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Erano tutti cattivi…

Nella Seconda guerra mondiale non si fronteggiarono le forze del Bene e quelle del Male: questo è quanto hanno deciso di sostenere i vincitori, imponendo al mondo intero l’accettazione supina di questa risibile verità di comodo; ma le cose, in realtà, stanno in tutt’altro modo. La verità vera, nuda e cruda, è che la Seconda guerra mondiale fu uno scontro fra opposti egoismi nazionali, tutti egualmente brutali, tutti egualmente totalitari; che alcuni — guarda caso, gli sconfitti — fossero di natura criminale, e gli altri no, è una favola che si cerca tuttora di tramandare e che la cultura "ufficiale", quella politicamente corretta, non si stanca di ripetere, con tanto di cerimonie canoniche — come la commemorazione dei caduti anglo-americani nello sbarco in Normandia, presentato e celebrato da tutti, persino dai rappresentanti degli sconfitti, come il principio della "liberazione" dell’Europa e del mondo. Ma si tratta, ancora e sempre, della propaganda dei vincitori, per cui è un punto di vista quanto meno sospetto. Quando poi si riflette che non solo gli Alleati occidentali compirono crimini atroci — come i bombardamenti al fosforo sulle città tedesche, o la distruzione di Tokyo e il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki -, ma che al loro fianco c’era l’Unione Sovietica di Stalin, nella quale si perpetrarono stragi ancora più massicce di quelle ordinate da Hitler in Germania e nei territori occupati, risulta alquanto difficile continuare a credere a quella verità di comodo.

Riassumendo: nella Seconda guerra mondiale non vi furono i buoni contro i cattivi, per il semplice fatto che erano tutti cattivi. La malvagità dei disegni strategici tedeschi e giapponesi è ormai acquisita, e non occorre insistervi ulteriormente. I piani dell’Italia non prevedevano genocidi o pulizie etniche, ma un sostanziale accrescimento della sua sfera d’influenza, anche con metodi crudeli o immorali, o, comunque, riprovevoli, peraltro di gravità disomogenea (dalla proibizione di esprimersi nella propria lingua per gli Sloveni e i Croati della Venezia Giulia, all’uso dei gas asfissianti in Etiopia: cose evidentemente molto diverse fra loro); non, però, inediti, né per quantità, né per qualità (mentre inedite furono le politiche di sterminio dei nazisti, dei sovietici e dei militaristi giapponesi, ad esempio con i massacri di Nanchino: cfr. il nostro articolo «Lo "stupro di Nanchino" del dicembre 1937 preludio agli orrori della seconda guerra mondiale», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 29/07/2008).

I piani dell’Unione Sovietica prevedevano, dopo aver realizzato lo sterminio interno della classe media, l’asservimento della zona più vasta possibile dell’Europa centrale e, forse, di quella occidentale; il trasferimento in Russia delle principali risorse industriali, agrarie e minerarie; la deportazione delle popolazioni indocili; la creazione di regimi fantoccio; l’eliminazione fisica di tutte le intellighenzie nazionali potenzialmente ostili (e non solo di singoli individui o di gruppi circoscritti), come fa fede il massacro di Katyn, consumato a freddo contro tutti gli ufficiali fatti prigionieri dell’esercito polacco.

I piani delle potenze democratiche — che sarebbe più esatto definire plutocrazie: ma nessuno osa farlo, perché il vocabolo venne adoperato dalla propaganda di guerra fascista, e nessuno, dopo il 1945, vuol rischiare di passare per un nostalgico del fascismo — erano in apparenza meno aggressivi, per la semplice ragione che esse avevano già fatto la parte del leone nella spartizione del mondo, sia a livello geopolitico, sia a livello economico e finanziario. La loro posizione era quindi quella di chi, sazio e soddisfatto, non desidera altri banchetti, ma solo per non guastarsi la digestione, e vorrebbe essere lasciato tranquillo, non per spirito pacifico o per una superiore forma di saggezza, tanto meno di eticità, ma perché gli basta poter continuare a sfruttare ciò che attualmente possiede. Cioè quasi tutto.

