
Chi esplorava e disegnava i fiumi antartici prima che la morsa del gelo li cancellasse?
25 Novembre 2015
La politica di Ottone I in Italia nella prospettiva storica di Giacinto Romano
26 Novembre 2015Fra i numerosi meriti del controverso film documentario di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi «Africa addio», girato nel 1966, e del quale abbiamo già avuto occasione di parlare (cfr. il nostro articolo: «Un film al giorno: "Africa addio" di Jacopetti e Prosperi (1966)», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 28/02/2008), c’è stato anche quello di avere tempestivamente documentato un genocidio che, altrimenti, essendo stato quasi privo di testimoni esterni, sarebbe forse passato quasi inosservato: quello perpetrato a Zanzibar nel 1964.
Il genocidio in questione non è riconosciuto come tale da tutti gli storici e dagli africanisti, forse perché turba il tenace e radicato preconcetto ideologico di matrice illuminista e marxista, secondo il quale tutti i mali dell’Africa vengono dal colonialismo, mentre i popoli africani sono tutti buoni e virtuosi per virtù infusa, secondo la mitologia del "buon selvaggio" risalente a Rousseau – come accade al nostro maggiore storico dell’Africa, Angelo Del Boca (cfr. il nostro articolo: «Angelo Del Boca e la "sua" Africa», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» l’11/11/2015). Molti preferiscono chiamarlo con altro nome, anche se non possono negarne la tragica realtà (da 5.000 a 12.000 vittime, su una popolazione araba di 22.0000); e lo considerano come un episodio, certo cruento e spiacevole, nel contesto di un capitolo molto più interessante e "glorioso" della lotta di liberazione dei popoli africani contro la barbarie del colonialismo: la cosiddetta rivoluzione di Zanzibar. Di essa non intendiamo qui occuparci; basti dire che iniziò con il passaggio di Zanzibar dal regime coloniale inglese, nel 1963, all’indipendenza, nella forma del sultanato (monarchia costituzionale), dopo di che, nel gennaio del 1964, la popolazione africana dell’isola insorse improvvisamente, cogliendo di sorpresa gli stessi partiti che la rappresentavano (forse con la complicità di elementi rivoluzionari cubani giunti sull’onda del successo di Fidel Castro nell’isola caraibica; sappiamo, con certezza, che Ernesto Guevara fu in alcuni Paesi dell’Africa per attizzare le lotte anticoloniali), si impadronì degli arsenali e conquistò il potere, costringendo il sultano alla fuga.
A questo punto si fece avanti John Okello, un personaggio inverosimile, che par uscito dalle pagine di un mediocre giornalino a fumetti: un uomo d’incerta provenienza, forse ugandese, che lavorava sull’isola come operaio, ma che si spacciava per "generale", il quale, non si sa bene come, si mise alla guida delle "forze rivoluzionarie" e condusse una operazione di sterminio contro le comunità degli arabi e degli indiani, residenti da tempi remoti sull’isola, le quali, essendo i simboli dell’odioso passato coloniale e dello sfruttamento di classe (gli arabi in quanto discendenti di negrieri; gli indiani, in quanto detentori del commercio locale), andavano eliminati fisicamente. Fra le altre cose, Okello — il quale, come ironicamente osservavano Jacopetti e Prosperi, aveva fatto montare l’odio della folla degli africani parlando dei negrieri arabi, ma omettendo di spiegare che la tratta era cessata da molto tempo — si spacciava a per un capo del famigerato movimento dei Mau-Mau, i quali avevano condotto una crudelissima guerriglia anticoloniale contro i residenti britannici nel Kenya. Nel corso delle loro imprese avevano massacrato anche civili inermi, donne e bambini, il tutto, ancora una volta, documentato dal film di Jacopetti e Prosperi, che riporta sequenze del processo a carico degli autori di alcuni di questi crimini efferati; mentre i libri di storia dell’Africa, scritti quasi tutti da autori africani o filo-africani e anticolonialisti, tacciono o minimizzano questo aspetto della lotta dei Mau Mau e, anzi, ne esaltano il coraggio, forse anche perché il leader storico del movimento, Jomo Keniatta, nel dicembre del 1964, sarebbe diventato, trionfalmente, il primo presidente del Kenya.
