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20 Novembre 2015La guerra ispano-americana del 1898 segna l’uscita di scena della Spagna dal novero delle potenze coloniali (le rimasero solo le Canarie, una piccola porzione del Marocco settentrionale, Sidi Ifni, un tratto di costa del Sahara denominata Rio de Oro, il Rio Muni e l’isola di Fernando Poo) e, contemporaneamente, l’ingresso sulla scena mondiale di una nuova potenza imperiale: gli Stati Uniti d’America, che imposero una specie di protettorato su Cuba, ottennero la base di Guantanamo, la cessione di Porto Rico, delle Filippine e dell’isola di Guam, e in altro scenario, ma sempre nel 1898, l’annessione delle isole Hawaii.
Il passaggio degli Stati Uniti da una posizione di non interferenza negli affari internazionali a una posizione decisamente imperialista fu, insieme all’ascesa quasi contemporanea del Giappone al rango di potenza imperiale (sanzionata poi dalla guerra russo-giapponese del 1904-05), il maggiore avvenimento politico di quegli anni, che cambiò radicalmente gli assetti internazionali, anche se le potenze europee non se ne avvidero e se, fino al 1914, continuarono a condurre la loro strategia, e anche le loro guerre, come se il baricentro della geopolitica mondiale fosse rimasto nel Vecchio Continente, ov’era fin da quando esse, con i loro viaggi di scoperta, i loro commerci a largo raggio, le loro conquiste coloniali e, infine, con la loro rivoluzione industriale, avevano creato il sistema-mondo, a partire dal XVI secolo.
Dal punto di vista della diplomazia pontificia, che tentava di rimettersi dal colpo della perdita del potere temporale, la guerra ispano-americana fu una pagina negativa, poiché Leone XIII si impegnò personalmente per scongiurarla e profuse nel tentativo notevoli energie e gran parte del prestigio di cui la Chiesa godeva ancora, bene o male, in quanto istituzione sovranazionale disponibile a svolgere compiti di mediazione nei conflitti internazionali, in un’epoca in cui non esistevano ancora né la Società delle Nazioni, né, tanto meno, le Nazioni Unite o altri organismi similari, ma in cui, nel clima di generale ottimismo prodotto dal Positivismo e dai rapidi progressi della scienza e della tecnica, l’opinione pubblica dei vari Paesi cominciava a indirizzarsi verso l’idea che le guerre fossero cosa del passato e che l’evoluzione della civiltà avrebbe dovuto creare gli strumenti per scongiurarle e per rendere possibile la soluzione pacifica dei contrasti.
Costretta sulla difensiva non solo dalla perdita di Roma nel 1870, ma, più in generale, dal progressivo sgretolamento della sua autorità morale nel mondo, e pefino nelle stesse nazioni cattoliche, ove agivano ancora potenti forze anti-cattoliche di matrice illuminista, laicista e deista, come la Massoneria, la Chiesa desiderava rompere il proprio isolamento internazionale e, nello stesso tempo, sollecitare una presenza più attiva dei cattolici nell’ambito delle rispettive società, in modo da non lasciare interamente campo libero alla conquista delle masse da parte dei partiti socialisti e delle organizzazioni sindacali da essi ispirate, politica che sarebbe sfociata nella definizione di una vera e propria dottrina sociale cattolica, nonché nella promulgazione della solenne enciclica "Rerum Novarum" (15 maggio 1891), che aprì la strada e incoraggiò ufficialmente proprio l’ingresso dei cattolici nelle attività sociali connesse alla questione operaia e, più in generale, alla rapida modifica degli equilibri sociali dovuta alla Seconda rivoluzione industriale, alla formazione dell’economia-mondo, all’urbanizzazione diffusa e alla nascita della società di massa, che introduceva la maggior parte delle popolazioni d’Europa e d’America nel circuito dell’economia di mercato, con tutti i contraccolpi che ciò comportava anche a livello culturale, spirituale e religioso.
Quando, nei primi mesi del 1898, le relazioni fra Stati Uniti e Spagna entrarono in una fase critica per la questione cubana, specialmente dopo l’esplosione della corazzata «Maine», in visita amichevole a L’Avana, il 15 febbraio, con la perdita di 266 vite umane, il servizio d’informazioni pontificio, talvolta denominato l’Entità (ma il suo vero nome era Santa Alleanza, e venne creato da papa Pio V nel 1566, nel calor bianco delle lotte fra cattolici e protestanti) cercò di attivarsi per scongiurare la prospettiva di un conflitto e per ritagliare alla Chiesa uno spazio di visibilità e di autorevolezza a livello internazionale.
