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Quel cadavere che pesa come un macigno sulla coscienza di De Gaulle e della Francia

All’alba del 6 febbraio 1945, nel forte di Montrouge, non lontano da Parigi, cadeva sotto il piombo di un plotone d’esecuzione un giovane scrittore di trentacinque anni, Robert Brasillach, che, subito prima di morire, aveva ancora fatto in tempo a gridare: «Vive la France!».

Non aveva commesso alcun crimine materiale, non aveva violato alcuna legge, non si era macchiato di alcuna violenza; era stato ammiratore di Mussolini, aveva collaborato con il governo di Vichy e con la Germania di Hitler, aveva scritto articoli compromettenti sul giornale «Je suis partout», fondato da Pierre Gaxotte nel 1930 e suggestionato dalle idee dell’«Action Française» di Charles Maurras: e null’altro. I suoi crimini, se furono tali, erano solo ed esclusivamente di natura intellettuale. Ma può, una nazione democratica, che si vanta d’aver portato nell’Europa moderna la libertà di pensiero, fucilare un suo figlio, una delle più promettenti glorie letterarie del XX secolo, sotto l’imputazione di aver commesso dei crimini intellettuali? Può decretare la pena di morte per uno scrittore che ha dispiegato liberamente la propria intelligenza?

Certo, non fu il solo a compiere quelle scelte.. Anche se, dopo il 1945, si è fatto di tutto per cancellarne la memoria, o per ridurre almeno i casi più spettacolari a questioni di ordine psichiatrico, non furono pochi, sia in Francia che nel resto d’Europa, gli intellettuali che professarono idee simili a quelle di Brasillach, fasciste, collaborazioniste, filo-naziste, antisemite: da Céline a Drieu La Rochelle, da Ezra Pound a Knut Hamsun, per tacere dei nostri Giovanni Gentile e Luigi Pirandello (chissà se avrebbero processato e condannato anche Pirandello, qualora fosse vissuto ancora qualche anno e non avesse voluto rinnegare pubblicamente le sue iniziali simpatie per il fascismo? O se qualche banda partigiana, come i G.A.P. o le S.A.P., non lo avrebbe punito alla stessa maniera di Gentile, cioè in modo "esemplare", assassinandolo per strada?). Drieu si suicidò con il tubo del gas, un mese dopo la morte di Brasillach; Céline trascorse quattordici mesi in carcere, ove la sua salute si rovinò irreparabilmente, poi emigrò in Danimarca, fino all’amnistia; Pound venne rinchiuso in una gabbia, sotto il sole e la pioggia, per alcune settimane, indi scontò dodici anni di manicomio criminale; Hamsun, che nel 1945, aveva la bella età di 86 anni, venne processato, dichiarato pazzo e poi, a 89 anni, condannato a pagare una multa di 325.000 corone norvegesi. Ma l’elenco potrebbe continuare. Lo scrittore russo P. N. Krasnov, che fu a capo di una formazione cosacca collaborazionista dei Tedeschi, venne consegnato all’Unione Sovietica e fucilato. Il filologo, saggista e giornalista Goffredo Coppola, rettore dell’Università di Bologna nel 1943 e presidente dell’Istituto Nazionale di Cultura fascista, trovandosi in fuga da Milano con Mussolini, venne fucilato a Dongo e il suo cadavere esposto, insieme a quelli degli altri gerarchi, a Piazzale Loreto.

Brasillach ha lasciato un segno e rappresenta, oggi, un peso e — forse – un rimorso per la coscienza della Francia. Il generale De Gaulle, nuovo Capo dello Stato, rifiutò di accogliere la domanda di grazia presentata da un folto gruppo di scrittori e intellettuali di prestigio. Brasillach, proprio perché tanto intelligente, doveva morire: questa, in sintesi, la motivazione della sentenza; avrebbe dovuto capire quel che stava facendo, e non lo capì. Nessuna indulgenza per un giovane dotato, che, a giudizio del tribunale, aveva fatto un così cattivo uso della propria intelligenza e della propria cultura. Alla corte furono sufficienti venti minuti di discussione per decidere la sua sorte.

Così ha rievocato la figura di Robert Brasillach – senza alcuna acredine, anzi, con una certa tenerezza – lo scrittore Jean D’Ormesson (classe 1925, vivente), una delle maggiori glorie letterarie della Francia odierna, nonché grandissimo innamorato della cultura e della civiltà italiane, nel suo romanzo «A Dio piacendo» (titolo originale: «Au plaisir de Dieu», Paris, Éditions Gallimard, 1974; traduzione dal francese di Giovanni Bogliolo, Milano, Rizzoli, 1975, p.. 196):