Così il giornalista Francesco Rosso, un inviato speciale d’altri tempi, come oggi ve ne sono ben pochi, rievoca il clima esistente a Zanzibar, dopo la spensierata — e apparente — joie de vivre ancora percepibile all’inizio degli anni Sessanta, negli ultimi tempi della monarchia costituzionale- nel suo libro «Dove la terra brucia», Torino, Società Editrice Internazionale, 1977, pp. 27-28):
«Tornando in città, passammo attraverso il "suk", nelle strette viuzze cui si affacciavano le case arabe con i massicci portoni rinforzati da chiodi di bronzo, artisticamente disposti. Giungemmo al lungomare ch’era il tramonto; il palazzo del sultano splendeva bianchissimo nella luce rosata. I neri ascari in uniforme chachi, il lungo fez rosso piantato alla brava sulla ferrea paglietta dei riccioli, montavano distrattamente la guardia. S’inchiodarono sull’attenti, quando sbucò dal cancello una Rolls Royce verniciata con un rosso inverosimile. Come ogni sera, il sultano Seyyd sir Khalifa ben Harub si recava alla moschea per la preghiera. Quasi novantenne, egli era sposato ad una ragazza giovanissima; suo figlio, già vicino ai settanta, attendeva sempre di salire sul trono di Zanzibar, che apparteneva alla loro famiglia dal 1899.
Dopo tanto attendere, ha perduto tutto, perché la rivoluzione ha spazzato via anche il sultanato che era semi-indipendente, ma in realtà sottomesso ai voleri dell’Inghilterra, che vi esercitava un attento protettorato, perché dal sultano affittava tutta la costa oceanica del Kenia, compreso il porto di Mombasa, e dopo la prima guerra mondiale aveva ottenuto dalla Società delle Nazioni il mandato sul Tanganika, già colonia tedesca. Non che a Zanzibar la gente stesse male; formata in maggioranza da Cafri, da circa quarantamila Arabi e da ventimila Asiatici pakistani, gli Zanzibarini, poco più di trecentomila in tutto, erano abbastanza felici. Ma alcuni si lamentavano per la presenza del Residente, di un addetto militare e del segretario del sultano, tutti dipendenti dall’amministrazione inglese, che toglievano di fatto ogni indipendenza all’isola. Il giornale arabo "Al Fakaq" fu soppresso, e il suo direttore fu invitato a scegliere tra una forte multa e la prigione, perché aveva osato criticare la politica inglese in Africa e fare propaganda filo-nasseriana. In realtà, gli Inglesi si adoperavano a dividere la popolazione, a creare incomprensione, a mettere i Cafri negri contro gli Arabi quasi bianchi; dividendoli, speravano di conservare il protettorato sull’isola.
Invece, scoppiò la rivoluzione, ed il 12 gennaio 1964 il sultano dovette fuggire con la giovane moglie e l’anziano principe ereditario su una nave inglese, mentre prendeva il comando dell’isola il sergente Okello, un pazzo sanguinario che scagliò i Negri contro Arabi e Indiani in tragiche notti di sangue; in tre notti di terrore, quasi trentamila fra arabi e indiani furono trucidati per strada e nelle loro case. Era la vendetta dei figli degli ex schiavi contro i discendenti dei loro aguzzini e contro i mercanti indiani. Quando il sergente Okello, proclamatosi generale da un istante all’altro, esagerò nei suoi atteggiamenti di despota ignorante, i rivoluzionari costrinsero anche lui a riparare in Kenia. Ma la rivoluzione aveva infranto l’equilibrio etnico di Zanzibar; i negri erano ormai i padroni incontrastati; gli Arabi non osavano nemmen più uscire di casa, e i Pakistani cercavano di passare inosservati, ribassando i prezzi delle loro merci, perché il commercio era tutto nelle loro mani.
Sono ritornato a Zanzibar quattro anni dopo, e quasi non ho riconosciuto più l’antico paradiso terrestre, divenuto pe me un paradiso perduto. Amici di un tempo mi raccontavano le pazzie di Okello, che per radio imponeva ad Arabi ed Indiani di di trovarsi tutti la era alle sei dinanzi alle porte delle loro case, pena la morte. Egli sarebbe passati e tutti avrebbero dovuto baciargli la mano, mentre lui indicava ai suoi sgherri chi doveva essere prelevato ed ucciso. Benché fossero passati già tre anni dalla carneficina, essi avevano ancora negli occhi il terrore di quelle notti. Ed il presente non prometteva nulla di buono, perché i rivoluzionari, che nel frattempo si erano uniti al Tanganika per formare la Tanzania, non avevano nessuna intenzione di rientrare nei ranghi, anzi, facevano una politica di strettissima amicizia con la Cina.
