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21 Gennaio 2016Per caso, ad un mercatino dell’antiquariato, ci è capitato fra le mani un volume dalle pagine ingiallite, ma ancora in buono stato, che , sulle prime, non si capiva bene se fosse un romanzo o un diario di guerra, uno dei tanti, di uno sconosciuto soldato — un aviatore, in questo caso — che aveva partecipato alla Seconda guerra mondiale, nel settore dell’Africa Orientale. Il nome dell’autore non ci diceva nulla: Augusto Serafini; nome fiorentino, probabilmente, dato che l’unico scrittore di questo nome da noi rintracciato fu un letterato del Rinascimento, di quella città (c’è stato poi, nel XX secolo, un missionario cappuccino, sempre con quel nome, che ha dedicato cinquant’anni della sua , dal 1935, a raccogliere bambini senza famiglia in Brasile, e spentosi recentemente, alla bella età di centoquattro anni; ma, anche questo, niente a che fare col Nostro). Insomma, un perfetto sconosciuto.
Il titolo del libro, appunto, faceva pensare più a un romanzo – anche se poi ci si accorgeva che era essenzialmente un diario di guerra -: «E adesso, papà?»; la ragione di quel titolo era nel fatto che l’Autore lo aveva dedicato al figlio, senza dubbio da un campo di prigionia britannico, visto che la dedica, con firma: "Tuo padre", recava la dicitura"Londiani, Kenya, 1943". Comunque il libro era stato stampato nel 1949 dalla casa editrice Danesi di Roma, con disegno di copertina del pittore Livio Apolloni (1904-1976) e con una introduzione del generale Giuseppe Santoro, autore, qualche anno dopo, dell’opera «L’aeronautica italiana nella seconda guerra mondiale», in due volumi (Milano, Esse, 1957), opera ormai fuori catalogo e quasi introvabile. A pie’ di pagina della dedica ("A mio figlio e ai suoi compagni di scuola"), una frase di Kipling: «Se saprai vedere spezzate le cose per cui hai dato la vita e saprai curvarti e ricostruirle con utensili logorati… sarai un uomo, figlio»; alla fine della dedica, un augurio e un auspicio, con citazione del Duca d’Aosta, prigioniero illustre in Kenya, dopo la resa dell’Amba Alagi: «L’Africa sia il tuo miraggio, giacché senza spazio qualunque altra conquista isterilisce, la terra nera che serra nel suo grembo la semenza gettatavi dai nostri padri e da noi che vi abbiamo lasciato la giovinezza, l’Africa sulle cui ambe "i morti montano la guardia in attesa del nostro ritorno". Questo è il mio unico retaggio: esso ti arda nel cuore tutta la vita.»
Tutto questo dà una chiara idea dei sentimenti con cui il libro è stato scritto e spiega, forse, il totale oblio nel quale è caduto, al di là dei suoi intrinseci meriti letterari, modesti, probabilmente, e della sua veste narrativa non del tutto risolta, fra letteratura e storia. Chi l’ha scritto è un soldato, un aviatore, che ha compiuto prodigi di valore, in condizioni difficilissime, contro un nemico strapotente, e non si rassegna all’idea che tante lotte e tanto sacrifici, non solo della sua generazione, ma anche di quelle precedenti, debbano scivolare nel nulla. È anche un uomo d’onore che, senza dubbio, vive l’8 settembre del 1943 come un tradimento, una pugnalata alle spalle nei confronti delle forze combattenti (tale è anche la versione data dal generale Santoro): un punto di vista ormai talmente raro da apparire persino incongruo. Di fatto, quell’auspicio ricorda un po’ troppo lo slogan fascista con cui fu dato l’annuncio della resa dell’ultimo esercito italiano in Africa, quello del generale Messe – in Tunisia, il 13 maggio 1943: «Una cosa è certa: in Africa ritorneremo!». Ma in Africa non siamo tornati (tranne che per l’amministrazione fiduciaria della ex Somalia Italiana, su incarico delle Nazioni Unite, nel decennio dal 1950 al 1960), in apparenza senza troppi rimpianti — a parte i poveri coloni italiani della Libia, cacciati dal colonnello Gheddafi nel 1969 (anche se lo storico Angelo Del Boca "assolve" il colonnello in nome del proprio anticolonialismo di ferro). Insomma, una ragione in più per spiegare la totale dimenticanza di questo libro – pur così interessante dal punto di vista memorialistico, oltre che psicologico – nel clima dell’Italia repubblicana e democratica post 1945.