«…Ricordo due o tre casi precisi in cui la confusione delle idee e dei sentimenti così caratteristica del nostro tempo — forse soltanto perché delle altre epoche che non abbiamo conosciuto ci facciamo un’idea molto semplificata — aveva raggiunto le vette della complicazione e del paradosso. Claude e io, per esempio, nutrivamo una specie di culto per un giovane nato una decina d’anni dopo di noi, del quale, credo, ho già avuto occasione di parlare in queste pagine: Robert Brasillach. Brasillach aveva fatto ciò che Claude e io avremmo voluto poter fare: era entrato all’École normale di rue d’Ulm, il cui solo nome ci mandava in estasi. Avevamo conservato qualcosa di quella nozione di élite che ci aveva inculcato il nonno e che avremmo veduto scomparire radicalmente trenta o quarant’anni dopo, verso la fine della mia vita, all’epoca in cui scrivo queste righe. Questa idea d’élite l’avevamo soltanto spostata, immaginando, come sempre avviene, di porci alla sommità di un progresso che pochi anni sarebbero bastati far invecchiare. Ci dicevamo che non c’era altra élite che quella della scienza e della cultura e sognavamo a lungo, leggendo "Les Thibault" [la grandiosa saga di Roger Martin Du Gard, poi Premio Nobel per la Letteratura nel 1937: otto volumi pubblicati fra il 1922 e il 1940] o "Les Hommes de bonne volonté" [l’ancor più vasto ciclo di Jules Romains, in ben 27 volumi, apparso fra il 1932 e il 1947], i tetti dell’École Normale e il suo famoso concorso d’ammissione. Ci eravamo gettati sul "Virgile" di Brasillach, poi sul suo meraviglioso "Corneille", sul suo "Comme le temps passe", di cui ci aveva incantato la notte di Toledo. Non avevamo mai visto Brasillach, ma Pihilippe lo aveva incontrato a Norimberga nel 1937. Quando, in piena occupazione tedesca, uscì "Notre avant-guerre"Philippe trionfò. Il mondo, tutto fatto di cultura classica, e di piaceri raffinati, che il libro dipingeva, era infinitamente più vicino alle nostre preoccupazioni che a quelle di Philippe. Ma Brasillach vi ripercorreva tutte le tappe della sua conversione al fascismo. "Vedete…" diceva Philippe, che allora, lo recinteremo, era già molto cambiato, ma restava fedele ai ricordi della sua giovinezza, "vedete…". Sì, sì, vedevamo… L’intelligenza, il talento, il genio non hanno mai impedito di sbagliarsi. Si direbbe, anzi, che aiutino a immergersi ancor più in tutta la profondità e il cupo splendore dello smarrimento. In Brasillach, l’aspetto più affascinante non era dato dalle sue idee, ma dalla sua allegria, dal suo ardore di vivere, dalla sua giovinezza, che più tardi, quando tutti i suoi sogni sarebbero crollati, gli avrebbe impedito di cercare, come tanti altri, di riparare ai suoi errori.»

Jean D’Ormesson è uno dei pochi scrittori francesi contemporanei che abbia osato violare un tabù, parlando di Robert Brasillach; pure, anche nelle sue parole si avverte un certo imbarazzo, o meglio, una sorta di ambiguità e quasi di sdoppiamento: da un lato, l’ammirazione e la nostalgia per il giovane scrittore geniale, pieno di vita, di entusiasmo, di una eleganza naturale e contagiosa; dall’altro, l’ombra cupa della sua colpa imperdonabile e addirittura innominabile: essersi schierato a favore di Vichy e, peggio, aver creduto nell’Ordine Nuovo perseguito da Hitler e Mussolini.

È abbastanza curioso il fatto che un simile imbarazzo non si percepisca affatto nei confronti di altri intellettuali che presero partito per l’altro dittatore, Stalin, fautore anch’egli di un Nuovo Ordine Mondiale, che, se si fosse instaurato, avrebbe fatto passare giorni terribili all’umanità, come li fece passare ai suoi sfortunati connazionali; parliamo di intellettuali prestigiosi, come i poeti Louis Aragon e Paul Éluard, la cui militanza comunista e filo-sovietica non è stata motivo di scandalo altrettanto profondo di quella filo-fascista di Drieu La Rochelle e di Robert Brasillach. Senza dubbio, ciò ha a che fare con l’orgoglio ferito del nazionalismo francese, umiliato dalla bruciante sconfitta del 1940 ed esacerbato da quattro anni di occupazione militare dell’Asse: se fossero stati quattro anni di occupazione da pare dell’Armata Rossa, probabilmente lo stesso biasimo senza appello sarebbe caduto anche sugli Aragon e sugli Éluard, che, invece, on sono mai stati chiamati a rendere conto a chicchessia delle loro scelte politiche.