Era il giorno in cui si celebrava la rivoluzione, quando sono ritornato a Zanzibar, e nello stesso albergo, dove avevo alloggiato, c’era un gran pranzo di capi rivoluzionari. Il gelsomino c’era ancora, ma non c’era più la padrona inglese. A capotavola, ospite d’onore, sedeva Ernesto Guevara, detto "el Che", il rivoluzionario "in servizio permanente", che aveva girato l’Africa ad accendere guerriglie in Congo, in Nigeria, in Angola. Era venuti a vedere anche la rivoluzione zanzibarina. Fu gentile, come sempre, come quando lo avevo incontrato a Cuba, ma reticente sui suoi rapporti con Fidel Castro. Girava il mondo a creare focolai di rivolta, in Paesi in cui le condizioni sociali erano di tremenda disparità, ma l’Africa non gli aveva dato grosse soddisfazioni. Fu l’ultima volta che lo vidi; poi andò a scatenare la guerriglia in Bolivia, dove lo uccisero. Quel giorno forse presentiva già la sua fine; parlava, ma con inflessioni malinconiche nella voce. In suo onore avevano organizzato persino una corrida di tori, perché sapevano che quello spettacolo lo affascinava; guardò lo spettacolo con distrazione, anche perché non era una corrida di rilievo.»
Questa pagina di storia merita di essere conosciuta, non per ribaltare il cliché dei colonialisti europei brutti e cattivi e dei popoli africani buoni e innocenti — ciò sarebbe non solamente ingenuo, ma storicamente disonesto -, bensì per ristabilire una verità quasi dimenticata e sepolta nell’oblio delle ideologie dominanti negli anni centrali del XX secolo, il socialismo e il comunismo, con i loro corollari specifici: la lotta di classe, l’africanismo, il terzomondismo, il castrismo, il maoismo, e via dicendo – chi ha vissuto quel periodo, ricorda che l’elenco completo sarebbe lunghissimo — e per rendere giustizia alle vittime, almeno a distanza di un tempo che speriamo sia stato sufficiente a far smaltire i fumi dell’ubriacatura, cui si erano abbandonati gran parte dei nostri mâitres-à-penser, specie nel clima del Maggio parigino.
Quel che si può dire di certo, è che, se Okello era un pazzo, ciò non basta a spiegare come avvenne che la popolazione africana lo abbia seguito nell’orribile bagno di sangue; né risulta ancora del tutto chiaro, perfino a mezzo secolo di distanza, come e da dove siano giunte le armi che resero possibile, o che resero più rapido e implacabile, il genocidio. Vale la pena di riportare il commento di Jacopetti e Prosperi, che la voce fuori campo del loro film pronuncia, mentre la telecamera, posizionata a bordo di un piccolo aereo che vola a bassa quota, mostra le immagini eloquenti di centinaia e migliaia di cadaveri di arabi e indiani, dalle bianche vesti, uccisi e abbandonati sulle spiagge dell’isola, mentre cercavano, evidentemente, una impossibile via di salvezza, salendo a bordo di qualche imbarcazione che li trasportasse altrove, al sicuro:
« Okello ha distribuito 850 fucili misteriosamente arrivati sull’isola. La caccia all’arabo è aperta! La propaganda ha informato le nuove generazioni che gli arabi sono una maledetta razza di negrieri che vendono gli africani ai mercanti di schiavi della costa… naturalmente ha omesso di aggiungere che tutto questo accadeva 10 secoli fa! Queste immagini sono l’unico documento esistente di ciò che è avvenuto a Zanzibar tra il 18 ed il 20 gennaio 1964: interi villaggi distrutti, camion carichi di cadaveri. Sono immagini scomode ed imbarazzanti per tutti: per chi oggi in Africa, spargendo false promesse, fomenta un nuovo razzismo africano e per chi abbandonando in fretta e furia l’Africa a se stessa, nel falso pudore del colonialismo antico, ne autorizza uno nuovo che dilaga nella miseria e nel sangue. Guardiamole queste immagini, guardiamole pure con pietà, ma soprattutto guardiamole con vergogna! »
Qualcuno ha osservato che c’è una certa esagerazione in questo commento; ad esempio, che la tratta degli schiavi negri fu praticata dai mercanti arabi fino a tutto il XIX secolo. È vero; ma la sostanza del discorso è davvero così sbagliata? Jacopetti e Prosperi sono razzisti perché hanno avuto il torto di mostrare ciò che i nostri intellettuali di sinistra non gradivano? Eppure, noi italiani dovremmo sapere benissimo come vanno certe cose; dovremmo, se non avessimo la memoria terribilmente corta e se quegli stessi intellettuali di sinistra non avessero fatto del loro meglio per oscurare all’opinione pubblica, studenti delle scuole statali compresi, gli eccidi di casa nostra. Nel 1945, a guerra finita, e poi ancora per alcuni anni, migliaia di nostri concittadini vennero assassinati dai partigiani comunisti che preparavano la seconda ondata, cioè la rivoluzione; la loro colpa: essere dei borghesi, e quindi, oggettivamente, dei contro-rivoluzionari. Come gli Arabi di Zanzibar…
Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio