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18 Gennaio 2016Allorché i negri di Zanzibar, nel 1964, diedero la caccia agli arabi e ne massacrano alcune migliaia, così, senza alcuna ragione valida, tranne il fatto che gli arabi erano "schiavisti" – lo erano stati, infatti, alcuni secoli addietro -, i mezzi d’informazione occidentali parlarono, genericamente, di violenze, di uccisioni, sì, ma non di genocidio (cfr. il nostro articolo: «Il genocidio di Zanzibar del 1964 venne ignorato perché infastidiva la vulgata marxista», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 26/11/2015). E se il regime dei Khmer rossi di Pol Pot sterminò da 1 a 2 milioni di cambogiani, fra il 1975 e il 1974; o se gli Hutu del Ruanda, nel 1994, trucidarono barbaramente un milione di Tutsi, di nuovo si parlò di massacri e di atrocità, ma non si adoperò, almeno all’inizio, la parola "genocidio". Perché? Semplice: perché solo gli Occidentali erano capaci di commettere un genocidio; non erano stati i nazisti del Terzo Reich a eseguire il genocidio per antonomasia, quello degli Ebrei, durante la Seconda guerra mondiale?
L’idea che dei popoli africani o asiatici, per giunta "vittime" del colonialismo, potessero compiere, a loro volta, dei genocidi, sembrava inaccettabile alla cultura dominante, ispirata dalle categorie intellettuali del marxismo (e, in parte, dall’illuminismo di Rousseau e dal mito del "buon selvaggio"). Di certi crimini erano capaci solo gli Occidentali; e, più precisamente, solo gi Occidentali di destra. Gli Occidentali di sinistra, i marxisti, non si erano mai macchiati di simili atrocità: infatti, è noto che i quattro milioni di Ucraini, sterminati fra il 1929 e il 1933 dalla politica staliniana, un misto di carestia, deportazioni ed eliminazione fisica, sono morti di raffreddore. Anche i due milioni di cambogiani sterminati da Polt Pot sono morti di raffreddore, probabilmente. Per non parlare delle vittime della Grande Rivoluzione Culturale del "glorioso" presidente Mao Ze Dong, nel 1966 e dintorni: del resto, non si è mai saputo, e forse mai si saprà, quanti milioni di cinesi hanno perso la vita in quella circostanza; dunque, come si potrebbe parlare di genocidio? No: il genocidio è roba che va bene per quelli come Hitler, ma non si addice agli uomini politici progressisti e di sinistra.
La sinistra è buona, così come sono buoni tutti i popoli, tranne quelli occidentali, tristemente famosi per la loro cattiveria congenita. Solo gli Occidentali hanno trafficato gli schivai negri, per secoli; benché si sappia che la stessa cosa, e per un tempo ancora più lungo, l’hanno fatta gli Arabi, sulla costa orientale dell’Africa. E si dimentica volentieri che il primo genocidio del XX secolo, quello degli Armeni, non è stato perpetrato da un popolo occidentale, ma dai Turchi, nel 1915. In altre parole: la cultura occidentale ha elaborato e introiettato un tale odio e disprezzo di sé, un così divorante senso di colpa, che solo per se stessa è disposta a riconoscere i crimini storici passati e recenti; per chiunque altro, semplicemente non li ritiene possibili e si rifiuta addirittura di credervi, a meno che vi sia letteralmente costretta dall’evidenza. Ma, anche in quel caso, invero estremo, la cultura occidentale, beninteso la cultura egemonizzata dalla sinistra, troverà tutte le attenuanti possibili e metterà a punto tutti i distinguo, per evidenziare come il genocidio, in se stesso, sia pur sempre, fondamentalmente, una cosa europea, e una cosa di destra.
Nemmeno oggi, a quasi trent’anni dalla caduta rovinosa dei regimi comunisti di tipo sovietico, le cose sono cambiate in maniera sostanziale; è ancora difficile fare i conti con simili tabù ideologici, con simili scheletri nell’armadio. E ciò per una ragione abbastanza semplice: il comunismo, come ideologia, si è praticamente dissolto; però, morendo, ha fatto in tempo a inoculare gran parte del suo veleno in una ideologia ancor viva e vegeta, e che si appresta, anzi, a presentarsi, non solo in Italia, ma in Europa e in tutto l’Occidente, come l’ideologia vincente del Terzo millennio: un cristianesimo "compassionevole" e "misericordioso", impastato di populismo, di egualitarismo, di buonismo, di sentimentalismo e di rancore nei confronti dei "felici", dei "sani", degli "abbienti" e dei "fortunati": il basso rancore delle plebi miserabili, invidiose e malevole nei confronti di tutto ciò che è aristocratico, come diceva Nietzsche (che qualche ragione pure l’aveva, anche se commise l’imperdonabile semplificazione di attribuire al cristianesimo, in quanto tale, le aberrazioni di certi cristiani o di certi settori della società cristiana).
