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La società tedesca fu antisemita perché era sempre stata anticapitalista?

C’è un aspetto, nella questione dell’antisemitismo tedesco moderno, che, ci sembra, non è stata sufficientemente considerata; anzi, in realtà ve ne sono due, simultanee e pressoché complementari, che aiutano a capire e inquadrare meglio la natura del problema.

Il primo aspetto è che la società tedesca pervenne al sviluppare una moderna strutta industriale capitalista relativamente tardi,: assai più tardi non solo della Gran Bretagna, ma anche della Francia (del nord), del Belgio, degli stessi Stati Uniti. O meglio, si dovrebbe distinguere fra le regioni occidentali e quelle orientali. Politicamente, erano queste ultime a pesare di più, perché a oriente si trovava la Prussia, lo stato-guida nel processo di unificazione tedesco; economicamente, gran parte di esse si basava ancora sulla grande proprietà terriera degli Junker e viveva in una condizione pre-moderna, basata su agricoltura, artigianato e piccolo commercio. Quelle regioni fornivano allo Sato solerti funzionari ed efficienti militari di carriera, ma non avevano una vocazione imprenditoriale. Al di là della frontiera c’erano la Russia e la Polonia (divenuta parte della Russia), nazioni più arretrate, ancora ferme alla servitù della gleba, con pessime vie di comunicazione e poveri villaggi; nelle loro cittadine predominava l’elemento ebraico, attivissimo nel commercio e nell’usura. I proprietari terrieri prussiani non si sentivano affatto stimolati a modernizzarsi da tali vicini; esportavano i loro prodotti senza temere concorrenza. Però, dal 1815, con la sconfitta di Napoleone, la Prussia si allargò fino ad inglobare la Renania e la Westfalia: regioni occidentali, che guardano ala Francia, già discretamente industrializzate e dotate di ottime infrastrutture.

In pratica, fino al 1871, al momento della nascita del Reich, esistevano almeno due Germanie: quella dell’Est, rurale, aristocratica, burocratica, militaresca, totalmente luterana, diffidente verso la modernità, attaccata alle sue antiche tradizioni locali e municipali, idealmente erede delle glorie dell’antico Ordine Teutonico; e quella dell’Ovest, con fabbriche moderne e un proletariato in continua espansione, una borghesia imprenditoriale di tutto rispetto, erede della Hansa e dei liberi comuni medievali, attratta dalla cultura italiana e francese, parzialmente cattolica, commercialmente aperta verso la Francia, l’Olanda e l’Inghilterra. Il tedesco dell’Est si sentiva padrone feudale e guerriero; germanizzando la Posnania e altre regioni annesse dell’ex Regno di Polonia, era convinto di perseguire una nobile missione di civiltà; il "suo" mare era il Baltico: guardava alla Curlandia, alla Livonia e all’Estonia come a delle regioni sorelle, civilizzate da altri baroni tedeschi; e considerava la Russia, con la sua autocrazia, come l’interlocutore naturale. Aveva anche uno spiccato senso artistico e poetico e una inclinazione filosofica che poteva sfoggiare nomi come Kant e Schopenhauer. Il tedesco dell’Ovest leggeva i giornali, frequentava la borsa, era attivo negli affari e nelle professioni, viaggiava frequentemente all’estero per lavoro o per cultura, amava e ammirava l’Occidente; era moderatamente liberale, sospettoso dell’autocrazia, estimatore della monarchia costituzionale, aperto al progresso, alla siderurgia, alle navi a vapore, alle imprese coloniali, in cui vedeva sia uno sbocco per la manodopera in eccesso, sia la possibilità di acquisire nuovi mercati e materie prime a basso costo. Aveva uno spirito pratico, bonario, allegro (specialmente il bavarese), quasi libertino; all’interno del mondo tedesco, si sentiva di casa più a Vienna che a Berlino; e, fuori di esso, certamente più a Venezia, Parigi, Londra o Amsterdam, che a Varsavia o Pietroburgo.

Altra differenza importante: sebbene la percentuale di popolazione ebraica non variasse molto da una zona all’altra, l’ebreo tedesco dell’Est era molto più "visibile" di quello dell’Ovest: più attaccato alle tradizioni rabbiniche, anche esteriormente; più chiuso, più diffidente, più fatalista; quello dell’Ovest si era abbastanza bene integrato, occupava posizioni importanti nelle libere professioni, era avvocato, medico, giornalista, banchiere; era dinamico, e spesso si considerava prima tedesco e poi ebreo; in religione, sovente si era distaccato in modo sostanziale dalla fede dei padri, pur rispettandone, di solito, le forme esteriori. Qualche vola si era convertito al cattolicesimo o al luteranesimo; più spesso, era divenuto agnostico o apertamente ateo (come Karl Marx).

