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Si sbriciola sotto le pallottole tedesche, nel 1905, l’illusoria invulnerabilità dei Maji-Maji

L’effettivo controllo tedesco sul Tanganica venne proclamato nel 1885, in seguito ai trattati conclusi con gli indigeni dall’esploratore Carl Peters e dalla Società tedesca dell’Africa Orientale, Deutsch-Ostafrikanische Gesellschaft, ma il protettorato della Germania subentrò a queste iniziative private solo nel 1891, dopo una convenzione e tratto con la Gran Bretagna, firmati rispettivamente nel 1886 e nel 1890, lasciando alla Gran Bretagna sia l’isola di Zanzibar, su cui regnava un effimero sultano arabo, sia il Kenya e, infine, l’Uganda (in cambio della quale la Germania ottenne dai Britannici la cessione dell’isola di Helgoland, situata in posizione strategica nel Mare del Nord). Nel 1888 i Tedeschi dovettero affrontare una rivolta musulmana che scoppiò nella regione costiera, provocata dalla decisa azione anti-schiavista dei colonizzatori contro i mercanti arabi di carne umana, ma anche dai metodi spicci degli agenti della D.O.G., e che fu, appunto, l’evento decisivo nel convincere il governo di Berlino ad assumersi una maggiore quota di responsabilità nella gestione della colonia.

La rivolta era capeggiata da un facoltoso commerciante arabo, Abushiri Salim al Harti (noto come Bey’iri) diede parecchio filo da torcere ai Tedeschi e non terminò neppure quando costui venne catturato e impiccato, dopo essere stato abbandonato a tradito dai suoi seguaci, nel dicembre 1889, ma proseguì ancora per quasi un anno; solo nel novembre successivo le operazioni militari vennero ufficialmente terminate. In un primo tempo venne inviato un alto commissario imperiale, nella persona del capitano Herman von Wissmann (1853-1905), con la duplice funzione di coordinare le operazioni militari (cui parteciparono, per la repressione dei ribelli filo-schiavisti, anche forze britanniche) e di controllare l’operato della Società. Ma bastarono un paio d’anni perché il governo di Berlino si rendesse conto della impossibilità di rimettere l’amministrazione di un così vasto territorio (circa 990.000 kmq., contro i 540.000 della madrepatria) a una società commerciale privata, che non disponeva di adeguati mezzi finanziari.

La Deutsche-Ost-Afrika nacque, pertanto, il 1° gennaio del 1891, con la nomina di von Wissmann a primo governatore della colonia (in Africa, il Reich ne possedeva altre tre, fin dal 1884: il Togo, il Camerun e l’Africa Sudoccidentale tedesca). Bismarck, inizialmente, si era opposto all’espansione coloniale, sostenendo che la Germania non aveva bisogno di colonie e che esse le sarebbero costate più di quanto le avrebbero mai fruttato — e si sarebbe rivelato, in ciò, buon profeta; poi, bruscamente, nel 1884, mutò opinione e, cedendo alle pressioni degli ambienti pangermanisti, della Lega coloniale, del Ministero della marina (interessato ad acquisire basi coloniali sulle grandi rotte oceaniche) e di alcuni settori economici e finanziari, organizzò il Congresso di Berlino, ufficialmente per dirimere lo status della colonia "privata" di Leopoldo II, re dei Belgi, nel bacino del Congo; ma, in effetti, anche per procedere a una sorta di spartizione generalizzata del Continente africano fra le maggiori e minori potenze coloniali europee, che, in effetti, avvenne subito dopo.