Pare tuttavia che Leone XIII, invece di servirsi dei suoi servizi segreti, abbia privilegiato la diplomazia "ufficiale", puntando tutte le sue carte per addivenire a una fattiva opera di mediazione fra i governi di Washington e Madrid, su un personaggio assai noto e, invero, piuttosto discusso: l’arcivescovo di Saint Paul, nel Minnesota, monsignor John Ireland, uomo potente, mondano e ambizioso, ma in fama d’intrigante, nazionalista e legatissimo ai vertici del Partito Repubblicano, il quale desiderava che la componente cattolica della società americana svolgesse un ruolo più attivo, come del resto il cardinale Edward Gibbons, arcivescovo di Baltimora. A ciò si univano, probabilmente, le sue ambizioni personali (aspirava anch’egli alla porpora cardinalizia), nonché delle confuse e piuttosto rizze velleità di "modernizzazione" del cattolicesimo, il quale avrebbe dovuto, in pratica, assumere i tratti di una vera e propria "americanizzazione".
Fu appunto dalle idee e dalle proposte di Gibbons e di Ireland che nacque il movimento noto agli storici come "americanismo", che venne ufficialmente condannato da Leone XIII nel 1899 e che anticipava, ma in una cornice culturale di tipo prettamente statunitense, se non apertamente nazionalista, alcuni tratti di quello che sarebbe stato conosciuto come modernismo, e che verrà solennemente condannato da Pio X con l’enciclica "Pascendi Dominici gregis" del 1907. Senza entrare nei particolari, non essendo questa la sede, ricorderemo soltanto che l’americanismo, oltre a minimizzare la dottrina cattolica, l’obbedienza alla Santa Sede e il valore degli ordini religiosi, si faceva portatore proprio di quell’atteggiamento laicista che si trovava all’opposto del pensiero sociale di Leone XIII, il quale infatti, nel 1898, denunciò la separazione e il "divorzio" fra lo Stato e la Chiesa, auspicando, invece, una più stretta collaborazione fra essi. La condanna dell’americanismo come vera e propria eresia, ma non dei singoli prelati coinvolti o sospettati di averlo favorito, giunse con la lettera apostolica "Testem benevolentiae nostrae" del 22 gennaio 1899, e diretta al cardinale Gibbons. In particolare, si condannava una interpretazione della figura e dell’opera di padre Isaac Thomas Hecker che al papa era sembrata intrisa di pelagianesimo, poiché aveva sottolineato con troppa enfasi le possibilità umane di riscatto dal peccato.
Comunque, al principio del 1898 l’orientamento americanista di monsignor Ireland non si era ancora manifestato apertamente (egli, peraltro, l’avrebbe negato anche in seguito, senza però abbandonare le sue precedenti posizioni, ma solo facendosi più cauto) e la fiducia di Leone XIII nei suoi confronti era intatta, tanto che il papa decise di farne la sua pedina principale nel gioco diplomatico mirante ad aprire delle trattative fra Stati Uniti e Spagna per scongiurare il pericolo di una guerra. Oltre alle già ricordate motivazioni di politica generale e di prestigio, la Curia pontificia non poteva certo guardare con indifferenza alla prospettiva di una guerra che avrebbe indebolito, e forse umiliato, una potenza cattolica di antica tradizione, come la Spagna; anche se erano in molti, allora, specialmente in Europa, a mettere in dubbio che gli Stati Uniti sarebbero stati in grado di vincere facilmente un confronto militare.
Uno statista del calibro di Bismarck, ad esempio, era convinto che la Spagna avrebbe saputo tenere testa validamente all’arroganza yankee; davanti all’esito rapidissimo e disastroso della guerra per le armi spagnole, il suo commento fu che «esiste un angelo custode che vigila sui pazzi, gli ubriachi e gli Stati Uniti d’America»: come dire che gli Americani erano stati quanto meno imprudenti a cacciarsi in quel conflitto, e che si doveva a delle circostanze particolarmente fortunate se ne erano usciti in poco più di due mesi, riportando una vittoria schiacciante. In effetti, anche se la malandata economia spagnola aveva imposto dei drastici tagli alle spese militari, sicché l’armamento dell’esercito spagnolo e la potenza di fuoco delle sue navi erano nettamente inferiori a quelli statunitensi, questi ultimi, da parte loro, non potevano disporre che di un esercito molto piccolo e quanto mai disorganizzato; nemmeno la loro flotta, pur superiore a quella avversaria, era poi molto forte, visto che solo pochi anni prima, al tempo della crisi diplomatica con l’Italia per i massacri di New Orleans del 1891, gli esperti di cose navali avevano stimato la flotta italiana come assai superiore a quella statunitense e avevano ventilato la possibilità, peraltro molto aleatoria, di una sua incursione fin sulle coste orientali degli Stati Uniti d’America.
