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Come Roosevelt ingannò l’America e la portò in guerra contro il suo volere

Franklin Delano Roosevelt ingannò deliberatamente gli elettori americani allorché promise e giurò, nel corso della sua terza campagna elettorale per le presidenziali, nel 1940, che mai e poi mai avrebbe condotto gli Stati Uniti in guerra: e invece aveva già predisposto tutte le perdine per portare il Paese in guerra, o per fare in maniera che la guerra divenisse inevitabile, sia contro la Germania e l’Italia in Europa, sia contro il Giappone nel settore del Pacifico.

Roosevelt, un massone del 32° grado del Rito scozzese, che già era stato letto presidente, la prima volta, nel 1932, anche grazie ad un patto segreto con la mafia italo-americana di Lucky Luciano (cfr. il nostro articolo: «Come l’elezione di F. D. Roosevelt venne pilotata dalla mafia di Lucky Luciano», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» in data 12/11/2015), compì tutta una serie di forzature costituzionali, eludendo il controllo del Congresso, favorendo smaccatamente gli affari non troppo limpidi della moglie e dei figli, spillando denaro con incredibile disinvoltura ad alcuni grandi lettori e sostenitori politici, fece in modo di portare gli Stati Uniti in guerra prima ancora che essa venisse ufficialmente dichiarata, in particolare facendo approvare la famosa legge "affitti e prestiti" che apriva un credito a fondo perduto in favore della Gran Bretagna e regalando al suo amico Churchill cinquanta cacciatorpediniere per la lotta contro i sommergibili tedeschi.

Roosevelt, inoltre, condusse una guerra non dichiarata contro la Germania, affiancando le navi britanniche nella caccia ai sottomarini tedeschi (e italiani) nell’Atlantico, nonché facendo occupare la Groenlandia (dopo che i Britannici avevano occupato l’Islanda), il tutto senza il consenso del governo danese, cui la grande isola apparteneva, ma solo con l’autorizzazione dell’ambasciatore danese a Washington: il che permise alle navi da guerra statunitensi di combattere apertamente, e al personale americano di combattere sotto la bandiera britannica, contro le unità della marina tedesca, in maniera giuridicamente illegale e contraria alle norme internazionali (norme che il governo dell’Uruguay, ad esempio, aveva fatto valere così rigorosamente quando, nel 1939, si era trattato di costringere la corazzata «Graf von Spee» a uscire dal porto di Montevideo, benché gravemente danneggiata dal combattimento appena sostenuto, e andare incontro alla flotta britannica che l’attendeva al largo, appena oltre il limite delle acque territoriali (cfr. i nostri articoli: «La crociera della "Graf Spee" e la battaglia del Rio de la Plata», e «La sofferta domanda del comandante Langsdorff attende ancora una risposta», pubblicati sul sito di Arianna Editrice rispettivamente il 15/10/2008 e il 05/10/2011, poi ripubblicati su «Il Corriere delle Regioni»).

Naturalmente, il problema storico che pongono questi comportamenti e queste scelte del presidente Roosevelt non riguarda la legittimità della scelta di entrare in guerra a fianco della Gran Bretagna e contro il Tripartito, bensì la maniera machiavellica, sleale e truffaldina con cui egli si mosse, mentendo spudoratamente ai suoi elettori e giocando d’astuzia con i Paesi ai quali si apprestava a scatenare una guerra senza quartiere (e che fosse senza quartiere, lo si sarebbe visto con la Conferenza di Casablanca, in cui si diceva apertamente che Germania, Italia e Giappone avevano una sola alternativa alla distruzione totale:la resa incondizionata). Il che, se è vero che gli Stati Uniti sono la prima fra le democrazie moderne e se è fondato il loro vanto di porsi quale modello per tutte le altre democrazie del mondo (vanto che ostentarono sia nella Prima che nella Seconda guerra mondiale, ponendosi come la nazione-guida per la difesa della libertà e del diritto), all’insegna del rispetto della volontà popolare e della scrupolosa correttezza nelle relazioni internazionali, rende ancora più grave e sconcertante il cinico e amorale doppiogiochismo del Presidente americano.