La colonizzazione tedesca del Tanganica (che comprendeva anche i due territori del Ruanda e del Burundi, i quali solo dopo la Prima guerra mondiale verranno staccati e affidati in amministrazione al Belgio, quale risarcimento per i danni subiti da Bruxelles durante l’occupazione delle armate germaniche dal 1914 al 1918) mirava a creare una agricoltura commerciale rivolta all’esportazione di sisal, cotone, copra e caffè. Per realizzare questo ambizioso obiettivo — la regione era, in effetti, molto arretrata e, in vaste aree, afflitta dalla siccità e da malattie endemiche — i Tedeschi non badarono a spese e costruirono, a tempo di record, una efficiente rete di comunicazioni, i cui fiori all’occhiello erano le due linee ferroviarie Tanga-Moshi, nella zona settentrionale, e quella, molto più lunga, Dar-es-Salaam-Tabora-Kigoma, che univa la capitale amministrativa, sulla costa, alle sponde del grande Lago Tanganica, nell’interno, attraversando il vasto territorio del Tanganica da un capo all’altro, in senso latitudinale.

Purtroppo, i rappresentanti del governo coloniale non furono capaci di adoperare mezzi molto diversi da quelli, sbrigativi e a volte brutali, già mostrati dagli agenti della D.O.G.; e questo, unito alle condizioni di duro lavoro, in pratica semi-coatto, cui vennero sottoposte numerose popolazioni tribali, sia per realizzare le opere pubbliche, sia per la coltivazione delle piantagioni, finì per provocare fortissimi malcontenti e, da ultimo, una nuova, grave insurrezione indigena, questa volta nella sezione meridionale della colonia, posta fra l’Oceano Indiano e il Lago Nyassa: quella conosciuta come la rivolta degli Hehe, che mise alquanto in difficoltà le autorità coloniali. E che divampò nel luglio del 1891, prolungandosi, con fasi alterne fino al luglio del 1898. Nel corso di essa un distaccamento tedesco, comandato dal tenente Emil von Zelewski, venne interamente distrutto e lo stesso ufficiale cadde sul campo: anche la Germania, dunque, ebbe la sua piccola Dogali (o, se si preferisce, la sua Little Big Horn), cosa che scioccò alquanto l’opinione pubblica tedesca, che non se l’aspettava. Solo quando il re Mkwawa, anima della resistenza indigena, venne circondato e preferì suicidarsi piuttosto che cadere nelle mani del nemico, gli ultimi fuochi della rivolta si spensero. Particolare raccapricciante (ma non unico; anche le alte potenze coloniali fecero cose simili): la testa di Mkwawa venne spedita in Germania e finì al Museo di Storia Naturale di Brema, donde avrebbe fatto ritorno fra il suo popolo solo nel 1956.

Alla rivolta degli Hehe si sovrappose, in un certo senso, un’altra insurrezione indigena, più circoscritta nel tempo e nei luoghi, ma ancora più virulenta: quella dei Maji-Maji, che si intrecciò fin dalle sue origini con alcune credenze magiche e animiste legate alla presunta inefficacia delle pallottole tedesche, che si sarebbero trasformate in acqua davanti ai guerrieri che avessero bevuto una apposita pozione miracolosa, conosciuta appunto come Maji. Scoppiata, apparentemente in modo improvviso, nel luglio del 1905 – ma, in realtà, preceduta da chiari segnali d’insofferenza degli Africani per le prestazioni lavorative cui erano obbligati gli uomini, spesso con la loro separazione delle famiglie, che tuttavia i Tedeschi non seppero cogliere, restando presi alla sprovvista quando si manifestò con furia inusitata – si sarebbe trascinata fino al 1907, e pertanto venne a coincidere, in parte, con un’altra, gravissima rivolta nella colonia tedesca dell’Africa Sud-occidentale, scoppiata nel febbraio 1904, da parte dei bantu Ova Herero, rivolta alla quale si unirono, in un secondo momento, gli ottentotti Nama, condotti dal loro leggendario capo Hendrik Witbooi, e che si prolungò fino al 1907.