Perché tornare a parlarne, allora? A chi può interessare che un certo Michelangelo Serafini, aviatore, abbia fatto la Seconda guerra mondiale in Africa Orientale; che abbia compiuto, con altri eroi anonimi, prodigi di valore, prima della resa inevitabile; che sia stato fatto prigioniero e chiuso in un campo britannico del Kenya; che abbia scritto un libro per ricordare i suoi compagni, il valore dei loro sacrifici, e che lo abbia dedicato al figlio, augurandogli di poter riprendere l’opera rimasta interrotta, in quei vasti spazi di cui una grande nazione ha bisogno, "se non vuole isterilire"? A chi può interessare, soprattutto, un libro così, oggi che l’Italia e l’Europa si trovano a vivere ben altre congiunture storiche, e, dopo aver conosciuto i decenni del benessere "facile", del consumismo di massa, siano ora entrate nella fase della decadenza, del ristagno demografico, dell’aborto legalizzato, dell’oblio delle proprie tradizioni, nella confusione dei matrimoni omosessuali con relative adozioni e/o concepimenti "assistiti" da una scienza deviata e da una legislazione aberrante, e nella invasione afro-asiatica organizzata e pilotata dagli oscuri poteri finanziari, con l’avallo di tutti i buonisti e i progressisti, e con l’assenso dei massimi poteri dello Stato e la benedizione della Chiesa cattolica, schierata in primissima fila per l’"accoglienza" indiscriminata? In questo contesto storico e culturale, il libro di Serafini sembra quasi un libro di fantasy: le storie di cui parla, i valori cui si ispira — amor di patria, spirito di sacrificio, senso dell’onore militare e del valore in guerra — si direbbero totalmente fuori posto, quasi assurdi.
Eppure, vogliamo credere, una ragione c’è, o ci può essere. Senza voler fare l’elogio di tutti i valori che hanno animato la scrittura di quelle pagine, o del probabile fascismo dell’Autore (che ricorda il film «Luciano Serra, pilota», e non solo per l’ambientazione); senza voler sposare interamente il suo punto di vista, e riconoscendo francamente che vi è una parte, del suo bagaglio intellettuale e spirituale, che è ormai divenuta irrimediabilmente anacronistica, pure crediamo che il libro «E adesso, papà?», ponga alla nostra generazione, la generazione di coloro che, oggi, sono padri, una serie di domande ineludibili, alle quali non è facile rispondere; nondimeno, ciò è necessario, oltre che doveroso Ogni generazione dovrebbe sentirsi interpellata da quella dei propri figli: dovrebbe esser capace di spiegare in che cosa ha creduto, per che cosa è vissuta, quale eredità morale pensa di aver lasciato dietro di sé, con i fatti più che con le parole.
E allora lasciamo perdere, se così si vuole, lo specifico contesto storico di quel libro: anche se è un fatto che la cultura repubblicana e democratica del secondo dopoguerra ha avuto troppa fretta di archiviare sia il ricordo della guerra stessa (della guerra fino all’8 settembre del 1943, intendiamo; perché di quell’altra, la guerra civile dal 1943 al 1945, ne ha parlato eccome, stravolgendola però fin dal nome e facendola diventare "la Resistenza"), sia quello del colonialismo, lasciando orfani e sopravvissuti alla storia due categorie di Italiani: gli ex combattenti, che si erano battuti valorosamente dal 10 giugno 1940 all’8 settembre del 1943, e che non meritavano, forse, la trista reputazione che il tradimento del re e di Badoglio ha fatto cadere su tutti loro; e gli ex coloni, rimpatriati dalla Libia, dall’Eritrea, dalla Somalia e dall’Etiopia, oltre che dal Dodecaneso, dall’Albania e perfino dalla piccola "concessione" cinese di Tientsin (ingrandita, dopo il 1918, con l’accorpamento di quella ex austriaca). Proprio come era toccato ai profughi della Venezia Giulia, in fuga — quelli sì, e non per modo di dire! — dalle foibe del maresciallo Tito e dal terrore del comunismo slavo, sai i reduci, che i coloni rimpatriati si son trovati come relitti in casa propria: a loro veniva chiesto di dimenticare il proprio vissuto, di cancellare il senso delle loro vite, dei sacrifici sopportati, se volevano inserirsi nel nuovo tessuto della nazione: che era, trionfalmente e gloriosamente, antifascista, democratico, antimilitarista, anticolonialista.
Di fatto, quasi tutta la memorialistica italiana sulla Seconda guerra mondiale è stata selezionata in base a questo criterio fondamentale: che sputasse fiele e disprezzo sulle ragioni stesse della guerra italiana, ridotta a cinica e irresponsabile iniziativa di un solo uomo, Mussolini; e che presentasse tutte le lotte e le fatiche sopportate come un tragico errore, uno spreco di eroismo, un sanguinoso equivoco. Solo la barbara guerra civile meritava di essere rievocata con enfasi e compiacimento; solo l’assassinio dei fratelli era degno di venire narrato come qualcosa di cui andare fieri. Quanto al colonialismo italiano, la selezione è stata ancora più severa: i libri come quello del Serafini, si contano sulle dita; spadroneggia il punto di vista politically correct, quello di Angelo Del Boca, che vede nel colonialismo italiano solo colpe e vergogne; e il romanzo più noto relativo a quel periodo, «Tempo di uccidere», di Ennio Flaiano, pur ambientato in Etiopia, dopo la conquista del 1936, e avendo per protagonista un ufficiale italiano, è tutto giocato sul versante ironico e grottesco (abbastanza simile, in questo a «Il deserto della Libia», di Mario Tobino). Insomma, se proprio di Africa bisogna parlare, che siano tolti preventivamente qualunque riferimento e qualunque riflessione su quel che di buono l’Italia ha fatto nelle sue colonie (chi ancora ricorda che la primissima legge imposta in Etiopia, nel 1936, fu, appunto, l’abolizione della schiavitù? Sì: perché l’eroico e simpatico Negus, Hailé Selassié, regnava su un Paese schiavista: che, in pieno XX secolo, consentiva ancora quella barbara istituzione, che i suoi alti protettori inglesi, francesi e americani avevano così aspramente combattuto da più di un secolo).