Riassumendo: la Germania, prima del 1871, era un Paese bifronte, con due anime diverse, ma, nel complesso, diffidente verso il progresso e la modernità; aveva accettato l’inevitabilità dell’economia capitalistica, ma non senza una segreta resistenza interiore; specialmente all’Est, il tedesco seguitava a considerare la terra come la vera sorgente del benessere e la vita rurale come quella più conforme alla natura e alla volontà di Dio; si era adattato all’industrializzazione e alla urbanizzazione, ma imponendo ad esse dei rigidi paletti, restando fedele il più possibile alla tradizione. Le città tedesche, ingrandendosi e industrializzandosi, non si erano imbruttite: avevano conservato, quasi sempre, tutto lo splendore medievale; le antiche università umanistiche avevano conservato il loro prestigio, pur aprendosi alla rapida avanzata della cultura scientifica; strade, canali e ferrovie avevano rispettato le foreste, le colline, le bellezze naturali; il progresso moderno si accompagnava ovunque a un ordine impeccabile, a una gelosa tutela della storia e dell’ambiente; e non si era diffuso più di tanto lo spirito irrequieto del moderno proletariato industriale, anche perché, grazie a Bismarck, la Germania si era dotata per tempo di una legislazione del lavoro ammirevole, che era all’avanguardia nel mondo intero. Perciò, politicamente e spiritualmente, la maggioranza dei tedeschi rimaneva conservatrice, molto attaccata ai suoi sovrani (che, dopo il 1871, non erano stati mandati in pensione, ma avevano continuato a regnare nel nuovo Reich federale) e legata alla pubblica amministrazione da un rapporto di forte correttezza e di assolta fiducia. Perfino i socialdemocratici, che pure formavano il più forte partito ispirato al marxismo di tutto il continente, erano molto disciplinati, molto rispettosi del bene pubblico, molto responsabili nelle loro scelte; le buone condizioni di lavoro li rendevano restii a preparare seriamente la rivoluzione; quando avranno l’occasione di farla, nel 1918-19, se ne guarderanno bene.

Tanto andava detto per capire il sentimento diffuso nei confronti dell’elemento giudaico, percepito come "moderno" e "capitalista", mentre la maggioranza del popolo tedesco non si sentiva tale e non riteneva un bene procedere troppo avanti su quella strada. Il commerciante ebreo, per non dire il banchiere, suscitava invidia, sospetto, malevolenza: appariva come il portatore di un modo di essere alieno, profondamente diverso da quello tipicamente tedesco,. Tale diffidenza non esisteva nei confronti altre minoranze che, immigrate in Germania da tempi più o meno lontani, si erano poi perfettamente integrate, ad esempio i calvinisti francesi espulsi da Luigi XIV. Un filosofo come Romano Guardini, italianissimo di nascita, era percepito come tedesco in tutto e per tutto; e tale anch’egli si sentiva. Ma l’ebreo, no: vi era in lui qualcosa d’indecifrabile; una segreta inquietudine, una mancanza di vero attaccamento alla patria; una sorta di cittadinanza interiore del tutto diversa.

Ha osservato uno dei maggiori storici britannici del XX secolo, Werner E. Mosse (nato nel 1918 e morto nel 2001), ma oriundo di Berlino, da un’antica famiglia di ebrei tedeschi, a conclusione della sua poderosa e accurata monografia su «Gli Ebrei e l’economia tedesca. Storia di una élite economica, 1820-1935» (titolo originale: «Jews in the German Economy. The German-Jewish Economic Elite, 1820-1935», Oxford University Press, 1987; traduzione dall’inglese di Marco Cupellaro e Giovanni Arganese, Bologna, Società Editrice del Mulino, 1987, pp. 449; 467-468):

«… Fino a che punto l’élite [finanziaria e industriale ebraica] ha svolto una funzione specifica nello sviluppo economico della Germania? E in quale misura il suo continuo alla crescita del’economia tedesca possedeva un carattere distintivo che la differenziava da quella degli analoghi gruppi gentili? È evidente, senza dubbio, che a partire da Meyer Amschel Roitschild, attraverso Joseph Mendelssohn, Gerson Bleichröder, Arthur Solomonsohn, Max Warburg, Oskar Wassermann, per finire con Jakob Goldschmidt e Georg Solmsse, il ruolo degli ebrei nel sistema bancario tedesco — sia privato che a capitale azionario — fu veramente eccezionale Come si può spiegare questa straordinaria presenza degli ebrei nelle banche tedesche? Forse la più importante ragione di carattere generale del ruolo ebraico nella finanza tedesca fu il fatto che (a differenza dei loro vicini cristiani, che vivevano in quella che era essenzialmente un’economia naturale), gli ebrei vivevano da generazioni in un’economia monetaria. L’attività commerciale degli ebrei, a tutti i livelli, si era concentrata non sullo scambio di merci o servizi ma sui trasferimenti di denaro o di crediti. Gli ebrei, perciò, quasi "da tempo immemorabile" non solo sapevano come operare con il denaro, ma erano anche stato condizionati a pensare in termini monetari. In questo modo essi avevano formato una "enclave capitalistica" all’interno di un’economia ancora prevalentemente "precapitalista". […]