La coincidenza provocò un momento di panico a Berlino, perché fece pensare a molti che si stesse attuando un piano ben preciso e coordinato per espellere la Germania dai suoi possedimenti africani, e spinse le autorità militari a reagire con una durezza estrema, che, sia nel caso dei Maji-Maji, sia in quello degli Herero, sfiorò addirittura la strategia del genocidio, come altrove abbiamo provato a documentare (cfr. i nostri precedenti lavori: «Namibia 1904: il genocidio dimenticato del popolo Herero» e «Il genocidio degli Herero nel 1904 fu il laboratorio della futura politica genocida nazista», ora pubblicati su «Il Corriere delle Regioni»). Alla repressione dei Maji-Maij partecipò anche un giovane ufficiale tedesco, Paul von Lettow Vorbeck, che, nel 1906, andò a combattere nell’Africa Sudoccidentale e poi, allo scoppio della Prima guerra mondiale, tenne brillantemente in scacco, dall’agosto del 1914 fino all’11 novembre del 1918, le preponderanti forze britanniche, belghe e portoghesi mobilitate per schiacciarlo (cfr. «Una pagina al giorno: Lettow-Vorbeck nel Mozambico, di G. Scortecci», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 09/06/2009 e ripubblicato adesso su «Il Corriere delle Regioni).»

Ecco come il saggista John Reader ha ricostruito la rivolta dei Maji-Maji nel suo libro, ormai classico presso gli africanisti, «Africa. Biografia di un continente» (titolo originale: «Africa», 1997; traduzione dall’inglese di Maria Nicola, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2001, pp. 510-513):

«Una mattina di fine luglio 1905 gli uomini del villaggio di Nanadete, sulle colline oggi chiamate Matumbi Hills, circa 200 chilometri a sud di Dar es Salaam, nell’allora Africa orientale tedesca, si inerpicavano per il sentiero sassoso che portava ai campi di cotone. Il cotone stava giungendo a maturazione dopo le piogge, ma gli uomini erano in subbuglio. Due anziani, Ngulumbayo Mandai e Lindimyo Machela, si fecero avanti e con un gesto simbolico ne sradicarono alcune piantine: era la dichiarazione di guerra contro l’impero germanico.

Uno degli obiettivi della colonizzazione tedesca in Africa orientale era quello di rifornire la Germania di cotone grezzo. Questo articolo divenne la seconda voce in ordine di importanza nell’elenco nelle esportazioni dal Tanganica (dopo il sisal); la sua produzione si concentrava intorno alle sponde del lago Vittoria. I primi tentativi di coltivarlo furono però fatti nelle regioni costiere, dove gi abitanti dei villaggi erano obbligati a lavorare in campi comuni sotto la odi un responsabile. Ogni maschio adulto doveva garantire un certo numero do giornate lavorative all’anno. All’inizio della stagione 190-1905 i campi comuni (che variavano da 1 a 14 ettari ciascuno) coprivano una superficie di 4.000 ettari e vi lavoravano circa 160.000 uomini.

