori tedeschi di quel periodo storico. Ma il suo destino è stato quello degli intellettuali "minori": essendosi schierato dalla parte sbagliata della barricata, ossia quella che sarebbe infine risultata perdente, la sua memoria non ha resistito alla "damnatio memoriae" decretata dai vincitori nei confronti dei vinti.
Il fatto è che Hans Grimm ebbe con il movimento (poi regime) nazista un rapporto molto simile a quello che ebbero altri milioni di tedeschi come lui. Lo guardò inizialmente con simpatia, perché ritenne che esso avrebbe ridato coesione e prosperità alla patria, e che l’avrebbe aiutata a recuperare il ruolo di un tempo nella politica mondiale: e poiché il chiodo fisso di Grimm era il recupero delle ex colonie, giudicò che solo il nazismo avrebbe resa la Germania abbastanza forte da reclamarne la restituzione. Si aggiunga che egli era un sincero ammiratore della Gran Bretagna; che conosceva abbastanza bene gli Inglesi per aver soggiornato nel loro Paese, anche se, nel 1899, come del resto tutti i Tedeschi, aveva simpatizzato per la causa boera; e che pensava, come lo pensavano Hitler, Hess e parecchi altri capi nazisti, che fosse nell’interesse britannico, non meno che in quello tedesco, giungere ad un accordo fra le due nazioni, e che ciò fosse possibile, non essendovi contrasti sostanziali fra di esse, se non riguardo alle questioni navali e coloniali, dove trovare un punto d’incontro sarebbe stato, comunque, conveniente per entrambe. I metodi violenti e illegali del nazismo, tuttavia, disgustarono Hans Grimm, il quale era un tedesco alla vecchia maniera, cioè, sostanzialmente, un uomo d’ordine; e tale impressione negativa fu sufficiente a tenerlo ufficialmente al di fuori del partito, cui non volle mai iscriversi.
Il germanista sudafricano Klaus von Delft, professore emerito all’Università di Bloemfontein, in un discorso commemorativo tenuto a Lippoldsberg, la città d’adozione dello scrittore, nel 1975, ossia nel centenario della sua nascita, ha respinto la taccia di nazismo rivolta ad Hans Grimm, e ha esibito una quantità di lettere nelle quali egli aveva denunciato coraggiosamente gli abusi perpetrati dalla Hitler-Jügend, la violazione della legalità in occasione delle elezioni politiche, e perfino espresso la condanna per le uccisioni sommarie avvenute durante la Notte dei Lunghi coltelli. Se a ciò si aggiunge il fatto che, nel 1938, Grimm venne apertamente minacciato dal Ministro della Propaganda, Goebbels, di essere spedito in carcere, e che dovette, da allora, ritirarsi a vita privata, ci sarebbe un curriculum quasi degno di ascriverlo alla "emigrazione interna" e, quindi, alla resistenza "silenziosa" contro il nazismo, come tanti altri suoi colleghi scrittori e intellettuali di quegli anni. Ma c’è una differenza sostanziale fra costoro e Hans Grimm: il fatto che lui era un intellettuale di destra; che, nel 1926, aveva scritto uno dei libri-manifesto del nazionalismo tedesco, «Popolo senza spazio», un vasto romanzo in cui campeggia la figura di un coraggioso emigrante tedesco, costretto a espatriare per sopravvivere, lottando contro mille difficoltà; e, infine, che Grimm non ha mai preso apertamente posizione conto la politica razziale del regime nazista, il che equivale, per la cultura politically correct, ad una patente di antisemitismo (sorvolando sul fatto che milioni di tedeschi mantennero lo stesso riserbo sulla questione razziale: segno che gli Ebrei, a prescindere dalla tragedia del genocidio, che, negli anni Trenta, in pochissimi avrebbero immaginato, non erano particolarmente amati dal cittadino tedesco medio: ma questa è, appunto, una di quelle scomodissime verità che non si dovrebbero mai dire).
