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Ma è proprio vero quello che si dice ancora oggi e si insegna sui banchi di liceo e nelle aule universitarie: che la Prima guerra mondiale è stata uno scontro fra il principio democratico e quello dell’assolutismo?
I più pudibondi ammettono che, sì, nel 1914, non c’era poi tanta differenza ideologica fra il gruppo dell’Intesa e quello delle Potenze centrali: definire "democratico" il primo, quando ne era parte essenziale la Russia zarista, parrebbe eccessivo a chiunque; quanto agli Imperi centrali, il solo fatto che le si designi, tuttora, con una locuzione di tipo geografico, tradisce l’assenza di una chiara connotazione ideologica di ciò che essi rappresentavano. È solo dopo l’entrata un guerra degli Stati Uniti, e dopo la proclamazione dei "Quattordici punti" del presidente Wilson, che la causa degli Alleati diventa la causa della democrazia; tanto più che l’Impero zarista, il più oppressivo e reazionario governo d’Europa, era opportunamente uscito di scena con le due rivoluzioni russe del 1917 e con il successivo trattato di pace di Brest-Litowsk. A quel punto, se si voleva definire in termini ideologici la "crociata" americana in sostegno dell’Intesa, non restava che bollare come "monarchie assolutiste e militariste" la Germania e l’Austria-Ungheria: così fu fatto, e così quella storia viene ancora oggi raccontata dagli storici e dai politologi.
Strano che nessuno, o pochissimi, almeno fino ad anni assai recenti, si sia accorto che tale modello dualista, democrazia e libertà contro assolutismo e militarismo, sia esattamente quello forgiato e tenuto a battesimo dalla propaganda di guerra del 1917-18: circostanza estremamente sospetta, e che avrebbe dovuto mettere almeno una pulce nell’orecchio ai signori del Politicamente (e storiograficamente) corretto: perché sarebbe un caso più unico che raro quello di una formula creata a scopo di propaganda bellica e rivelatasi poi attendibile e oggettiva in sede di giudizio storico a posteriori, tanto da diventare definitiva e inappellabile.
Ed è ancora più strano che la cultura contemporanea, figlia del Sospetto per opera di Marx, Nietzsche e Freud, la quale ha fatto una bandiera del dubbio sistematico, del relativismo, della pluralità dei punti di vista, del rifiuto di qualunque "verità" presentata come certa e definitiva, abbia presa per buona la formula varata da Wilson e dai suoi ammiratori d’Europa e d’America, nel tumulto e nel calor bianco della Prima guerra mondiale: quando la bilancia delle forze in campo pendeva ancora indecisa, i cannoni tedeschi bombardavano Parigi, i loro sottomarini colavano a picco le navi alleate nell’Atlantico e gli Austriaci attaccavano sul Piave per dare il colpo di grazia all’esercito italiano, aprendosi la strada verso la linea del Po.
Prendiamoci, allora, il disturbo di verificare se quella formula abbia realmente una base di verità e se possa davvero fornire una valida interpretazione di quella immensa tragedia collettiva, di quel suicidio di una intera civiltà – la nostra — che fu la guerra del 1914-18: perché solo allora potremo essere sicuri di avere in mano gli strumenti adatti per comprendere anche la Seconda guerra mondiale e i settant’anni di storia contemporanea che sono già trascorsi dal 1945; solo allora potremo dire di essere cittadini coscienti e responsabili del terzo millennio. La cosa è di vitale importanza soprattutto per noi Europei, che fummo i principali attori e le prime vittime di quella grande follia collettiva: solo allora potremo riappropriarci di una parte decisiva della nostra storia, e tornare ad essere cittadini consapevoli dell’Europa, invece che masse disorganizzate disponibili a subire qualsiasi manipolazione ideologica, a digerire qualunque falsificazione, a prendere per buona ogni formula propagandistica che venga ripetuta un certo numero di volte.