Si rifletta che l’Impero britannico si estendeva su quasi un terzo delle terre emerse e si fondava sul controllo totale — con la cooperazione americana — del traffico marittimo internazionale: e si capirà sia perché la Gran Bretagna si oppose duramente alla conquista italiana dell’Etiopia, sia perché era favorevole alla "libertà" di navigazione e di commercio. In passato, quei popoli e quegli Stati che avevano cercato di realizzare un modello alternativo al dominio mondiale del capitale britannico, come il Paraguay del dittatore Francisco Solano Lopez, erano stati letteralmente annientati (nel caso specifico qui citato, con la guerra della Triplice Alleanza, dal 1865 al 1870, condotta materialmente da Argentina, Uruguay e Brasile, ma finanziata e voluta dalla City londinese). E si rifletta che gli Stati Uniti d’America avevano steso il loro silenzioso protettorato geopolitico sull’intera America latina, e il loro ancor più silenzioso protettorato finanziario sul mondo intero, comprese le grandi potenze europee: e si capirà perché odiavano il militarismo tedesco (quello di Hitler come già quello del Kaiser), o perché si opponessero strenuamente all’espansione giapponese in Cina. Infine si rifletta che la Francia, dopo aver imposto all’Europa, per mano di Clemenceau, la pace punitiva del 1919, che preparò lo scoppio della Seconda guerra mondiale (cfr. il nostro articolo: «Clemenceau, detto "il Tigre": fu vera gloria?», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 04/10/2014), si era infine accaparrata tutto ciò che non era già della Gran Bretagna, o non rientrava negli interessi immediati degli Stati Uniti: qualcosa come metà del continente africano, una bella fetta dell’Asia orientale ed un enorme quadrante dell’Oceano Pacifico, con le relative risorse e materie prime; e si capirà perché la Francia si prendeva tanto a cuore il destino della Cecoslovacchia.

Questa era la situazione. Le potenze del Tripartito volevano spezzare il monopolio delle plutocrazie, sottrarsi al nodo scorsoio di Wall Street (che già aveva regalato al mondo la più spaventosa crisi economica del mondo moderno) e, nello stesso tempo, dovevano coprirsi le spalle dall’Unione Sovietica e dai numerosi cavali di Troia rappresentati dai vari partiti comunisti nei Paesi terzi. In quest’ottica, e solo in quest’ottica, si arriva a capire — non giustificare — perché Mussolini e Hitler "dovevano" intervenire in Spagna: e si vide cosa furono capaci di fare i Sovietici, e i comunisti spagnoli postisi ai loro ordini, non solo contro suore, preti, proprietari terrieri e nemici politici, ma anche contro i loro stessi "compagni", anarchici e trotzkisti, nel breve periodo della loro egemonia (ad esempio con i massacri di Barcellona): Dio sa cosa avrebbero fatto poi, alla fine della guerra civile spagnola, se avessero vinto loro.

Uno dei pochi intellettuali italiani onesti, capaci di dire pane al pane e vino al vino, e di rappresentare lo scontro di forze della Seconda guerra mondiale per quello che realmente fu, invece di umiliarsi a ripetere la mitologia fasulla dei vincitori, è stato Luigi Bartolini (1892-1963), intellettuale anomalo, incisore, pittore, scrittore, spirito libero e anticonformista, del quale ci piace riportare una pagina ruvida e sgradevole, ma sostanzialmente veritiera, tratta dal suo saggio «Della decadenza della libertà di stampa» (Il Filo di Arianna di Colombo Editore, Roma, 1946, pp. 11-14):

«… Se il mondo va male, va male perché sono le maggioranze che, o per loro ignoranza, o per loro "congenita belluinità", così vogliono. E supposto — come è, purtroppo, vero — che i belluini rappresentino le maggioranze concedereste voi, o pochi illuminati — e sempre che dipendesse (come invece non dipende) da voi il concederlo — la libertà di espressione e cioè la libertà di stampa a tali inique maggioranze?