Eppure, sospettiamo che non si sia trattato solo di questo, ma anche di una differente valutazione ideologica: scusabile, a quanto pare, è stato essersi illusi a proposito del Nuovo Ordine comunista; inescusabile, aver creduto in quello delle potenze dell’Asse. Si tratta di un retaggio ideologico duro a morire: essere militanti della "gauche" è cosa buona in se stessa, anche se, in pratica, si è trattato di schierarsi a favore di Stalin, delle sue purghe, dei gulag, dei massacri e dei crimini sistematici (come le fosse di Katyn per gli ufficiali polacchi prigionieri), delle deportazioni di massa, delle pulizie etniche (i tatari di Crimea, per esempio), e perfino dell’assassinio dei "compagni" dissidenti (come gli anarchici e i trotzkisti del P.O.U.M. in Spagna, nel 1937); in ogni caso, si può sempre contare su di una tacita forma d’indulgenza da parte dell’intellighenzia, perché, in Francia come altrove — compresa la nostra Italia — tutti i peccati politici sono perdonabili, purché commessi in buona fede, e quelli di sinistra sono sempre peccati in buona fede; gli unici peccati imperdonabili sono quelli di destra.

Logico: la Francia, patria della Grande Rivoluzione, dell’illuminismo e del giacobinismo, ha ormai stabilito un principio indiscutibile: che la cultura è progressista, vale a dire di sinistra; e che la destra non ha una cultura, ma esprime soltanto l’ignoranza o la reazione, cioè la barbarie. E siccome gli intellettuali moderni sono persone che hanno un forte senso di solidarietà reciproca, di tipo quasi massonico (vedi il caso del terrorista Cesare Battisti, per la cui difesa si è scomodata anche la premiére dame di Francia, l’italiana Carla Bruni; senza dimenticare la cosiddetta "dottrina Mitterrand", favorevole all’asilo politico per i brigatisti italiani; oppure vedi il caso Sofri, per la cui innocenza si è mobilitato un imponente partito trasversale, che va da Giuliano Ferrara a Massimo Cacciari), appare cosa del tutto naturale che l’intellighenzia progressista non sia disposta, strutturalmente e logicamente, a condannare se stessa.

Ma torniamo a Brasillach. Il fatto che egli abbia scambiato le SS per le avanguardie di una Europa rinnovata e rigenerata, moralmente sana, ancorata alla identità dello Stato-nazione (per questo era fautore di una Francia alleata, ma non serva, dell’Asse; e per questo scrisse alcuni articoli anti-giudaici, accusando gli ebrei di contaminare, con il loro internazionalismo, l’identità spirituale francese), è cosa che può sorprendere o scandalizzare fin che si vuole, ma che s’inscrive nel quadro culturale e politico del momento e che rappresenta il logico approdo di tutto un filone della destra francese ed europea (così come l’approdo allo stalinismo rappresentò il naturale esito di un ancor più vasto filone della sinistra francese ed europea). Possiamo deprecare che un’intelligenza come la sua abbia preso una cantonata così grossa, tuttavia resta l’interrogativo se sia lecito processare e fucilare un uomo per un errore dell’intelligenza, senza che egli si sia macchiato di alcun crimine o che abbia violato alcun articolo del codice penale. E che ciò sia avvenuto nella patria della moderna democrazia, è cosa che fa ancor più riflettere: se un Brasillach fosse stato fucilato, per analoghe ragioni, nella Spagna di Franco, o, meglio ancora, in una dittatura comunista, ciò avrebbe comunque suscitato critiche e condanne, perfino da parte di non pochi "compagni"; ma è accaduto in Francia, nel clima gioioso della Liberazione (o, almeno, che così viene descritto dai vincitori), quando ormai Parigi era stata sgombrata dagli occupanti e si profilava la fine della guerra.

Il modo in cui si svolsero l’arresto e il processo dovrebbe indurre a riflessioni ancora più serie. Brasillach, che aveva rifiutato di mettersi in salvo dopo lo sbarco alleato in Normandia, e si era nascosto a Parigi, si consegnò alle autorità quando la polizia arrestò la sua vecchia madre, minacciando di vendicarsi su di lei per la mancata cattura del figlio. Durante il processo, poi, egli tenne costantemente un atteggiamento fiero, non mostrando pentimento per le sue scelte, e, anzi, rivendicando la liceità di tutto quanto aveva fatto: un atteggiamento che i giudici reputarono una sfida e che vollero punire con la massima severità. A detta di molti osservatori, Brasillach se la sarebbe cavata con una condanna a una pena detentiva, o forse sarebbe stato condannato a morte e poi graziato, se avesse domandato perdono: invece rimase fermo sulle sue posizioni, e, quando la sentenza fu letta in aula, e una voce dal pubblico gridò che essa era una vergogna, lui, padronissimo di sé, disse a testa alta: «Al contrario; è un onore».

Sì: crediamo che il suo cadavere pesi tuttora sulla memoria di De Gaulle e sulla coscienza della Francia e del sedicente "mondo libero; che i suoi Mani attendano ancora di essere placati…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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