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Theodor Lothrop Stoddard: cancellato perché aveva visto giusto?

All’inizio, non potevamo crederci. Una assenza del genere, ci sembrava inconcepibile — beata ingenuità -, tanto più che la letteratura americana, se non altro per i suoi poco più di due secoli di storia, non può vantare una riserva letteraria infinita: sarebbe come se, nelle enciclopedie italiane, mancasse il nome di un Alfredo Oriani. Un silenzio che equivarrebbe ad una cancellazione intenzionale, a una vera e propria damnatio memoriae.

Ci eravamo imbattuti in lui sfogliando un volume di Oswald Spengler, «Anni decisivi»; e, prima ancora, leggendo il romanzo di Francis Scott Fitzgerald, «Il grande Gatsby», allorché Tom Buchanan, il marito di Daisy, l’inconsistente e fatua ragazza che riveste il ruolo di protagonista femminile, afferma di aver letto il libro di un certo "Goddard", intitolato «The Rise of the Colored Empires», dal quale sostiene di essere rimasto estremamente colpito, perché profetizza un assalto concentrico delle razze di colore contro la supremazia della razza bianca a livello planetario. Poiché Tom Buchanan è un personaggio sgradevole, in quanto ricco, volgare e, per giunta, marito della donna romanticamente amata dal protagonista, Jay Gatsby (il quale, poco romanticamente, è, per parte sua, uno speculatore e un avventuriero finanziario), la citazione non fa una buona impressione al lettore: sembra che si tratti del solito autore, razzista e paranoico, che sostiene una intrinseca superiorità civile dell’uomo bianco, e specialmente di quello appartenente alle razze nord-europee, nonché il suo "diritto" di dominare il mondo.

"Goddard", in realtà, sta per "Stoddard": per Theodor Lothrop Soddard, che è stato uno scrittore, un saggista e un filosofo (anche se non nel senso più specifico di quest’ultimo termine) di un certo nome, salvo poi sparire misteriosamente dai libri e dalle enciclopedie; anzi: ha avuto un momento, invero non breve, negli anni Veni e Trenta del ‘900, di grandissima rinomanza, e non solo nella sua patria, gli Stati Uniti d’America, ma anche in molti altri Paesi. Ha scritto qualcosa come due dozzine di libri e chi sa quante centinaia di articoli; come giornalista, ha viaggiato e steso relazioni di prim’ordine sui grandi fatti della politica internazionale; alcune sue tesi hanno ispirato o confermato la Weltaschauung di un filosofo di peso, come Oswald Spengler; e  uno dei suoi libri in modo particolare, «The Rising Tide of the Color against  White World Supremacy» («La marea montante dei popoli di colore contro la supremazia mondiale bianca»), pubblicato nel 1921 — cioè poco prima del romanzo di Scott Fitzgerald – ha fatto letteralmente il giro del mondo, riscuotendo un enorme successo e innescando infuocate discussioni, controversie, polemiche.

All’inizio della Seconda guerra mondiale, nel 1939-40, Stoddard si è recato in Germania, dove ha avuto la possibilità di intervistare alcuni pezzi grossi del regime hitleriano (Himmler, Ley, Sauckel), come collaboratore del «North American Newspaper Alliance»; grazie a lui, Max Jordan e William Shirer hanno potuto intervistare il comandante della nave «Bremen, che, sorpreso dallo scoppio del conflitto sulla rotta fra l’Europa e gli Stati Uniti, era riuscito a rientrare in paria fortunosamente, eludendo la caccia della Flotta britannica. Ma almeno atri due suoi libri hanno avuto risonanza mondiale: «The New World of Islam», del 1922, e «The Revolt Against Civilization: the Menace of the Under Man», sempre dello stesso anno. Darwinista sociale convinto, eugenista per coerenza, Stoddard ha avuto il torto di dire, in maniera più franca e brutale, molte delle cose che Ortega y Gasset avrebbe detto, nel 1930, nel suo famoso saggio «La ribellione delle masse»: che, nel mondo moderno, è in atto una selezione al rovescio e una offensiva permanente degli individui e dei gruppi "inferiori", cioè meno dotati sul piano intellettuale, spirituale, morale, rispetto ai "migliori", ossia alle aristocrazie che, da sempre, dirigono la vita delle società; inoltre, che quelli tendono a fare molti più figli di questi; e che tutto ciò comporta una progressiva decadenza dell’intero corpo sociale, a meno che non si corra efficacemente ai ripari. Il che significa, in primo luogo, fermare le ondate migratorie che si stanno riversando sulle nazioni di razza bianca, a cominciare dagli Stati Uniti, per preservarne l’identità e la "purezza" originaria; d’accordo, in questo, con il giurista ed eugenista conservatore Madison Grant (1865-1937), nemicissimo del melting pot e fautore di una politica di restrizioni alla immigrazione straniera, eccezion fatta per gli Europei e specialmente per quelli provenienti dall’Europa settentrionale — politica che ebbe la sua attuazione legislativa con l’Immigration Act del 1924.