Secondo quanto stabilito dalle autorità coloniali, il responsabile, i lavoratori e il Kommunalverband (il comitato distrettuale controllato dagli europei) avrebbero ricevuto un terzo del valore di mercato del raccolto. Ma le paghe intascate dai lavoratori furono irrisorie o del tutto inesistenti, mentre la quantità di giornate lavorative cresceva. Parecchi rifiutarono la misera somma di 35 centesimi offerta loro dopo il primo anno di lavoro. L’anno successivo molti non furono pagati affatto. La domanda di lavoro nei campi di cotone però aumentava ovunque e in qualche caso era raddoppiata. Gli abitanti dei villaggi si convinsero "che il governo aveva inventato un nuovo sistema per obbligarli a lavorare gratis". Le defezioni erano diffuse, non solo perché le paghe erano basse, ma anche perché le gente delle Matumbi Hills rifiutava il concetto stesso di collettivismo Interrogato nella prigione di Dar es Salaam dove era incarcerato per essersi rifiutato di collaborare al piano di produzione del cotone, il capo Pazi Kitoweo spiegò che la sua gente "avrebbe pagato le tasse imposte dai bianchi e lavorato per costruire strade, ma non avrebbe mai lavorato nei campi comuni". La popolazione delle Matumbi Hills (e della regione meridionale in genere) costituiva quella che gli antropologi chiamano una società acefala, cioè priva di un capo riconosciuto o di un leader. Ogni famiglia era indipendente e responsabile delle proprie attività e aveva in comune col resto del gruppo solo la lingua, i legami di parentela, gli scambi di compravendita e baratto e le credenze religiose. Fra queste ultime vi era la fede animista in un mondo abitato dagli spiriti. Da mesi un profeta di nome Kinjikitile Ngwale diffondeva fra e varie comunità la visione che aveva avuta, e parlava di una forza spirituale che avrebbe consentito di scacciare i tedeschi da quelle colline. Kinjikitile viveva a Ngarambe, sul versante occidentale delle Matumbi Hills, e correva voce che fosse posseduto da Hongo, lo spirito serpente, che a sua volta era servo di Bokero, una divinità molto venerata. Si diceva che "Hongo sta a Bokero come Gesù sta a Dio", affermazione che dava particolare prestigio alle parole di Kinjikitile. Via via che il malcontento nei confronti dei tedeschi aumentava, la gente accorreva alla grande capanna dello spirito da lui costruita, dove la sua predicazione rinsaldava la fede nella divinità, nella possessione degli spiriti e nei poteri sciamanici, promettendo al popolo unità, forza e protezione. Egli distribuiva una "medicina", il "maji" (acqua), che, diceva, avrebbe reso inoffensive le pallottole tedesche. Combinando autorevolezza e possessione divina Kinjikitile creò un culto che aveva tutte le carte in regola per ispirare una vasta ribellione popolare. "Unitevi e scacciate i tedeschi" era il messaggio del profeta.

Kinjikitile assunse il titolo di "bokero" e si circondò di assistenti chiamati "hongo". Inviò degli agenti in ogni villaggio e intorno alla metà del 1905 il suo movimento di massa clandestino aveva sostenitori in tutte le Matumbi Hills e in una vasta area circostante. Quel giorno di luglio gli anziani di Nandete non aspettavano che una sua parola per muoversi. L’ordine del responsabile locale di consegnare i tributi a Kilwa fu la goccia che fece traboccare il vaso. Senza neppure consultare Kinjikitile, il cotone fu sradicato e i tamburi di guerra presero a rullare. La ribellione "maji-maji" era cominciata. I tedeschi furono colti di sorpresa, le pattuglie attaccate, i civili uccisi: per un mese parve che la profezia di Kinjikitile si potesse avverare. I tedeschi furono scacciati dalle Matumbi Hills e dalla vicina Kichi e i loro proiettili sembravano davvero innocui come acqua. Kinnjikitile fu presto catturato e impiccato, ma il suo grido di sfida dal patibolo, annunciante che l’"hongo" aveva già diffuso il "maji" a Kilosa, nel cuore del paese, e a Mahenge, sede della principale guarnigione tedesca della zona, non rimase una vuota minaccia. La rivolta esplose in tutta la regione. La gente si univa al movimento nella ferma convinzione che "il Maji di Ngarambe potesse liquefare le pallottole tedesche". "Questa non è una guerra. Noi non moriremo. Uccideremo e basta", disse uno dei capi ai suoi uomini. Il "maji" cementò perfino gruppi antagonisti. "Eravamo davvero uniti" ricordò più tardi uno dei partecipanti. "Non c’erano divisioni tribali nell’obbedienza ai capi".»