Che la contrapposizione fra democrazia e libertà da una parte, assolutismo e militarismo dall’altra, sia eccessiva e semplicistica, per non dire del tutto artificiale e fuorviante, dovrebbe apparire già dalla semplice constatazione che la Germania e l’Austria-Ungheria non erano affatto delle monarchie assolute, ma delle monarchie costituzionali; che Wilhelm II di Hohenzollern e Franz Josef (poi Carl Franz Josef) d’Asburgo non erano affatto dei despoti assoluti, ma dei sovrani costituzionali; e che nei loro stati, nella Germania specialmente, vigeva una legislazione sociale avanzatissima, tale da assicurare ai lavoratori, e specialmente alla classe operaia, un tenore di vita e un quadro di sicurezze previdenziali e pensionistiche, quali non avevano riscontro in alcun altro Paese d’Europa e del mondo, a cominciare dalla Gran Bretagna e dagli stessi Stati Uniti d’America: nei quali – giova ricordarlo – ancora nel 1914 i proprietari delle miniere del Colorado potevano assoldare impunemente delle bande di assassini perché sparassero sui minatori in sciopero e sulle loro famiglie, come testimoniato anche dal giornalista John Reed: quello che è poi passatoi alla storia come "il massacro di Ludlow". Un fatto che sarebbe stato semplicemente inconcepibile nella ordinatissima Germania guglielmina ed anche nella vecchia, paternalistica Austria-Ungheria, dove nemmeno un funzionario statale di infimo ordine avrebbe potuto sognarsi di agire contro i diritti dei cittadini e in aperto dispregio della legge.
Eppure fu proprio questa nazione, una nazione in cui avvenivamo simili cose, alla luce del sole, che pretese di incarnare, meno di tre anni dopo, i "sacri" valori della libertà e della democrazia contro il bieco assolutismo e l’infame militarismo prussiano. Per la cronaca, a Ludlow vennero massacrate ventuno persone inermi, tra cui dodici donne e bambini; alcuni leader dello sciopero vennero sequestrati illegalmente dalle guardie private dei padroni delle miniere nei giorni successi alla strage, e assassinati a sangue freddo: e nessuno fra gli autori di quei crimini, né, tanto meno, fra i mandanti, venne mai perseguito dalla legge.
Ci voleva una bella faccia tosta perché il presidente Woodrow Wilson (anche lui un massone, come quasi tutti i suoi predecessori e successori) vestisse i panni del vindice della libertà mondiale, dei poveri bambini belgi ai quali i soldati tedeschi avevano tagliato le mani, e della povera, piccola Serbia invasa dagli Unni, che — non dimentichiamolo – aveva organizzato l’assassinio a sangue freddo dell’erede al trono austriaco, Franz Ferdinand, insieme alla moglie Sophie, il 28 giugno 1914; ma di faccia tosta doveva averne parecchia, visto che nel 1916, appena un anno prima della dichiarazione di guerra americana agli Imperi centrali, egli era stato rieletto presidente degli Stati Uniti con un programma politico neutralista, e dunque aveva tradito la fiducia di milioni di suoi concittadini, i quali lo avevano votato precisamente perché il loro Paese rimanesse fuori dalla grande carneficina e non s’immischiasse negli affari europei.
Così il noto e bravo giornalista Mario Missiroli (1886-1974), uno dei pochi intellettuali veramente liberi della nostra cultura recente, prendendo spunto da un articolo di Vilfredo Pareto apparso sulla «Rivista di Milano» nel primo dopoguerra – nel quale l’illustre sociologo ed economista criticava senza peli sulla lingua la degenerazione della democrazia — delineava, con ammirevole chiarezza e con la sua abituale, implacabile consequenzialità logica, le due forze spirituali che si erano affrontate sui campi di battaglia d’Europa dal 1914 al 1918 (in: M. Missiroli, «Opinioni», Firenze, La Voce, 1921; Milano, Longanesi, 1956, pp. 216-7):
«La crisi rivoluzionaria, che oggi travaglia il mondo e, particolarmente, i paesi dell’Intesa [ed è, in Italia, la fase del "biennio rosso", 1919-21], nonostante la vittoria militare, non è altro che la logica, fatale conseguenza della propaganda rivoluzionaria, alla quale si abbandonarono per cinque anni i governi, le borghesie, le classi dirigenti, gli stati maggiori dei paesi alleati. Predicare per cinque anni contro il militarismo, il principio monarchico, contro tutte le forme di autorità, promettendo, in pari tempo, la democrazia assoluta, la vita sciolta da ogni vincolo e da ogni freno, significava preparare una situazione anarchica. La causa della Germania era la causa dell’ordine, perché la Germania aveva un piano di ordinamento e di ricostruzione, che, per quanto riguarda l’estero, si può riassumere in questa formula: una più larga partecipazione al dominio coloniale, una maggiore libertà dei mari, un equilibrio continentale fondato su l’accordo