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25 Novembre 2015Esiste ancora un progetto didattico, nella società odierna? Esiste nelle famiglie, nelle scuole, nelle parrocchie, nelle comunità? Oppure l’educazione dei bambini e la formazione dei giovani sono affidate al caso, alla ventura, o, peggio, sono delegate a quelle "agenzie" perverse, demoniache, che sono state create dagli oscuri poteri finanziari per devastare le menti e i cuori e per trasformare le persone in numeri, i cittadini in consumatori?
La figura del maestro, oggi, è pressoché scomparsa. L’educazione elementare si è completamente femminilizzata: il "maestro" è, quasi sempre, una maestra. E magari fosse una maestra:; è un team di maestre, nessuna delle quali riesce ad esercitare la minima parte dell’autorità che esercitava il vecchio maestro del buon tempo antico. A forza di buonismi e permissivismi, la scuola elementare è diventata una succursale del giardino d’infanzia: le maestre come mamme, lo studio come un optional, le sanzioni inesistenti, i premi inflazionati, l’indulgenza eccessiva, il relativismo imperante. Niente regole certe; niente senso di identità; niente disciplina; nessun rispetto per la figura dell’insegnante (anche se singole insegnanti sono ancora in grado di conquistarselo sul campo). Per giunta, l’inserimento indiscriminato di bambini portatori di handicap, a preferenza di istituti specializzati ove potrebbero valorizzare le loro "diverse" abilità, ha comportato un ulteriore abbassamento dei livelli d’istruzione e un ulteriore rilassamento del clima di lavoro, il tutto contrabbandato per "inserimento", anche nei casi nei quali, e sia detto con il massimo rispetto, non c’è proprio niente da inserire, se non apparentemente e formalmente, in omaggio a certe ideologie progressiste ed egualitarie, ma dando torto alla realtà dei fatti.
Il vero maestro, oggi, è il computer, insieme alla televisione; e si tratta di cattivi maestri, con l’aggravante che il bambino viene sovente asciato da solo in balia di essi, senza la presenza di un adulto che faccia da filtri, che tenti di mediare, di mantenere un contatto umano, in modo da evitare o da contenere – nei limiti del possibile — l’instaurarsi di pericolosissime forme di dipendenza, di suggestione patologica, e, in generale, adoperarsi perché l’influsso del computer e della televisione non agisca in maniera incontrollata e distruttiva sulla personalità e sulla consapevolezza del bambino, proiettandolo in un mondo virtuale e facendo, così, di lui, un precoce alienato, un vecchietto cinico e deluso di sette o otto anni.
Resta, comunque, la domanda: come deve essere un educatore, il quale voglia essere credibile, ammesso e non concesso che la nostra società possa ancora, e voglia, riprendere le redini del processo educativo, sottraendolo ai gingilli elettronici e ristabilendo una relazione diretta con il bambino e con l’adolescente? Come deve essere un educatore che voglia essere percepito come tale, e operare come tale, sia egli il maestro o la maestra di scuola, o il genitore, o il prete, o lo zio, il nonno, l’amico di famiglia, il vicino di casa, l’animatore parrocchiale, l’allenatore sportivo, l’insegnante di pianoforte o di violino, la maestra di danza classica o moderna, il maestro di nuoto o di alpinismo? Quale deve essere la sua caratteristica essenziale, oltre al possesso — assolutamente necessario — di ben precise qualità umane e professionali, e cioè dando per scontato che egli sia una valida persona dal punto di vista umano e morale, dotata di pazienza, entusiasmo, benevolenza, saggezza e un solido buon senso, nonché di competenze specifiche e professionali perfettamente adeguate alla funzione che svolge?
Noi crediamo che la caratteristica essenziale sia una ed una sola; sempre la stessa, sempre quella di cento o mille o duemila anni fa: quella già individuata dai pedagogisti antichi, come Quintiliano: deve possedere un chiaro progetto educativo. Nn deve essere un pasticcione, e sia pure piano di buona volontà; non può e non deve essere un dilettante allo sbaraglio: perché l’educazione dei piccoli è cosa troppo seria e troppo importante, nella quale non sono ammessi sbagli di una certa gravità e nella quale non vale la massima che sbagliando s’impara, perché ci sono sbagli ai quali, una volta commessi, non è quasi più possibile porre rimedio, pur con tutto l’impegno e con tutta la dedizione di questo mondo. La delicatezza del compito educativo è paragonabile a quella del chirurgo: non ammette ignoranza, non ammette errori, perché ogni errori rischia di compromettere non questo o quel particolare, ma l’opera stessa, nella sua totalità.