Ha scritto John T. Flynn, nella sua interessante monografia che esamina la presidenza Roosevelt da una prospettiva critica di destra (da: J. T. Flynn, «Il mito di Roosevelt»; titolo originale: «The Roosevelt Myth», 1948; traduzione dall’inglese di Maria Celletti, Milano, Longanesi & C., 1949, pp. 423-427):

«Il Presidente sapeva che il popolo americano non voleva la guerra, e ciò fu confermato da un colossale sondaggio dell’opinione pubblica, compiuto dall’Istituto Gallup, che dimostrò che l’ottantatrè per cento degli americani si ribellava all’idea di un conflitto. Egli assunse, allora, il ruolo di leader della pace, ma chiese contemporaneamente al Congresso l’abrogazione della legge sulla neutralità e la conseguente autorizzazione ad inviare materiali bellici all’Inghilterra e alla Francia. Il Presidente dichiarò agli americani che se l’avessero seguito, il paese non sarebbe entrato in guerra, ma nel 1940 chiese al Congresso l’autorizzazione a fornire all’Inghilterra un milione di fucili prelevato dalle scorte dell’esercito americano. Poco dopo compì un altro passo: la coscrizione militare obbligatoria. Gli alti comandi dell’esercito avevano proposto il reclutamento di cinquecentomila uomini, ma il Presidente insistette per un milione e cinquecentomila.  Le autorità militari osservarono che un simile reclutamento sarebbe stato necessario soltanto se gli Stati Uniti si fossero trovati impegnati in operazioni oltremare.

Il Presidente cominciò, pi, ad emanare dalla Casa Bianca comunicato su sottomarini avvistati al largo delle coste americane e, in un discorso, disse che i bombardieri germanici avrebbero potuto, dalle basi della Groenlandia, colpire mortalmente Omaha. Dichiarò, inoltre, che se Hitler avesse sconfitto l’Inghilterra, l’America avrebbe perso indipendenza e libertà e annunciò  che "dopo l’Inghilterra, sarebbe stata la volta degli Stati Uniti".

Modificata la legge sulla neutralità, inviato alla Gran Bretagna un milione di fucili, portati gli effettivi dell’esercito a un milione e cinquecentomila uomini, il Presidente compì un ulteriore passo, cedendo all’Inghilterra cinquanta cacciatorpediniere, senza, naturalmente, l’autorizzazione del Congresso.  Questa iniziativa fu calorosamente approvata da tutti i paladini dell’intervento.  Costoro erano onesti e logici nel loro atteggiamento, poiché avevano sempre proclamato la necessità di aiutare gli alleati, anche a rischio della guerra. Roosevelt, invece, dichiarava di avversare la guerra e di mirare , con la sua azione, solo a evitarla. Io non critico la condotta di Roosevelt, ma esprimo delle riserve sulle ragioni  da lui fornite per giustificarla, ragioni del tutto contrarie alla verità. Tanto più che allora l’ottantatrè per cento del popolo americano si era dichiarato contrario all’intervento. Nei primi mesi del 1941 il Presidente propose la legge sugli affitti e prestiti. Il senatore Burton K. Wheeler affermò trattarsi di un provvedimento legislativo che permetteva al Presidente di condurre contro la Germania una guerra non dichiarata. Roosevelt respinse sdegnosamente questa interpretazione. […]

Durante il dibattito al Congresso, sorse il problema delle modalità dell’invio delle armi in Gran Bretagna. Taluni avversari del presidente si dissero convinti che Roosevelt sarebbe ricorso al sistema dei convogli. Il Presidente smentì tale ipotesi, affermando: "I convogli implicano la possibilità di aprire il fuoco e ciò significa la guerra". Ebbene, proprio mentre Roosevelt pronunciava queste parole, i primi convogli diretti in Inghilterra lasciavano i nostri porti.

Ma offenderemmo l’intelligenza di Roosevelt e dei capi americani se on riconoscessimo che il Presidente si era orientato verso la guerra sin dall’ottobre 1940. […]

Il 10 ottobre 1940 si ebbe la certezza che Roosevelt voleva la guerra. Il segretario della marina Knox informò l’ammiraglio Richardson che il Presidente desiderava che la flotta americana del pacifico, di cui Richardson era appunto il comandante, perlustrasse quelle acque, per impedire al Giappone l’accesso alle sue fonti di rifornimento: dunque, una specie di bastione di navi contro l’impero nipponico. Richardson si oppose vigorosamente a tale richiesta, osservando che un simile provvedimento sarebbe stato considerato senz’altro dal Giappone come un atto di guerra, e che gli Stati Uniti avrebbero perduto la marina. La decisa opposizione del’ammiraglio indusse Roosevelt ad abbandonare per il momento il progetto. Tre settimane dopo, in un discorso tenuto a Boston, egli affermava solennemente: "Io vi dico, padri e madri, che i vostri ragazzi non saranno mai mandati a combattere in una guerra straniera. Ve lo dico ora e non mi stancherò di ripeterlo.