Ma è ciò quello che accade! Accade che le maggioranze siano perfide ed inique e che noi spirituali uomini si subiscano le colpe dei loro errori. Le cose stanno propriamente così come io le vedo in questo momento: sono le maggioranze, neghittose (mancanti di coscienza) le responsabili irresponsabili dei loro mali, loro afflizioni e che si riversano sopra noi, spiritualmente liberi. Ecco perché, intanto, io odio ogni demagogia. Io non sono, non sono mai stato, mai ho aspirato ad essere e mai sarò un demagogo. Non sarò mai dalla parte di tali "prenditori a fare". Essi prendono a fare, cioè a vincere; la partita che si identifica più che altro nella loro partita, o partita del loro ventre, loro ambizione. Sono essi che danno incondizionatamente ragione al popolo. E guai a voi se dite che il popolo è una bestia. Guai a voi se deplorate gli eccessi popolari! Guai a voi se ponete in rilievo le stridenti contraddizioni popolari, come accade nel caso dei rapporti tra popolo e tiranno, tra popolo e tirannide. In fin dei conti chi è che vuole la tirannide? Non altri che chi si lascia imbrigliare il dorso, inchiavardare il cervello dalla tirannide. Ma non noi.

Noi, uomini di cultura, mai soffrimmo le inchiavardature. Non ci sorprese che, a un certo tratto, la folla, illusa, corresse dietro ai pazzi disegni del tiranno. Il tiranno, ostentatamente o incoscientemente, prometteva loro maccheroni. Maccheroni imperiali. La coscienza veniva, in simile grave caso, posta da bando. Non si considerava il giusto e l’ingiusto. Non si considerava se fosse giusto andare a colonizzare coloro i quali, seppur domandavano, non domandavano che del sapone per lavarsi il sudicio volto o per lavare dei laceri panni. Ma noi non domandavamo giogo né domandavamo dominazioni, mentre il disegno del tiranno (e quello dei molti suoi accoliti) non era di apportare benefici, ma di mungere i già poveri e di condannarli a una schiavitù organizzata, peggiore della schiavitù naturale. Tutti i disegni e sogni dei popoli colonialisti e delle nazioni coloniali sono sbagliati. Tutti sanno di tanfo di tirannide. Tutti tali sogni partono dall’ingiusto concetto di vivere alle spalle di altrui. Dei forti che — oh il paradosso! — vogliono vivere alle spalle dei più deboli!

E, in fondo, la nostra passata tirannide non era, in quanto a disegni coloniali, diversa, d’intenti, di quanto siano l’Inghilterra o la Francia o la Russia o di quanto siano le Americhe e il Giappone. Era, ed è, una ridda di prepotenti che vogliono vivere, alle spalle di altrui, di redditi coloniali. E quindi se il nostro povero e disgraziato popolo seguì i disegni del tiranno non fu più colpevole del, per esempio, popolo e governo degli inglesi; popolo e governo i quali, da secoli, campano alle spalle dei colonizzati.

All’Inghilterra andò bene. Benissimo andò ai debiti di Pitt. Al tiranno nostro andò, invece, in modo che peggio non sarebbe potuto andare. Ed egli soprattutto è da incolpare di chisciottismo, e cioè di passo superiore alla gamba: di fatal passo romano e che, infatti, l’ha condotto fino a pendere (come un agnello scannato e poi impiccato) ai ferri della beccheria di Piazza Loreto.

Il popolo seguì il tiranno fino a tanto che andò bene a costui. Lo abbandonò e lo trafisse quando le cose erano già precipitate verso l’estremo male d’essere caduti sotto una schiavitù, anzi, due schiavitù, esterne e straniere., Ma non è da lodare il popolo né per i fatti di prima, né per i fatti di poi. E l’incoscienza fu, come ripeto, un comun denominatore.