A proposito della figura di maestro ideale vagheggiata da Quintiliano, osservavano i latinisti Arturo Carbonetto e Gemma Bozzi Guerra (in: «Il pensiero pedagogico di Quintiliano» (Milano, Principato Editore, 1989, p. 84):
«Leggendo il secondo libro de "L’istituzione" ci appare chiaro che la figura ideale del maestro presenta le stesse qualità e le stesse virtù che Quintiliano ebbe: solida cultura, onesti costumi, alto senso del dovere, austerità. Il maestro, inoltre, come afferma Quintiliano, deve essere modesto, tranquillo, come un padre per i suoi scolari. Dovrà mostrarsi affabile, affettuoso, comprensivo, senza perdere però la stima ed il rispetto degli alunni. È l’umanità del maestro che è posta in rilievo e che rappresenta la base del rapporto educativo., Il maestro, oltre ad essere per le sue virtù un modello da imitare, riesce con la voce a dar vita alle cose, destando interesse per i pensieri che espone, poiché il suo linguaggio esprime tutto se stesso ed affascina il discepolo.
Nella scuola, ove molti sono gli alunni, il maestro parla con più calore perché è ispirato dal gran numero degli ascoltatori e la sua umanità si rivela. Gli alunni sono tratti a maggior profitto e per affetto e per simpatia, soprattutto perché avvertono il valore umano dell’educatore, riescono a migliorarsi. Per ottenere ciò, il maestro non dovrà essere né molto severo, né molto indulgente. A questo proposito è da notare come il problema del rapporto maestro-scolaro trovi la sua precisazione. L’autorità del maestro non deve essere imposta, ma scaturire dal rispetto che lo scolaro ha per lui, che stima, perché ben preparato, ben consapevole dei mezzi mediante i quali si perviene al possesso del potere. Dobbiamo rilevare che non è incompatibile l’autorità del maestro con la comprensione che egli deve avere verso gli alunni. Il principio di autorità, che in teoria era a base del rapporto maestro-scolaro e che poneva al centro del processo educativo il maestro, appare superato dall’intuizione di Quintiliano, che avverte l’esigenza della libertà dell’educando. Solo dopo molti secoli i pensatori opereranno la rivoluzione copernicana in pedagogia con il puero-centrismo, che diverrà il principio fondamentale di tutti i sistemi educativi contemporanei.
Se Quintiliano aveva concepito il rapporto maestro-scolaro sulla base della comprensione e dell’affetto, non si era però allontanato molto da quel carattere informativo, tipico della vecchia scuola: "che il maestro si faccia ascoltare" egli aveva affermato, ma era ancora lontano dal principio del fare, del ricercare, del creare, che ispira l’attuale concezione pedagogica. È chiaro però che valida rimaneva la considerazione che la dottrina del maestro non era solo necessaria ad essere "travasata in abbondanza nella mente del discepolo" ma efficace per la formazione della personalità del maestro. In particolare veniva rinnovato il principio socratico del sapere, che è virtù, e dell’ignoranza, che è causa di immoralità.»
Resta da vedere se la "rivoluzione puero-centrica" della pedagogia moderna (pardon, della moderna scienza dell’educazione: perché la scienza è tutto e fuori della scienza c’è solo il nulla; dunque, come si potrebbe lasciare l’educazione fuori del sacro tempio della scienza?) sia stata quel prodigio di intelligenza e di verità che alcuni vorrebbero dare per scontato; se aver fatto del bambino il centro del progetto educativo sia giusto in se stesso; se non si sia passati da un eccesso all’altro, dall’eccesso di centralità del maestro all’eccesso di centralità del discente.
Proviamo a riflettere: il bambino, è chiaro, è il destinatario dell’educazione educativa; pertanto, è logico che non può essere considerato solo come un elemento passivo, che subisce l’azione educativa senza parteciparvi in maniera autonoma e volontaria; e tuttavia, è proprio vero che essere il destinatario dell’educazione educativa equivale ad essere anche al centro di essa? Al centro dell’azione educativa non dovrebbe essere, invece, quella entità spirituale, collettiva, trans-personale, che scaturisce dall’azione reciproca del maestro verso il discente, del discente verso il maestro e di entrambi verso le finalità del progetto che stanno perseguendo: la formazione e l’educazione della coscienza intellettuale, spirituale e morale del discente, considerato non — come voleva Rousseau – come un individuo esterno alla società, ma nella realtà concreta e immediata delle relazioni sociali, culturali, affettive, delle quali il bambino è parte, nelle quali è inserito, e che presuppongono sempre la presenza dell’intero quadro di riferimento, sia esterno (ambientale) sia interno (la coscienza), anche quando l’azione educativa è apparentemente limitata ad un rapporto fra due soli soggetti, il maestro e il discente?