In molti casi(non in tutti, e in misura miniore nel periodo postbellico, come è dimostrato dalle operazioni dei vari Hugo Stinnes, Otto Wolf o Friedrich Flick) i passi verso il "capitalismo organizzati" e la concentrazione industriale furono intrapresi o promossi da finanzieri ebrei. Si potrebbe affermare che gli ebrei svolsero quasi fono alla fine un ruolo non trascurabile nell’evoluzione del capitalismo tedesco.

Si trattò, come già si è detto, di un ruolo che espose gli esponenti dell’élite economica ebraica ad attacchi provenienti da direzioni opposte. La società tedesca, nella sua evoluzione storica e nei suoi valori sociali, fondamentalmente ostile, lo abbiamo accennato, ad ogni forma di sviluppo capitalistico. Il capitalismo veniva attaccato con coerenza e virulenza in nome di valori preindustriali (reali immaginari), e naturalmente questo anticapitalismo di fondo poteva facilmente essere deviato, considerata l’importanza degli ebrei nello sviluppo capitalistico, in direzione di obiettivi antisemiti. Proprio questo si verificò sull’onda della grave crisi del capitalismo tedesco successiva al 1873. Gli antisemiti fecero uso dei Rotschild, di Bleichröder e infine di Albert Ballin come simboli del capitalismo ebraico; a questo elenco può essere "aggiunto" Walther Rathenau, sebbene nel suo caso vi fosse un accento leggermente diverso. Nel 1912 l’antisemita Diederich Hahn notava, non senza qualche giustificazione, che, nonostante tra i capitalisti anche i gentili fossero numerosi, gli ebrei costituivano, soprattutto tra i maggiori possessori di capitali mobili della Germania, "il cerchio concentrico più interno e meglio organizzato, intorno al quale ruotano tutti gli altri". Fu inoltre l’importanza degli ebrei tra le figure del capitalismo a dare forza alle tesi sulla natura "estranea" e "non tedesca" dello stesso fenomeno capitalistico. E lo stesso Karl Marx — citati con piacere da Sombart — non aveva forse sostenuto che i termini "ebreo" e "capitalista" erano virtualmente identici? Il socialismo marxista, in tutte le sue manifestazioni, attaccò conseguentemente gli esponenti dell’élite economica ebraica sia nella loro qualità di "capitalisti" che, in modo meno esplicito e solo occasionalmente, di "ebrei".»

Questo, dunque, ossia il fatto che la società tedesca si fosse modernizzata e industrializzata, però conservando un fondo di diffidenza verso la modernità e il capitalismo, è uno dei due elementi che aiutano a comprendere, come dicevamo all’inizio, il difficile rapporto fra il popolo tedesco e la minoranza ebraica (qualcosa come mezzo milione di persone all’inizio degli anni Trenta del ‘900; 200.000 dei quali concentrati nella sola Berlino, e quasi tutti nelle professioni liberali).

Il secondo elemento – che ci proponiamo di approfondire in un prossimo lavoro – risiede all’interno della stessa comunità ebraica. Gli Ebrei tedeschi non formavano un blocco compatto; vi era, fra essi, una serie di profonde differenze. Oltre a quelle di tipo geografico (Est e Ovest) e di tipo sociale (imprenditori e piccoli commercianti), ve n’era una, sempre più forte, di tipo generazionale: i giovani sfuggivano all’orbita del controllo paterno ed erano in crescente rivolta contro la loro famiglia. La figura del Padre, proprio in senso freudiano, era in crisi: e si pensi, per averne un’idea, al rapporto con il proprio genitore che ebbero scrittori come Franz Kafka o Italo Svevo. La rivolta contro il padre era anche una rivolta, o, quanto meno, una profonda insofferenza, verso la religione del padre. Però, non avendo un’altra tradizione in cui riconoscersi, i giovani ebrei irrequieti erano portati ad abbracciare le ideologie rivoluzionarie, a cominciare dal marxismo. Il tedesco medio, perciò, li detestava, perché vedeva in loro le quinte colonne della rivoluzione comunista mondiale…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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