Intanto, approvata la legge affitti e prestiti, convogli di navi americane e inglesi, cariche di materiale bellico destinato alla Gran Bretagna, cominciarono a solcare l’Atlantico. E l’affermazione di Roosevelt, che i convogli implicano la necessità di aprire il fuoco e che ciò significa la guerra, risultò esatta, giacché il fuoco fu aperto e la marina americana cominciò con quella inglese la caccia ai sottomarini tedeschi.

Nel gennaio 1941, mentre era in corso il dibattito sulla legge affitti e prestiti, si riuniva segretamente, a Washington, una commissione mista di alti ufficiali dell’esercito e della marina americani ed inglesi, per redigere il primo schema di un documento volto a determinare "i metodi migliori per consentire alle forze armate degli Stati Uniti e del Commonwealth britannico, ed ai loro alleati, per sconfiggere la Germania ed i suoi accoliti nel caso di un intervento americano". A questo seguì’ il comune piano di guerra, firmato il 29 marzo 1941.

Quasi contemporaneamente un’altra commissione, composta di alti comandanti americani ed inglesi, si riuniva a Singapore, per elaborare la comune azione di guerra nel Pacifico. In questo secondo piano si parlava di "sconfiggere la Germania ed il Giappone nell’Estremo Oriente". L’opera della marina americana veniva predisposta in ogni dettaglio nel cosiddetto "piano arcobaleno". E questo piano fu consegnato all’ammiraglio Kimmel, perché fosse attuato in caso di guerra. Tutto ciò accadeva otto mesi prima di Pearl Harbor.»

Così come non si può non rilevare che, mentre il 29 marzo 1941 americani e britannici sottoscrivevano un piano di guerra comune contro le potenze dell’Asse, lo stato di guerra ufficiale venne aperto solamente l’11 dicembre, ossia dopo Pearl Harbor, e per iniziativa della Germania e dell’Italia, le quali pure subivano, da oltre un anno, uno stato di guerra non dichiarata contro i loro sommergibili da parte della Marina statunitense. Tutto questo conferma la straordinaria abilità di Roosevelt nel condurre il gioco in maniera tale che gli Stati Uniti apparissero come il Paese aggredito e non come il Paese aggressore, anche se, in effetti, le cose andarono in maniera diametralmente opposta a quel che fu fatto credere all’opinione pubblica, sia dentro che fuori gli Stati Uniti d’America.

Tutto ciò da parte di un Presidente americano che si riteneva il solo uomo capace di comprendere quali fossero i veri interessi della nazione, e che ritenne necessario farsi eleggere per ben quattro mandati consecutivi, ma ogni volta (tranne l’ultima, con il Paese già impegnato pienamente nella Seconda guerra mondiale) ingannando e mentendo ai suoi connazionali, i quali, evidentemente, secondo lui non erano sufficientemente maturi per essere informati correttamente delle sue reali intenzioni e per capire quale fosse la politica estera di cui il Paese aveva bisogno, e cioè non una politica isolazionista, ma di forte e immediato sostegno al’Impero britannico, per spazzare via le pretese egemoniche del Tripartito.

La convinzione di Roosevelt di essere la sola persona capace di guidare il proprio Paese in quei difficili frangenti era così profondamente radicata in lui, che lo spinse a presentare la propria candidatura per un terzo mandato, cosa che nessun presidente americano aveva mai osato fare prima di lui (Washington aveva affermato, nel 1793, che due mandati erano fin troppi, se il popolo americano voleva scongiurare il pericolo di derive autoritarie); e, come se non bastasse, a proporsi per una quarta presidenza, nel 1944, benché già gravemente malato, vincendo di nuovo le elezioni politiche e venendo riconfermato ancora una volta. Il tutto senza avere affatto risolto il problema specifico per cui era stato eletto fin dal 1932: porre rimedio al disastro economico della Grande depressione scoppiata nel 1929.

Eppure, la spiegazione della sua doppiezza sta, probabilmente, proprio qui. Roosevelt aveva bisogno della guerra, per portare gli Stati Uniti fuori della crisi e dalla recessione: solo con le fabbriche impegnate a pieno ritmo nella produzione bellica, avrebbe potuto sconfiggere la disoccupazione e ridare slancio all’economia, ciò che non era riuscito a fare con il New Deal. Checché si dica e si ripeta ancora oggi, perfino sui libri di testo scolastici delle nazioni d’Europa…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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