Ma chi era questo Lothropo Stoddard? Era nato nel cuore della Nuova Inghilterra, in un sobborgo di Boston, Brookline, nel Massachusetts, e sarebbe morto, dimenticato, nel 1950. Era figlio di uno scrittore di tutto rispetto, John Lawson Stoddard (1850-1931), il quale, a sua volta, andava fiero della sua discendenza da un famoso leader religioso del XVIII secolo, Solomon Stoddard, pastore della Chiesa congregazionalista; un agnostico, che tuttavia, nel 1922, si era convertito, insieme alla moglie, al cattolicesimo romano, e che si era poi fatto paladino del ritorno degli Ebrei in Palestina. Suo figlio, però, non lo aveva seguito in tale conversione e, inoltre, aveva conservato delle opinioni antisemite, come del resto moltissimi americani delle classi elevate di quegli anni. Laureato ad Harvard, in Storia, nel 1914, Lothrop iniziò la sua prolifica attività di storico e saggista con la pubblicazione di una monografia sui riflessi della Rivoluzione francese a Santo Domingo, dove gli schiavi neri, una volta emancipati, avevano massacrato i loro padroni e avevano poi condotto una dura lotta per respingere il ritorno offensivo di un esercito mandato da Napoleone per restaurare i diritti su di loro dei proprietari delle piantagioni, facendolo fallire.

Fin dall’inizio, quindi, l’interesse di Lothrop Stoddard fu attirato da quella che lui interpretava come una lotta mondiale fra le grandi razze, la bianca, la gialla e la nera, sostenendo che esisteva un disegno globale dei popoli "di colore" per distruggere non solo la supremazia bianca, ma anche la civiltà europea e americana, e per far sparire, attraverso la mescolanza razziale, l’identità etnica dei popoli bianchi. Davanti a una simile minaccia, e, in particolare, al cosiddetto"pericolo giallo", ossia l’assurgere del Giappone al rango di potenza imperiale nell’area del Pacifico, era necessario che le potenze occidentali desistessero dalle loro lotte fratricide e si unissero per fronteggiare la minaccia mortale che incombeva su di loro. Stoddard, perciò, deprecò aspramente sia la Prima che la Seconda guerra mondiale, da lui interpretate come il suicido della razza bianca e l’inizio della supremazia mondiale dei popoli "di colore". In linea con tali idee, Spengler avrebbe visto nella caso della Francia, la quale, per compensare il suo declino demografico, ricorreva alla massiccia immigrazione di africani ed asiatici dalle sue colonie, un laboratorio di quel che sarebbe infine accaduto a tutta l’Europa e anche agli Stati Uniti: cioè la perdita della identità etnica, culturale, religiosa e il formarsi di nuove razze ibride, il che avrebbe significato la dissoluzione della civiltà occidentale.

Come si vede, si tratta di idee abbastanza semplici e non molto diverse da quelle che, allora, correvano in Europa e negli Stati Uniti, specialmente nell’area delle nazioni anglosassoni. Per esempio, il "socialista" Jack London, che nel 1908, aveva pubblicato «Il tallone di ferro», per denunciare lo sfruttamento del proletariato e del sottoproletariato americani, e il pericolo del sorgere di una dittatura oligarchica negli Stati Uniti, scriveva anche romanzi, come «L’avventura», del 1911, in cui esaltava il ruolo dominante dell’uomo bianco nelle isole del Pacifico, e giustificava la linea dura nei confronti dei Melanesiani, ex cannibali da poco civilizzati, ma solo superficialmente, e sempre pronti a cogliere il più piccolo segno di debolezza da parte dei loro padroni (cfr. i nostri articoli: «La visione del mondo di Jack London era socialista oppure razzista e brutalmente darwiniana?»; e «Nell’ideale della ragazza acerba e maschietta l’inconscia nostalgia dell’Androgino primordiale», pubblicati sul sito di Arianna Editrice, rispettivamente il 22 e il 24/12/2008).

Erano, insomma, idee largamente diffuse, non solo fra gli intellettuali conservatori e repubblicani, ma perfino fra alcuni di quelli considerati più "di sinistra": la supremazia dell’uomo bianco era un dogma; che tale supremazia fosse seriamente in pericolo, tuttavia, questa era una cosa che pochi erano disposti ad ammettere, poiché, proprio allora, il colonialismo e l’imperialismo delle nazioni occidentali parevano toccare il punto più alto di forza e diffusione. Ma le due guerre mondiali infersero un colpo terribile all’idea di una indefinita supremazia della civiltà bianca nel mondo. Inoltre, Stoddard aveva avuto il torto di mostrare troppa condiscendenza verso i dirigenti del Terzo Reich, sicché, quando gli Stati Uniti entrarono nella Seconda guerra mondiale, le sue idee apparvero "eretiche", perché allineate con quelle dell’Asse. Da allora, egli divenne politicamente imbarazzante e il suo nome venne addirittura espunto, come dicevamo, dai salotti buoni della cultura americana.