Così, prendiamo la parola "razzista". Per la cultura oggi dominante in Occidente, "razzista" è, senz’altro, chiunque non sia d’accordo con l’invasione e con la sostituzione di popolazione europea che è in corso da tre decenni, e che prosegue a ritmo sostenutissimo, mese dopo mese, giorno dopo giorno, mediante l’arrivo incessante di sempre nuove ondate migratorie, via mare e via terra, dall’Asia e dall’Africa, alle quali non è lecito opporsi, perché, facendolo, ci si qualificherebbe automaticamente come "inumani", "crudeli", e, appunto, "razzisti". Per cui, se la polizia statunitense, o francese, o britannica, adopera le maniere forti con qualche immigrato di origine asiatica o africana, viene immediatamente stigmatizzata dai media come "razzista". La polizia della Repubblica Ceca, che osò segnare il numero sul braccio, con il pennarello, alle migliaia e migliaia di migranti che l’attraversarono, nell’estate del 2015, venne subito qualificata come "nazista", e i massimi capi di Stato, cancelliera Merkel in testa, rievocarono i fantasmi mai sopiti di Auschwitz. Gli operatori di un centro di accoglienza italiano, che lavavano i migranti, appena salvati e sbarcati dalle carrette del mare, mediante getti d’acqua, si videro qualificati di "inumani" e "razzisti" dopo che uno di quegli ospiti ebbe ripreso la scena con il telefonino e l’ebbe fatta girare, via Web, per le televisioni di tutto il mondo. Si vede che anche adoperare l’acqua per pulire quei corpi, che da settimane o mesi non erano mai stati lavati, aveva un che di razzista.
Anche un certo modo di parlare, e perfino di guardare, sono qualificabili come "razzisti": beninteso, se è un bianco che si rivolge a una persona di colore (espressione, ne siamo ben consapevoli, già di per sé sbagliata e politicamente scorretta, perché razzista: ma scusate, come ci si deve esprimere, per farsi capire?). Però se è una persona di colore a usare modi sprezzanti verso un’altra persona di colore, appartenente a una diversa etnia, allora non è "razzismo": non si sa perché. E se una persona di colore guarda negli occhi, con arroganza, per sfida, un bianco, incontrandolo per strada; se gonfia il petto e tende a occupare tutto lo spazio del marciapiede, per fargli capire che la strada è sua, quello non solo non è razzismo, non è neppure un comportamento censurabile: sicuramente sarà causato da qualche maltrattamento subito in precedenza, da qualche complesso d’inferiorità, del resto ampiamente giustificato da due secoli d’infame colonialismo europeo.
Per la stessa ragione, sempre più spesso e quasi sistematicamente, i mass media evitano di specificare la nazionalità di un ladro, di uno scassinatore, di uno stupratore, di uno spacciatore, quando devono riferire i malinconici resoconti della cronaca quotidiana. In moltissimi casi si tratta di reati commessi da persone appartenenti all’etnia rom, o da immigrati, compresi i più recenti richiedenti asilo; però non bisogna dirlo: si teme, facendolo, sia di passare per "razzisti", sia di alimentare, eventualmente, atteggiamenti razzisti da parte del pubblico. E non si pensa che proprio questa sensazione di impunità, di complicità, di copertura, che avvolge le malefatte di individui stranieri presenti nei Paesi europei, irrita immensamente la popolazione e favorisce, questa sì, il sorgere di sentimenti xenofobi e di reazioni a sfondo razzista. Chi non ricorda Kabobo, l’immigrato africano che a Milano, nel 2013, uccise a colpi di piccone tre sventurati passanti, che non gli avevano fatto assolutamente nulla? Sul momento, disse di aver agito perché sobillati dalle "voci", ma il processo ha fatto piazza pulita di simili espedienti difensivi: infliggendogli una pena a vent’anni, lo ha riconosciuto perfettamente lucido, e ha stabilito, una volta per tutte, che agì "semplicemente" in preda alla frustrazione per i problemi della sopravvivenza quotidiana. Che avrebbe detto la stampa, se a massacrare tre africani innocenti fosse stato un ragazzo italiano (o francese, o tedesco, o inglese)? Che avrebbero detto gl’intellettuali progressisti e i preti di sinistra? Ancora: si sa che, nei centri di accoglienza, accade sovente che i "profughi" (lo scriviamo fra virgolette, perché il loro status, al momento dell’arrivo, è ancora tutto da verificare) di religione musulmana mettano in un angolo quelli di altra religione, che li costringano a mangiare gli avanzi; in qualche caso, che, durante la traversata, li abbiano gettati in mare e abbandonati al loro destino, proprio in vista delle coste italiane). Però, guai a parlare di razzismo: il razzismo è soltanto quello dei cristiani, prego. La storia lo insegna. Quale storia? Quella che i libri e i professori di sinistra hanno insegnato, per sette decenni, a partire dal 1945, ai loro sventurati alunni; e che due o tre generazioni di preti progressisti e di sinistra hanno inculcato ai loro parrocchiani, fomentando i loro sensi di colpa collettivi; e omettendo sempre di raccontare come in Messico, in Spagna, in Russia, nel solo XX secolo, dei regimi di sinistra abbiano sterminato milioni di cattolici, sacerdoti, suore e laici, per la sola ed unica colpa di essere tali.