L’esercito spagnolo di stanza a Cuba, benché fortemente impegnato nelle operazioni contro i ribelli, costituiva una forza tutt’altro che trascurabile, poiché esso era in grado, se interamente mobilitato, di concentrare a un dato momento qualcosa come 300.000 combattenti. Se gli Americani avessero dovuto piegare la resistenza di una simile forza armata, la guerra sarebbe stata durissima, di durata prolungata e di esito incerto: nessuno metteva in dubbio il valore del soldato spagnolo, anche se esistevano fondate ragioni per dubitare della reale efficienza dell’esercito spagnolo come moderno strumento bellico. Di fatto, quel che accadde al momento dello sbarco americano nella zona di Santiago fu che gli Spagnoli si trovarono impegnati in condizioni di netta inferiorità numerica e quindi, paradossalmente, un esercito molto più piccolo, come quello d’invasione, oltretutto afflitto da gravi problemi di trasporto, da lacune logistiche di tutti i generi, e flagellato dalle malattie tropicali, riuscì ad affrontare e a battere un esercito enormemente superiore, che, però, nei luoghi ove il breve confronto ai svolse, non poté mettere in campo se non forze scarse e male armate, con poca artiglieria, complessivamente inadeguate.
Al governo di Praxedes Mateo Sagasta non restò altro che negoziare la pace, essendo rimasta la Spagna letteralmente priva di navi con cui continuare la guerra e alimentare i due teatri principali di operazioni, Cuba e le Filippine, trasportandovi uomini e materiali. Tuttavia si possono ben capire la rabbia e il senso di frustrazione dei soldati spagnoli e dei loro comandanti, quando la pace di Parigi sanzionò una sconfitta tanto repentina e catastrofica, quanto apparentemente assurda, che essi sentivano di non aver meritato. A ciò si aggiunse anche la sfortuna, elemento imprevedibile (ma forse non del tutto, perché, avrebbe detto Machiavelli, essendo la Fortuna femmina, essa si concede di preferenza agli audaci piuttosto che agli esitanti): se il comandante spagnolo nelle Filippine avesse saputo che si stava per firmare l’armistizio, avrebbe ritardato la resa della baia di Manila davanti allo sbarco dei marines americani; in pratica, la Spagna perse il suo principale possedimento nel Pacifico per una vera beffa, cioè per una questione di ventiquattro ore. Dopotutto, forse non aveva tutti torti il vecchio Bismarck, allorché giudicava che un destino capriccioso avesse "graziato" gli impreparati e incoscienti americani.
La diplomazia della Chiesa aveva fallito, e ciò per aver puntato sul cavallo sbagliato, l’arcivescovo Ireland, ma anche, probabilmente, per non aver compreso la reale natura del conflitto imminente: e, in particolare, per non essersi resa conto che, specialmente dopo la campagna scandalistica dei giornali del gruppo Hearst, che puntava ad enfatizzare al massimo le "atrocità" spagnole a Cuba e soprattutto il drammatico incidente del «Maine» (per il quale la responsabilità spagnola non è mai stata provata), il governo di Washington era deciso alla guerra fin dall’inizio — o, al massimo, a ottenere il consenso per l’acquisto dell’isola dietro il pagamento di una cospicua somma di denaro: pratica ben collaudata dalla diplomazia americana, sia per la Louisiana francese, sia per alcuni territori messicani e per l’Alaska russa — ragion per cui gli spazi di manovra per una mediazione erano pressoché nulli.