Altrettanto incosciente fu da parte dei falsi liberatori. Essi si sodalizzarono in molti per sconfiggere i pochi. Provvisti di maggiori cumuli di denaro, fu loro facile vincere. Ma, eppure, per riuscirvi , dovettero dare ad intendere, ai loro soldati ed a noi, pace libertà e giustizia; che, in parole povere, significavano o spartizione delle colonie o confederazione di questa povera martoriata Europa. Ma non erano (non sono) nelle intenzioni dei vincitori alcuna idea di pace, di giustizia e di libertà; ossia di buttar giù le colonie nel piatto d’una comune Europa. E, difatti, dopo vinta la guerra, la maschera della liberazione è stata gettata a terra, e i vincitori si sono scoperti per vincitori alla Brenno. L’Europa è rimasta tale e quale; con una delusione di più. Tale la schiavitù è rimasta a pesare sopra le decrepite spalle d’Europa e che barcollano per cumuli immensi d’immense devastazioni. Né crediate che le menti si riformino, che le intenzioni diventino pure, o che abbia inizio un’era di pace. Le cose, dopo la guerra, stanno in un modo che è peggiore di quello di prima. Altrettanto male starebbero se la guerra fosse stata vinta dalle due potenze prepotenti: perché da poche sarebbero diventate molte e da molte, belluine come erano, sarebbero tornate a litigare ancora: ossia sarebbero andate verso altre egemonie e verso nuove stragi: senza la minimissima compassione per il numero delle innocenti vittime della guerra d’egemonia. Sicché le cose stanno nel modo peggiore per tutti. Tanto per quelli di destra che per quelli di sinistra. Ed hanno tutti torto: tanto i vinti che i vincitori. E questo è il punto.»

A parte il giudizio un po’ ingeneroso (a nostro parere) su Mussolini, non cambieremmo una virgola di questo brano di prosa scritto a caldo, subito dopo la fine della guerra e quando ancora l’Italia era insanguinata dalle gesta belluine dei partigiani comunisti, che seguitavano a trucidare i loro nemici di classe, veri o presunti, per preparare il terreno alla seconda e definitiva spallata rivoluzionaria, quella che avrebbe dovuto eliminare le forze borghesi ed instaurare, una volta per tutte, il Paradiso di Stalin anche nel nostro Paese.

E che il giudizio sui pretesi "liberatori" non sia campato per aria, ma poggiato sulla solidità dei fatti, lo si poteva veder, già allora — nel 1946 — dalla avidità con la quale essi, dopo aver proclamato che la guerra si combatteva per la libertà dei popoli, non solo si guardarono bene dal concedere la libertà alle loro colonie (a meno che vi fossero proprio costretti), ma tentarono persino di accrescere il loro già pantagruelico banchetto, inglobando – come del resto avevano fatto nel 1919 con le colonie tedesche e i possedimenti ottomani — le colonie italiane.

I vincitori del 1945 ripeterono, punto per punto, gli egoismi, le prepotenze e gli errori del 1919. Di nuovo, vollero una pace punitiva (a cominciare dalla nostra peggior nemica, la Francia: che, come aveva voluto negarci Fiume allora, adesso pretese che cedessimo alla Jugoslavia l’italiana Zara, Fiume e tutta l’Istria; oltre a prendersi Briga e Tenda!): e si sa come fu trattata la Germania, e come vennero abbandonati a Stalin i popoli dell’Europa centro-orientale, a cominciare da quei Polacchi per la cui difesa si era voluta scatenare la Seconda guerra mondiale.

Il mondo era stato "liberato": vale a dire che per metà era stato abbandonato sotto lo spietato tallone comunista, e per metà era stato riportato, volente o nolente, sotto le meraviglie della dittatura finanziaria congiunta della City e di Wall Street: con lo spettro dell’atomica sullo sfondo. I generali e i ministri tedeschi e giapponesi erano stati pubblicamente processati, sotto le telecamere della stampa "libera", condannati e debitamente impiccati: giustizia era fatta.

Si era persa un’altra occasione per inaugurare davvero una nuova stagione politica e culturale, una nuova etica nei rapporti internazionali. Davvero 50 milioni di esseri umani erano morti solo per questo? Solo perché i ricchi potessero accumulare ulteriori ricchezze, e i poveri raccattare le briciole che, per sbaglio, cadevano dalla loro tavola bene imbandita?

Quanto pochi furono gli intellettuali onesti, che ebbero il coraggio di denunciare la tremenda contraddizione, la delusione atroce di una simile conclusione. Fra questi, spicca il nome di Luigi Bartolini. E non crediamo sia un caso se quel nome è conosciuto ormai da pochissismi: perché dire certe verità impronunciabili, in un mondo di servi e di opportunisti, equivale a troncarsi la carriera, come minimo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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