Aveva osservato, alla vigilia della caduta del comunismo, Jean-François Revel nel suo libro «La coscienza inutile» (titolo originale: «La connaissance inutile», Editions Grasset & Fasquelle, 1988; traduzione dal francese di Alessandro Serra, Milano, Longanesi & C., pp. 33-35):
«Le democrazie, nel XX secolo, sono state minacciate nella loro esistenza da due nemici totalitari, decisi, per dottrina e per interesse, a farle sparire: il nazismo e il comunismo. Sono riuscite a sbarazzarsi del primo, a costo di una guerra mondiale. Il secondo invece resiste ancora, anzi, dal 1945, non cessa di aumentare la sua potenza e di ampliare il suo impero. Ora, la sinistra ha comunque imposto il mito bizzarro che i due totalitarismi siano rimasti e rimangano ugualmente attivi, ugualmente presenti, ugualmente pericolosi, e che sia quindi un dovere non attaccare o criticare mai l’uno senza rendersela anche con l’alto. E anche questa parità di trattamento e questa rigorosa equivalenza fra un totalitarismo che o esiste più e u totalitarismo che esiste ancora rappresentano una posizione considerata come già orientata verso destra. È questo il limite che non va superato nell’ostilità verso il comunismo, altrimenti si incorre nel sospetto di esser fascisti o di simpatizzare per i "totalitarismi di destra". Nei Paesi democratici, i comunisti, per ragioni evidenti, ma anche il grosso delle truppe della sinistra non comunista, per ragioni meno chiare, rifiutano o hanno rifiutato di vedere per lungo tempo un totalitarismo. Nella maggior parte del terzo mondo, è ancora tale rifiuto che prevale. Secondo questa visione delle cose, in via d’estinzione a livello razionale ma sempre influente a livello irrazionale, il totalitarismo sussisterebbe solo nella sua versione fascista sostenuta e favorita dall’"imperialismo", il quale non può essere che americano. È quindi il solo che occorra realmente combattere, includendo in questa battaglia una vigilanza nei confronti delle rinascite, ritenute incessanti o imminenti, del pericolo nazista nell’Europa dell’ovest. Se, a partire dal 1975 circa, una parte della sinistra si rassegna a parlare o a lasciar parlare di minaccia totalitaria comunista, questa tolleranza non deve giungere sino ad autorizzare la destra a fare altrettanto, dal momento che quest’ultima è congenitamente sospetta di menzionare il comunismo solo per meglio passare sotto silenzio il fascismo. Solo la sinistra può deplorare con tutte le garanzie morali gli orrori del comunismo. Avete diritto di parola solo se vi siete in precedenza crogiolati nell’elogio di Mao, di Fidel castro o dei Khmer rossi. O, per lo meno, nessuna denuncia del comunismo, se viene dal campo liberale, può passare la dogana ideologia della sinistra se non è accompagnata da un’identica dose di denuncia d’un misfatto fascista. Uno scrittore polacco che vive a Parigi, Piotr Rawicz, mi ha raccontato verso la metà degli anni ’70 di aver consegnato a un giornale un articolo su diversi libri che trattavano di comunismo e nazismo. Nel concludere la sua recensione, aveva scritto: "Ad ogni modo, il nazismo conserva ai miei occhi una grande superiorità sul comunismo, quella di essere scomparso nel 1945". Quando aprì il giornale per leggere il so articolo stampato, notò che quest’ultima frase era stata soppressa. Si sente la necessità che il nazismo non sia sparito….»
Non condividiamo tutto di questa riflessione; e, in modo particolare, neghiamo recisamente che si possa equiparare il fascismo al nazismo, come se i due termini siano addirittura intercambiabili. Ma l’impalcatura del ragionamento rimane, ed è solida. La cultura dominante di sinistra — anche oggi, dopo che il Muro di Berlino è crollato da ventisei anni — impera, e seguita a ricattare, più che mai…
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