Così ha ricostruito quella vicenda il giornalista peruviano Eric Frattini, nel suo documentato, ma discusso saggio «L’Entità» (titolo originale: «La Santa Alianza. Cinco Siglos de Espionaje Vaticano», 2004; traduzione dallo spagnolo di Simona Noce, Roma, Fazi Editore, 2008, pp. 192-195):
«…Il sommo pontefice e Rampolla [il Segretario di Stato] avevano già fatto da mediatori, con successo, in un contenzioso tra Germania e Spagna su alcune isole del Pacifico e credevano di poter negoziare tra Madrid e Washington per la questione di Cuba. Ma il vaticano non aveva relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti e questo aiutava ben poco alla soluzione del conflitto.
Il papa ordinò alla Entità di contattare John Ireland, arcivescovo di Saint Paul, nel Minnesota. Il delegato apostolico doveva cercare di mediare a Washington, mentre Ireland doveva utilizzare altre vie per arrivare al presidente McKinley. L’esperienza dell’arcivescovo Ireland mise in luce i pericoli derivanti dall’uso di agenti locali. Infatti, egli non era un uomo dell’Entità e non agiva disinteressatamente per la soluzione della crisi. Per capirlo, sarebbe stato sufficiente che papa Leone XIII e Rampolla leggessero il rapporto trasmesso dall’Entità sul discutibile arcivescovo Ireland.
Il religioso era notoriamente schierato con il Partito repubblicano, al potere a Washington. Pochi ani prima, nel 1896, si era impegnato a tal punto nella campagna elettorale di McKinley da scandalizzare i settori cattolici del paese. Il rapporto del servizio di spionaggio papale riferiva che il l’arcivescovo John Ireland aveva chiesto ai fedeli durante la messa di votare il Partito Repubblicano.
L’arcivescovo sperava di ottenere la porpora cardinalizia, grazie all’incarico affidatogli dal papa e all’appoggio di importanti personalità della politica americana. Monsignor John Ireland era evidentemente un nazionalista, favorevole alla democrazia, alla tolleranza religiosa e alla vitalità economica; ma soprattutto credeva che gli Stati Uniti fossero destinati a occupare la leadership mondiale sostituendosi ad altre potenze tradizionali come la Spagna o il Vaticano.
È difficile determinare quali furono i legami tra John Ireland e l’amministrazione McKinley e come il suo nazionalismo influenzò i rapporti che inviò all’Entità a Roma. L’arcivescovo era diviso tra la passione nazionalista che lo legava al presidente degli Stati Uniti e l’obbedienza al sommo pontefice. Gli analisti dello spionaggio vaticano fecero sapere al papa che John Ireland voleva contribuire a mettere fine alla guerra di Cuba, ma teneva che l’amministrazione McKinley o i protestanti americani avrebbero giudicato lui o i loro concittadini cattolici poco patriottici o addirittura filospagnoli.
Senza dubbio Ireland lavorava per raggiungere la pace, come gli aveva chiesto il papa, ma doveva convincere il vaticano affinché facesse pressioni su Madrid, prima ancora che sull’amministrazione McKinleym, per dichiarare una tregua immediata a Cuba, facendo così il primo passo verso la soluzione della crisi. Gli agenti dell’Entità informarono il Segretario di Stato Rampolla che John Ireland, secondo i servizi segreti vaticani,desiderava ingraziarsi entrambe le parti senza dichiararsi a favore dell’una o dell’altra.
Ireland inviò allora un messaggio cifrato a Rampolla e a Leone XIII indicando i punti che credeva necessari per raggiungere la pace: una dichiarazione di Madrid che stabilisse da subito una tregua in tutto il territorio di Cuba; l’inizio di trattative tra la Spagna e Cuba per fermare quanto prima i gruppi di insorti; e l’accettazione di un arbitro designato dagli Stati Uniti per le negoziazioni di pace. Con questa proposta, Washington imponeva una soluzione a Madrid ed esigeva delle concessioni. Gli agenti dell’Entità nella capitale statunitense informarono Roma che le proposte avanzate dall’arcivescovo John Ireland erano state redatte dal Dipartimento di Stato e non dal religioso, e che se fossero state accettate dal papa o da Madrid la Spagna avrebbe dovuto abbandonare immediatamente l’isola.
Ma il vaticano prendeva n considerazione solo le informazioni inviate da Ireland e non quelle degli agenti dell’Entità o del delegato papale a Washington. Rampolla e la sua Segreteria di Stato leggevano solo i rapporti dell’arcivescovo di Saint Paul e prestavano attenzione alle dichiarazioni di Ireland, che affermava che il presidente McKinley "desiderava disperatamente trovare una soluzione pacifica al conflitto" e che solo se la Spagna assecondava i suoi desiderosi sarebbero placati gli animi bellicosi del Congresso e dell’opinione pubblica. In realtà, gli Stati Uniti volevano Cuba soprattutto per la posizione strategica in cui si trovava, di fronte al Golfo del Messico. McKinley era disposto a comprarla o a combattere per averla.