Dopo aver trovato un brevissimo cenno, e non favorevole, nella «Storia della cultura e della civiltà americana» di Merle Curti, e un altro, decisamente negativo, in un saggio di Bram Dijskra, tipico intellettuale "liberal" e progressista, nient’altro. Siamo andati a controllare su «The American Peoples Encyclopedia»: nulla; sulla «Enciclopedia Britannica»: nulla di nulla; neanche un accenno. Allora abbiamo consultato l’enciclopedia Larousse; la «Enciclopedia Europea» della Garzanti; la «Enciclopedia Biografica Universale» della Treccani: sempre nulla. Come se non fosse mai esistito. Come se non avesse scritto più di venti libri, tradotti e letti in tutto il mondo. Piaccia o non piaccia, un posticino nella storia della cultura americana gli spetterebbe di diritto, sia pure, mettiamo, criticando certe sue idee: ma il silenzio totale equivale a una censura ideologica. Non una censura "di sinistra": diciamo una censura "progressista"- la più ipocrita di tutte -, che impera nel Vecchio Continente ed alla quale non si sottraggono neppure gli Stati Uniti. Sospettiamo che tale censura abbia a che fare più con il suo antisemitismo che con le sue convinzioni sulla necessità di preservare la razza bianca dalla commistione con le altre; in ogni caso, il fatto è quello.

Allora ci è venuto in mente che, da sempre, la cultura americana è una appendice dell’opinione pubblica; e che a fabbricare l’opinione pubblica americana sono i mass-media, e specialmente il cinema. Ora, sono almeno settant’anni — da quando, appunto, gli Stati Uniti sono entrati in guerra «per difendere la libertà del mondo» contro Hitler e Mussolini (e al fianco di un noto democratico, nonché filantropo, come Stalin), che il sistema hollywoodiano si impegna, con tutte le sue forze, per avvalorare questa immagine della società americana: un luogo e un modo di essere dove ci sono libertà e diritti per tutti, dove non è tollerata alcuna discriminazione, e dove i buoni trionfano sempre, mentre i cattivi piangono. Hollywood ha inondato gli Stati Uniti, nonché il mondo, con centinaia di film buonisti, pacifisti, garantisti, a favore dei Pellirossa (dopo che sono stati sterminati), contro la pena di morte (mostrando sempre degli imputati accusati a torto), contro la discriminazione razziale (presentando la convivenza fra bianchi e neri in maniera sapientemente edulcorata, stile «Indovina chi viene a cena?»). Intendiamoci: non abbiamo niente contro i diritti delle persone e siamo fermamente contrari sia alla pena di morte, sia al razzismo (e perciò disapproviamo, non le idee di Lothrop Stoddard, ma la maniera estremistica e brutale, darwiniana, appunto, in cui egli le ha presentate); pure, non ci piace affatto il modo intellettualmente disonesto con cui i registi del politically correct presentano i loro temi "democratici" e "umanitari". Si prenda – un esempio tra mille – «Presunto colpevole» di Peter Yates, del 1987; oppure il famosissimo «La parola ai giurati» (con Henry Fonda), di Sidney Lumet, del 1957. Passano i decenni, ma la tecnica è sempre la stessa: colui che sostiene l’innocenza dell’accusato è bello, buono, umano, pietoso, simpatico, intelligente; coloro che sostengono la colpevolezza sono sgradevoli, intolleranti, fanatici e piuttosto limitati. Questo aiuta a capire la damnatio memoriae toccata a un autore come Lothrop Stoddard. Dopo il 7 dicembre 1941 gli Stati Uniti dovevano rifarsi una verginità democratica: e le idee di Stoddard si potevano esprimere in circoli privati, non proclamare in pubblico. La dottrina ufficiale della cultura americana, fondata sul totalitarismo democratico, era radicalmente cambiata. Ovviamente, non era necessario che cambiasse anche nella sostanza; ma guai a dirlo a voce alta.

Lo ripetiamo: il razzismo e l’eugenetico di Lothrop Stoddard non ci piacciono, né li condividiamo. Però la sua analisi era, e rimane, degna di attenzione. Cosa aveva detto, in sostanza, nei suoi scritti? Questo: che il Giappone sarebbe diventato un grande potenza; che ci sarebbe stata una seconda guerra mondiale; che gli Europei avrebbero perso i loro imperi coloniali in Africa e Asia; che si sarebbero verificate grandiose migrazioni di popoli non-europei verso l’Europa e gli Stati Uniti; infine, che l’Occidente sarebbe stato minacciato dal fanatismo islamico. E aveva visto giusto, o no?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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