Ma lasciamo stare tutto questo; lasciamo stare sia la sfortunata partecipazione italiana alla Seconda guerra mondiale, dal 1940 al 1943 (visto che la cultura ufficiale rifiuta di ammettere ciò che è piuttosto evidente: che essa fu la quinta, e infelice, guerra d’indipendenza italiana, e la conclusione ideale del nostro Risorgimento; e che la sconfitta ignominiosa del 1943 segnò la fine politica non del solo del fascismo, ma dell’Italia in quanto nazione libera e sovrana), sia il capitolo del nostro colonialismo, che pure è stato tanto importante non solo per le Forze armate, ma per migliaia di nostri contadini e lavoratori, che hanno fatto fiorire il deserto libico, costruito scuole e ferrovie nelle remote montagne abissine, realizzato splendide fattorie nella Somalia oggi abbandonata al caos e al terrorismo dei "signori della guerra".
Lasciamo perdere tutto ciò e domandiamoci: se la generazione perduta, cui appartennero uomini oggi dimenticati, come Michelangelo Serafini, seppe lasciare ai propri figli un patrimonio di forza morale, abnegazione, coraggio, tenacia, pazienza, fede nel domani e nei destini dell’Italia, anche passando attraverso la peggiore tempesta che la storia moderna abbia mai visto, quale bagaglio ideale e morale è capace di lasciare ai propri figli la generazione dei padri odierna? Gli uomini (e le donne) che oggi hanno dai trentacinque ai sessant’anni (l’arco di tempo di una generazione, appunto; anche se oggi tale arco si è ampliato a dismisura, dato che i figli si fanno non più a venti, ma a cinquant’anni), quale eredità di valori, di esempi, di idealità, possono lasciare, con buona coscienza, alle nuove generazioni, destinate a prendere il loro posto nel prossimo futuro? Ecco, soprattutto di esempi: perché di belle parole son capaci tutti; e ormai, complici la televisione, la radio e gli altri media, le parole si sono ormai talmente inflazionate, che si è perfino stanchi di sentir discorsi "seri" (e si preferisce guardare il Grande Fratello, o ascoltare le ultime canzonette di Sanremo, o ridere sgangheratamente alle ultime battute, non sempre felici e non sempre di buon gusto, dei comici che oggi vanno per la maggiore).
La generazione odierna dei padri ha ricevuto, a sua volta, non buoni, ma ottimi esempi da quella dei propri genitori: quella dei Serafini, quella dei "Luciano Serra, pilota". C’era della retorica nel loro insegnamento? Può darsi; ma la loro capacità di sacrificio, quella non era affatto retorica. E non stiamo parlando solo dello spirito di sacrificio militare (siamo certi che qualcuno penserà che siamo qui a fare l’elogio del militarismo: perché, in Italia specialmente, e soprattutto dopo il 1945, qualunque discorso deve subito essere letto e interpretato in chiave ideologica, compresi i notiziari atmosferici). Parliamo del nonno, fornaio, che si alzava ogni giorno, estate e inverno, in pace e in guerra (con i bombardamenti sempre in agguato) per impastare il pane; o della nonna, sua valida collaboratrice, che ha anche tirato su, nel migliore dei modi, quattro splendide figlie; del papà, militare di carriera, poi insegnante statale, infine preside, che non ha mai chiesto un giorno di permesso sul lavoro, se non per estrema necessità; e della mamma, maestra elementare, che si toglieva il pane di bocca per i bambini dei paesi di montagna, senza luce elettrica e senza neanche la strada asfaltata per arrivare, e si faceva immensamente amare da tutti loro.
Parliamo di persone che, per tutta la vita, non hanno mai parlato di "diritti", tanto meno di diritti che configgessero con l’unità della famiglia, con la sanità dei costumi, con i valori morali (come quello di abortire legalmente, e a spese del pubblico contribuente, compreso chi non è d’accordo); che non si sono mai messe in mostra per mero narcisismo, lavorando però sodo, sempre; che non hanno mai dato scandalo, né fatto parlare di sé, se non in bene. Oggi, possiamo dire altrettanto di noi stessi?
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