Ma il 30 agosto 1905, appena un mese dopo l’inizio della rivolta, ebbe luogo la catastrofe. I guerrieri si slanciarono con fanatica determinazione, in formazioni serrate, contro la postazione tedesca di Mahenge, convinti della propria invulnerabilità. Andarono all’attacco una schiera dopo l’altra, a migliaia, contro una sessantina di tedeschi, in gran parte ascari, che disponevano di due sole mitragliatrici; ma fu una strage spaventosa, con i cadaveri che si accumulavano gli uni sugli altri, sempre di più. Solo quando fu evidente a tutti che la pozione magica non aveva funzionato, gli attaccanti, traumatizzati, sospesero i loro assalti suicidi e si ritirarono. L’iniziativa passò allora ai Tedeschi, i quali, dopo aver ricevuto rinforzi dalla madrepatria e da altre colonie tedesche (perfino dalla lontanissima Nuova Guinea), incominciarono una durissima opera di repressione, attraversando la parte meridionale della colonia con tre colonne, le quali incendiarono i villaggi, distrussero i raccolti e sparsero deliberatamente il terrore. Il giornalista americano John Gunther, che visitò quella parte del Tanganica mezzo secolo dopo, scrisse che la devastazione operata dai Tedeschi era stata così radicale, che la sventurata regione non se n’era mai più ripresa ed era rimasta la provincia Cenerentola della Tanzania. Il bilancio fu tremendo: quando le operazioni principali cessarono, nell’agosto del 1907, si calcola che non meno di 75.000 indigeni erano stati uccisi (contro poche centinaia di caduti tedeschi, solo quindici dei quali bianchi) e tutti i capi erano stati impiccati o fucilati. L’ultimo venne preso e passato per le armi un anno più tardi, nel luglio del 1908. Ma le vittime causate dalla fame furono molte di più, da 250.000 a 300.000: i Tedeschi avevano distrutto intenzionalmente le fonti di sostentamento, mano a mano che le loro colonne attraversavano i territori ribelli. Il governatore Aldolf von Götzen ottenne comunque la totale pacificazione, tanto che, quando scoppiò la Prima guerra mondiale, solo pochi anni dopo, la regione rimase tranquilla, e, anzi, Lettow-Vorbeck poté attraversarla in lungo e in largo, combattendo contro gli Alleati, senza mai doversi guardare alle spalle.

La rivolta dei Maji-Maji fu la tipica insurrezione nativa fondata su culti animisti e magici di invulnerabilità. Fatti del genere si verificarono sia fra i Pellerossa del Nord America, con la Danza degli Spettri predicata dal profeta Wovoka, sia fra i Maori della Nuova Zelanda, con il movimento "Hau Hau", incoraggiato dal profeta Te-Ua (cfr. i nostri lavori: «I Paiute del Nevada», pubblicato parzialmente sul sito di Arianna Editrice il 22/09/2007; «La religione degli Indiani d’America prima di Wovoka», su Facebook il 25/07/2010; «La fine delle guerre indiane: un popolo in ginocchio», sul sito Arsmilitaris; e «La guerra antimissionaria e antibritannica dei Maori della Nuova Zelanda (1865-72)», ora tutti ripubblicati su «Il Corriere delle Regioni»). Ben più controversa , tuttavia, la sua interpretazione e collocazione nel contesto della storia africana moderna. Per la cultura "ufficiale" della Tanzania d’oggi, figure come quella di Bokero sono assimilabili agli antesignani delle lotte per l’indipendenza, anche se in una tale lettura vi sono evidenti forzature ideologiche.

L’ironia del destino è che i Tedeschi furono privati delle colonie, col Trattato di Versailles del 1919, con il pretesto che avevano dimostrato una estrema brutalità nelle relazioni con gli indigeni; mentre oggi tutti gli storici imparziali riconoscono che, dopo aver represso le ultime rivolte, essi avevano acquisito sufficiente esperienza per governare in modo giusto, intelligente e, per certi aspetti, illuminato, come effettivamente iniziarono a fare; solo che mancò il tempo per poterlo dimostrare…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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