delle monarchie. Per la politica interna: prestigio monarchico, autorità del ceto militare (ma non ingerenza politica), la religione riverita, ottima legislazione sociale contro la miseria, ordine pubblico garantito e fucilate ai turbolenti. L’Intesa, al contrario, non possedeva nessun piano positivo per l’instaurazione di un ordine nuovo. Essa mirava unicamente a "conservare": a conservare un dominio, uno stato di fatto antico, contro le forze nuove della storia, che miravano a modificarlo. Che cosa poteva dire ai popoli? Quale parola diffondere tra le moltitudini? Per nascondere il proprio egoismo sordido e crudele, come è sordido e crudele l’egoismo dei vecchi, che sono attaccati ai beni in ragione diretta della loro incapacità a servirsene (la gelosia dei vecchi!); per nascondere la propria abiezione, l’Intesa divulgò un mito, una religione, fece appello ai sentimenti, toccò con mano esperta quelle corde tremende, che risvegliano, nell’anima degli uomini, tutti gli istinti della fede, della bestialità e della follia. La guerra dell’Intesa assunse un corso autonomo, superiore alla stessa volontà dei governi, impotente a fare la pace. La guerra divenne tutt’uno con la volontà popolare. Acquistò i bagliori tragici della guerra civile, gli aspetti cupi di una espiazione per qualche colpa originaria. Si mutò in una crisi di coscienza, che dura all’indomani della vittoria militare e durerà ancora. È appena iniziato il processo eversivo della guerra, la revisione dei suoi risultati provvisori. La propaganda dell’Intesa, mentre ha creato quelle forze morali, che valsero ad assicurarle la vittoria, ha, in pari tempo, generato delle idee-forze, che sono destinate a mandare all’aria i risultati della vittoria medesima.»
Non vi fu uno scontro fra la libertà e la democrazia da un lato, l’assolutismo ed il militarismo dall’altro, quindi: tale formula, assai efficace e di facile presa sul pubblico, creata dalla propaganda di guerra delle nazioni alleate, non trova riscontro nei fatti e non possiede alcuna seria base storica: al contrario, la verità è che, dietro le parole d’ordine della libertà e della democrazia, le nazioni alleate evocarono nell’opinione pubblica mondiale, brandendola come un’arma di nuovo genere, l’idea di una generale "liberazione" di tutti e di ciascuno, contro ogni autentico principio di autorità e contro ogni schema di ordine sociale: cosa che non avrebbe mancato di seminare i suoi micidiali frutti di disordine morale e materiale.
Il vero scopo di guerra delle nazioni alleate, infatti — o, almeno, il vero scopo dei banchieri e dei grandi industriali che vollero la guerra, in Francia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti – era essenzialmente quello di imporre, a livello mondiale, una totale deregulation economica, in confronto alla quale il tradizionale laissez-faire degli anni d’anteguerra sarebbe apparso come uno scherzo da bambini; una deregulation ove il capitalismo di rapina potesse scatenarsi indisturbato e gli speculatori di borsa potessero realizzare i loro giganteschi profitti senza controlli, né fastidi di sorta, sia dal punto di vista giuridico (ad esempio, aggirando, limitando o eliminando la legislazione anti-trust), sia sul fronte dei diritti sindacali dei lavoratori: cosa che puntualmente avvenne, e che sarebbe sfociata nella catastrofica crisi finanziaria di Wall Street dell’ottobre 1929 e nella conseguente Grande Depressione.
I popoli d’Europa e del mondo, con i trattati di pace del 1919, non ricevettero quella libertà e non ampliarono quella democrazia, che erano state loro promesse, se non in superficie e in apparenza: in realtà, venivano già messi a punto i meccanismi — finanziari, produttivi, legislativi e politici – che avrebbero reso possibile uno sfruttamento pressoché illimitato dei lavoratori ed una manipolazione pressoché incontrollata e incontrollabile dell’opinione pubblica, così da ridurre la democrazia ad una facciata e ad una serie di riti esteriori, instaurando in sua vece, di fatto, una spietata ed insaziabile plutocrazia, più affamata della lupa di dantesca memoria. E tutto ciò con la connivenza o con la beata inconsapevolezza degli intellettuali, degli esponenti del mondo della cultura, i quali, per la maggior parte — e tanto per cambiare -, si misero a suonare il piffero per il vincitore, marciando al passo con lui, quando addirittura non si misero a propagandare un Nuovo Ordine Mondiale ancora più spinto, ancora più progressista, ancora più libertario: quello del comunismo e dei campi di concentramento sovietici.
Perciò, se ancor oggi si fa passare per buona la propaganda alleata del 1917, qualcosa non quadra…
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