In altre parole: l’azione educativa si rivolge verso il bambino, ma non deve assolutizzare il bambino: deve fare leva su quella dimensione, presente nel bambino, che è aperta, contemporaneamente, a tutta la realtà circostante, materiale e spirituale; perché il bambino non è un vaso vuoto da riempire, ma non è nemmeno un piccolo adulto in potenza che, prima o poi, infallibilmente sboccerà da se stesso, e che il maestro deve solo incoraggiare e sostenere, come un giardiniere che si limiti a somministrare l’acqua e il concime strettamente necessari affinché la pianticella si sviluppi in maniera libera e autonoma, Nossignore: il bambino è una pianticella delicatissima, che potrebbe anche non svilupparsi affatto; perché si sviluppi, è necessario che il maestro si prenda cura di lui, senza sopravvalutare le sue capacità autonome (e anche senza mortificarle, ovviamente); insomma, senza caricare il bambino di responsabilità più grandi di lui, e senza cadere nella forzatura ideologica e irrealistica di pretendere che la pianticella riesca a mettere radici anche se la terra non è buona, e che possa crescere dritta e sana anche se l’adulto è troppo affaccendato in altre cose, o troppo fiducioso nella bontà dei processi "naturali".
Il bambino non è natura, non è soltanto natura: pertanto non può essere al centro dell’azione educativa, ma deve essere, anche lui, un collaboratore di essa. E il maestro non può cavarsela affidandosi alla "natura" e sottraendosi alla sua responsabilità educativa, solo perché ha paura di sbagliare o perché teme di "opprimere" e "mortificare" il bambino. Il bambino ha bisogno di un solido indirizzo, di un esempio costante, di una guida sicura: queste cose le domande e le aspetta dall’adulto, anche se — spesso, e specialmente oggi — potrebbe sembrare il contrario. Ma il bambino è solo un bambino e ha bisogno di quella mano autorevole che lo accompagni nella sua scoperta del mondo e nella maturazione di sé: qualora riuscisse a fare da solo queste cose, allora non sarebbe un bambino, sarebbe un piccolo dio. Nessuno di noi, da piccolo, ha dovuto auto-educarsi; se qualcuno ha dovuto farlo, il prezzo — salatissimo – è stato la distruzione della sua infanzia. E il vero maestro non vuole che ciò accada; non vuole distruggere l’infanzia, ma accompagnarla, guidarla e orientarla. Rispettando i suoi ritmi e le sue specificità – ossia senza la pretesa di imporle dei tempi forzati -, ma anche indirizzandola verso la progressiva maturazione. L’adulto che non facesse questo, non sarebbe più un educatore, ma un compagno di giochi, irresponsabile o latitante.
Pertanto, la domanda che dovremmo farci, a livello generale, è se la nostra società, nel suo insieme, possieda ancora un progetto educativo; e se gli adulti che sono preposti ad accompagnare la crescita del bambino abbiano chiara in mente la necessità di possederlo. Se non c’è un chiaro progetto educativo, non c’è alcuna educazione. In molte famiglie, in molte scuole, in molti oratori parrocchiali, oggi, non si conduce più alcuna azione educativa: i bambini sono parcheggiati in quei luoghi e sono abbandonati a se stessi, vezzeggiati nella loro pigrizia, assecondati nel loro disinteresse, coccolati nella loro irresponsabilità. Sono viziati: il che vuol dire che sono consegnati ad una contro-educazione, dalla quale usciranno distrutte le loro possibilità di crescita personale. Resteranno, salvo un miracolo, degli eterni bamboccioni: senza energia, senza idee, senza valori, senza speranza. E la colpa sarà stata di una cattiva pedagogia (pardon, di una cattiva scienza dell’educazione) che ha gettato via qualunque progetto educativo, per inseguire le ultime mode neo-illuministe, neo-buoniste, neo-libertarie, sulla "naturale" capacità di crescita del bambino, e per lavarsi le mani, di fatto, di quel che realmente avverrà. Stiamo assistendo ad una fuga generale degli adulti dalle loro responsabilità educative: e il prezzo di questa fuga, saranno i nostri figli a pagarlo…
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