Mentre il vaticano in un certo senso ingannato dai rapporti di Ireland, cercava una soluzione con Madrid, l’11 aprile 1898 McKinley chiese al parlamento che gli venissero concessi poteri speciali per dichiarare guerra alla Spagna. Quello stesso giorno Cuba fu dichiarata libera e indipendente e se la Spagna on rinunciava alla sovranità sull’isola, il presidente degli Stati Uniti era autorizzato a utilizzare ogni mezzo per rendere effettivo quanto stabilito. Il 21 aprile le relazioni diplomatiche fra Madrid e Washington si interruppero e il 25 gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Spagna dando inizio anche all’embargo contro l’isola. Il resto è ormai storia.»
Nonostante l’enfasi anti-cattolica di Eric Frattini, non diremmo, comunque, che la vicenda torni a disdoro della Santa Sede, né di Leone XIII, né della Chiesa in quanto tale. È più che logico che quest’ultima desiderasse scongiurare una guerra che avrebbe coinvolto due grandi nazioni occidentali, una delle quali cattolica, l’altra protestante, ma con una grossa minoranza cattolica; ed è motivo di apprezzamento, semmai, che essa abbia mobilitato le proprie risorse perché si potesse addivenire a una composizione pacifica del contrasto. Che poi la Santa Sede (e non il Vaticano, come scrive abitualmente Frattini: dimenticando che lo Stato del Vaticano nasce solo l’11 febbraio del 1929, e non prima) disponesse di canali d’informazione segreti, e paralleli alla propria diplomazia ufficiale, così come ne disponevano tutti gli altri stati, non ci sembra che sia, neppure questo, di per sé, motivo di scandalo, tanto più che essa era stata, fino a pochissimi decenni prima, detentrice del potere temporale.
Come abbiamo detto, il fallimento si deve non solo all’avere scelto l’uomo sbagliato (e i cui secondi fini furono prontamente denunciati a Leone XIII, anche se con poco successo, da monsignor Donato Sbarretti, un prelato esperto di questioni statunitensi, come ricorda lo stesso Frattini), ma anche e soprattutto dal non aver compreso la reale natura del conflitto e, più ancora, della vera posta in gioco: che era, da un lato, il controllo del mercato dello zucchero cubano (la cui insostenibile concorrenza danneggiava i piantatori americani), dall’altro il nascente sentimento imperialistico del governo americano e della stessa società civile, che si erano enormemente allontanati dalla loro intransigente tradizione democratica originaria e che si stavano allineando, di fatto anche se negandolo a parole, all’imperialismo delle grandi potenze europee, da alcuni decenni impegnate in una accanita competizione di tutti contro tutti per la spartizione del mondo, delle materie prime e dei mercati per l’esportazione dei propri prodotti. Frattini insinua che l’esito della guerra aprì la strada ad un riavvicinamento fra la Curia e il governo americano, i quali sino ad allora non avevano relazioni diplomatiche; ma si tratta di una malignità gratuita. È tutto da dimostrare che Leone XIII avesse desiderato una soluzione della crisi completamente favorevole agli Stati Uniti, oltretutto allo scopo di favorire l’instaurazione di migliori relazioni con essi. Un tale machiavellismo non appare in linea con la personalità, né con la politica complessiva del papa.
Del resto, la mediazione della Curia ebbe miglior fortuna in altre importanti controversie internazionali: quella fra la Germania e la Spagna per alcuni arcipelaghi del Pacifico (le isole Caroline, nel 1884, per il momento confermate alla Spagna, ma poi cedute alla Germania nel 1899) e quella fra Argentina e Cile per la divisione della Patagonia e della Terra del Fuoco. Nel secondo caso, fu scongiurato un reale pericolo di guerra: dopo una prima controversia, iniziatasi verso il 1888 e culminata nel 1904, risoltasi con la spartizione provvisoria delle isole del Canale Beagle, seguì una seconda nel 1977-78, quando la mediazione della regina Elisabetta d’Inghilterra risultò insufficiente e fu il Vaticano a scongiurare il confronto armato fra i due governi latinoamericani, retti entrambi da giunte militari fortemente nazionaliste.
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