Insomma: mentre gi scrittori di sinistra, emigrati all’estero o "emigrati interni", possono vantare vere o presunte patenti di democraticismo e di solidarietà con la minoranza ebraica, Grimm non può fare altrettanto; pertanto, nemmeno il generoso tentativo del professor Klaus von Delft è riuscito ad abbattere definitivamente quel muro di riserbo, di sospetto o di aperta disapprovazione, che ha relegato la figura dello scrittore tedesco nell’angolo buio della storia letteraria del ‘900, dove invece sono stati salutati con grande entusiasmo scrittori, come Günter Grass (il cui «Tamburo di latta», sia detto fra parentesi, è stato, a nostro giudizio, enormemente sopravvalutato dalla critica), il cui merito principale è stato quello di sbandierare una ideologia politica neo-marxista — salvo poi ammettere, a decenni di distanza, e dopo aver intascato il Premio Nobel, il loro passato non del tutto immacolato nei riguardi del regime nazista. Solo nel 2006, pochi anni prima della morte, Grass si era deciso a confessare che, in giovane età, si era arruolato come volontario nelle SS: niente di male in questo; lo fecero tanti altri giovani, in un momento drammatico della tedesca, con l’Armata Rossa che avanzava come un rullo compressore ai confini orientali della Germania. Ma perché aspettare la bellezza di sessanta anni prima di dirlo? Forse per non incrinare la propria immagine, ormai ben consolidata, d’intellettuale di sinistra senza macchia e senza paura?
Eppure, le "colpe" sin qui elencate di Hans Grimm sarebbero state ancora poca cosa; quel che veramente non gli è stato perdonato, da tutta la cultura accademica e ufficiale della Germania contemporanea, non è stato quel che egli ha fatto, o quel che non ha fatto, ossia quel che ha taciuto, negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale, bensì quel che ha fatto e quel che ha detto negli anni del dopoguerra. Avrebbe potuto restarsene il silenzio, in un cantuccio, tanto più che la sua vena creativa di narratore si era, in sostanza, inaridita; avrebbe potuto cercar di passare inosservato, e ringraziare la buona sorte che gli aveva risparmiato l’epurazione anti-nazista, visto che già i nazisti lo avevano, di fatto, epurato a suo tempo. Invece, no: Grimm, che dal nazismo era stato allontanato dalla vita pubblica e ridotto al silenzio, e che era stato minacciato di finire di un campo di concentramento, adesso che il nazismo era sparito e che la Germania aveva voltato pagina, si mise in testa di giustificare non tanto le sue scelte personali, quanto il nazismo stesso. Prese dunque carta e penna e si rimise a scrivere, per dimostrare che la Germania aveva solo tentato di difendere la civiltà occidentale dalla barbarie bolscevica; e che era stata la Gran Bretagna, nel suo cieco atteggiamento anti-tedesco, a provocare la Seconda guerra mondiale e tutte le rovine e le sofferenze che ne erano conseguite. Queste tesi, tipiche della propaganda nazista, Grimm ebbe l’ingenuità di sostenerle nel 1950, per difendere l’indifendibile, in un opuscolo di risposta all’arcivescovo di Canterbury. Nel 1954 si candidò in Parlamento, con un partito d’estrema destra, ma non venne eletto. Scrisse allora un libello, «Perché; da dove; ma dove?», in cui tentava di giustificare, punto per punto, la politica estera nazista: avrebbe fatto meglio a tacere. Il suo vecchio amore per la Gran Bretagna (che anche Hitler aveva nutrito e che aiuta a capire alcune stranezze della Seconda guerra mondiale, come il cosiddetto miracolo di Dunkerque) continuava a giocargli dei brutti tiri: non si rendeva conto che esso non era mai stato ricambiato dalla classe dirigente inglese; e, soprattutto, che i vinti hanno sempre torto, e che ogni loro tentativo di scolparsi equivale a una ulteriore colpa…
Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio