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Le origini dimenticate e sorprendenti di un certo clericalismo di sinistra

Certo che la storia è un autentico vaso di Pandora e, a chi non si stanca d’interrogarla, essa può offrire delle rivelazioni davvero sorprendenti, che aiutano immensamente a meglio comprendere la realtà presente: altro che revisionismo come parola dispregiativa; la storia deve essere sempre, continuamente, coscientemente revisionista, perché solo rivedendo ogni santo giorno le "verità" di comodo, che la prepotenza ideologica e la pigrizia intellettuale vorrebbe cristallizzare in una Vulgata definitiva e indiscutibile, essa può aiutarci a comprendere meglio il reale, favorendo la nostra ricerca della verità.

Chi lo avrebbe detto, per esempio, stando a quanto c’è scritto sui libri di scuola e viene insegnato dai professori nelle aule universitarie, che le radici del cattolicesimo, anzi, del clericalismo di sinistra – eterna tendenza che oggi sta conquistando l’intero edificio della Chiesa (almeno quella visibile) e sta avviandosi a diventare una componente essenziale del Politicamente corretto, ossia la versione aggiornata e irrigidita, autoritaria e ultimativa, del post-marxismo — siano da individuarsi anche in un luogo e in tempo in cui ben pochi avrebbero pensato di cercarle: nella vecchia monarchia austro-ungarica, verso la fine del XIX secolo?

Tanto per cominciare, ci è sempre stato insegnato che il clericalismo, anticamera dell’integralismo, è una tendenza del cattolicesimo di segno destrorso: poiché rivendica un ruolo centrale, o, comunque, un ruolo di primo piano alla Chiesa nella vita sociale, ebbene esso deve essere una manifestazione di conservatorismo; e il conservatorismo, come tutti sanno, è un atteggiamento di destra. Questo è il primo errore, fondato su di una mezza verità e su una serie di deduzioni banali: in effetti, basta studiare anche superficialmente la storia — quella del Messico a partire dall’indipendenza, per esempio (ove subito troviamo due preti cattolici a capo di due distinte rivolte, Hidalgo e Morelos, rispettivamente nel 1810 e nel 1815) – per accorgersi che il clero non è mai stato indifferente e "neutrale" rispetto ai grandi eventi della modernità. La modernità, infatti, è stata veicolata dalla borghesia di formazione illuminista, deista, massonica e liberale; è abbastanza naturale, pertanto, che la Chiesa si sia difesa puntando su quello che riteneva l’elemento ancora moralmente e spiritualmente sano della società: quello rurale. Appoggiando i contadini contro i proprietari terrieri di origine borghese, la Chiesa si opponeva anche alla linea politica e sociale anti-cristiana (sequestro di proprietà, chiusura di conventi e abbazie, scioglimento di ordini religiosi) e cercava di prevenire, per quanto possibile, gli effetti dirompenti dell’ondata laicista.

D’altra parte, non bisogna dimenticare che lo Stato moderno, tra il XVII e il XVIII secolo, si è definito come tale, anche, e soprattutto, attraverso le lotte giurisdizionaliste contro la Chiesa. Il giuseppinismo, come caso estremo del dispotismo illuminato, è ideologicamente poco meno radicale del giacobinismo e della scristianizzazione perseguita dagli Enragés francesi e prelude, per taluni aspetti, al Kulturkampf bismarckiano e alle leggi anticlericali della Terza Repubblica francese. Per cui il clero, o la parte di esso più sensibile alle questioni sociali, nel passaggio dal XIX al XX secolo, si è trovata impegnata, contemporaneamente, contro lo Stato laicista, cercando il sostegno del mondo rurale, ma anche, in alcuni casi, alleata dello Stato conservatore e paternalista, sempre sollecitando l’appoggio dei contadini, ma, in questo caso, contro la borghesia liberale.

Ebbene: nella vecchia Austria di Francesco Giuseppe, minata dai latenti conflitti di nazionalità, esistevano anche forti tensioni sociali fra il mondo rurale, ancora, in buona parte, pre-moderno (si pensi alla nobiltà terriera ungherese e a quanto poco i suoi valori e il suo stile di vita fossero compatibili con i modi di produzione del capitalismo avanzato), e il mondo urbano, industriale, dominato da una borghesia imprenditoriale, commerciale e finanziaria, che già aspirava a mettersi al passo con il mondo moderno. È chiaro che il governo asburgico, fondato su un principio dinastico ormai vacillante (e che infatti non sarebbe durato senza il compromesso austro-magiaro del 1867), e sempre più indebolito dall’affermarsi del principio di nazionalità, cercava il sostegno là dove poteva trovarlo: un po’ come i Borboni di Napoli al tempo della invasione francese e della Repubblica partenopea del 1799, la vecchia Austria di fine Ottocento si appoggiò in misura crescente sull’elemento contadino in funzione anti-cittadina e anti-borghese. Se, poi, l’elemento rurale coincideva con una nazionalità "debole" rispetto ad una più forte, se coincideva, cioè, con la classe dei salariati rurali e dei fittavoli contrapposta a quella dei proprietari terrieri, tanto meglio: ciò avrebbe consentito di prendere due piccioni con una sola fava.

Ed ecco, allora, il governo asburgico, per il tramite dei suoi governatori e amministratori locali, favorire smaccatamente i contadini ruteni (ucraini) contro i proprietari terrieri polacchi, in Galizia; favorire, altrettanto sfacciatamente, i contadini croati e sloveni contro i proprietari terrieri italiani e i commercianti urbani italiani, nel Küstenland (quella regione che Isaia Graziadio Ascoli avrebbe poi denominato Venezia Giulia). Questo, almeno, è quanto avveniva nella Cisleithania, ossia nella parte tedesca della Duplice monarchia; nella Transleithania, ossia nella parte magiara, le cose andavano ben diversamente, perché le autorità ungheresi non si facevano alcuno scrupolo di interpretare, alla lettera, il ruolo del gendarme dei latifondisti ungheresi contro le rivendicazioni dei contadini slovacchi, croati e romeni. La politica filo-rurale austriaca aveva già dato buoni frutti nel 1846, quando era servita a mettere l’elemento contadino contro la borghesia polacca di Cracovia, la repubblica che venne annessa all’Impero asburgico dopo una sommossa agraria scatenata a bella posta; e aveva dato risultati discreti, anche se non risolutivi, nel Lombardo-Veneto, durante la guerra del 1848-49 e la Repubblica veneziana di Daniele Manin. In ogni caso, era una carta che era valsa la pena di giocare, in mancanza di meglio: come nel caso del Regno delle Due Sicilia al tempo dei vari tentativi insurrezionali mazziniani (da quello dei fratelli Bandiera a quello di Carlo Pisacane), si trattava di approfondire la diffidenza istintiva, se non la vera e propria ostilità, che separava il mondo rurale, cattolico, conservatore e lealista, dai leader democratici come Carlo Cattaneo, o, appunto, Mazzini e Manin.

Nel caso del Litorale adriatico, di Fiume (città ungherese) e della Dalmazia, la cosa era complicata — o, secondo i punti di vista, semplificata — dal fatto che la borghesia urbana e la proprietà terriera erano italiane, mentre le masse contadine erano slovene o croate, per cui le rivendicazioni sociali dei salariati agricoli si sovrapponevano alla contrapposizione etnica che, dopo la caduta della Repubblica Serenissima nel 1797, aveva costituito l’aspetto più vistoso della vita interna di quelle province. Logico, dunque, che l’Austria favorisse l’elemento slavo a danno di quello italiano, sia a Trieste, a Pola, a Zara, a Sebenico, a Spalato, sia nelle campagne: tanto più che mentre l’elemento italiano era già politicamente e socialmente abbastanza sviluppato da poter divenire temibile sul piano delle rivendicazioni nazionali, quello slavo era tuttora estremamente arretrato, anche sul piano della semplice istruzione e alfabetizzazione. Né si dimentichi che Croati e Sloveni erano, e sono, due piccoli popoli, che non avevano, all’epoca, alcuno Stato più grande cui fare riferimento (l’idea di una grande Serbia, o Jugoslavia, sarebbe nata solo molto più tardi, durante la Prima guerra mondiale), mentre l’elemento italiano del Küstenland, più ricco e più istruito, aveva dietro le spalle, almeno potenzialmente, più di trenta milioni di connazionali del Regno d’Italia.

E qui si intrecciano gli interessi della monarchia asburgica con quelli della Chiesa e del clero cattolico. Il Regno d’Italia era sorto da un disegno massonico e anticlericale; le sue prime leggi — anzi, ancora al tempo del Piemonte di Cavour: le leggi Siccardi — erano state di segno pesantemente anticlericale; la borghesia italiana, sia in Italia che nelle regioni "irredente" (vocabolo che allora emetteva i primi vagiti), era perlopiù liberale, massonica, anticlericale. Pertanto era interesse anche del clero, non solo del governo austriaco, fare blocco comune in funzione anti-italiana: del clero croato e sloveno, naturalmente, il quale, con la tacita approvazione delle pubbliche autorità, si fece interprete di un sentimento nazionalistico tutto giocato in chiave anti-italiana (e, curiosamente, legittimistico e filo-austriaco). Insomma: i preti croati e sloveni, in chiesa, incitavano i contadini loro connazionali a non pagare l’affitto ai loro padroni italiani, a non pagare le merci italiane acquistate nelle città, a considerare come illegittima e irreligiosa la stessa presenza italiana in quelle regioni (benché fosse antica quanto e più di quella slava: visto che i veneziani erano presenti in Istria e in Dalmazia fin dal X secolo, mentre Croati e Sloveni ci arrivarono quasi contemporaneamente, certo non prima, provenienti dall’interno).

Ha scritto lo storico Franco Catalano nel suo saggio «Una travagliatissima storia» (in: «La Jugoslavia oggi», Milano, Quaderni dell’Osservatore, 1969, pp. 38-40):

«L’irredentismo, tuttavia, rimaneva pur sempre espressione delle classi borghesi, anche se della piccola e media borghesia, il che consentì all’Austria di correre ai ripari agendo sul’elemento slavo per contrapporlo all’italiano. Incominciò, così, a suscitare, anche con l’aiuto del clero slavo, una vera e propria lotta di classe nelle campagne slave, incitando i contadini a ribellarsi alle città e ai proprietari italiani. Un giornale triestino, l’"Eco dell’Alpe Giulia" [n. 5, gennaio 1886], ci ha lasciato frequenti testimonianze di questa lotta:  "Intanto – scriveva nel 1886 nel 1886 – dal pulpito si predica contro i proprietari e si aizza il contadino a non pagare agli usurpatori. E il governo lascia fare e se ne sta impassibile, ammanettando però, con premura tutta sua poliziesca, qualunque italiano osi lagnarsi.". Ed ancora, due anni dopo, ritornava sull’argomento [n. 19, giugno 1888]: "Imperocché – e qui conviene dire tutta la verità, per quanto la medesima riescire incresciosa) l’elemento slavo ha preso un atteggiamento ostile e minaccioso contro i nazionali italiani da quando si è permesso che i preti della campagna predichino impunemente dal pergamo e dalle piazze l’avversione e l’odio dei contadini slavi contro gli italiani, qualificando questi ultimi pubblicamente per usurpatori, briganti, ladroni, usurai e peggio ancora; da quando si è permesso che in pubbliche adunanze all’aperto ed al cospetto dello stesso commissario governativo, i capi del partito slavo, gente straniera, manifestino impunemente idee di sprezzo e di pretto e volgare comunismo a danno dei nazionali italiani [….], insomma si è lasciato che la forza bruta del popolo slavo, irrompa senza ritegno contro i pacifici cittadini italiani[…]; il contadino slavo viene allettato a ribellarsi contro i suoi confratelli italiani, unicamente nella speranza, fattagli balenare, di arricchirsi un giorno con le spoglie dei "signori"; di idee politiche gli slavi quivi nemmeno sognano  e molto meno comprendono".

Queste affermazioni, tratte da un memoriale della Società politica istriana rivolto al governo austriaco, si prestano a diverse considerazioni: anzitutto, l’appoggio dato dai funzionari slavi e, di conseguenza dal governo alla lotta dei contadini slavi contro gli italiani, lotta che assumeva un primitivo aspetto sociale e che non aveva ancora un significato politico, come era messo in rilevo nel memoriale.

L’Austria, d’altronde, ben conosceva simili metodi per averli sperimentati con un certo successo, fra il 1846 e il ’48-’49, in Lombardia, quando pure si sforzò di spingere i contadini contro la borghesia terriera per distoglierla dalla rivoluzione nazionale. Ed anche il clero conosceva tali metodi, poiché di fronte all’abbattimento del potere temporale, non rifuggì dall’assumere la difesa delle classi povere – e soprattutto dei contadini – allo scopo di opporle alla borghesia liberale e voltairiana, spaventando quest’ultima per costringerla, così, a rinunciare al suo programma sovvertitore nei confronti della Chiesa.  Un’ultima osservazione viene suggerita da questo memoriale, osservazione che riguarda l’inizio della propaganda dell’Austria e del clero, che è dato come relativamente recente; il che conferma che esso fu favorito dalla battaglia irredentistica e dalla situazione di profondo contrasto fra la Chiesa e lo Stato italiano.»

Una tendenza di sinistra, populista, "socialista", è sempre esistita nel pensiero sociale cattolico, retaggio di una lettura del Vangelo in chiave politico-sociale piuttosto che religiosa. Ma fu con la complice benevolenza delle autorità asburgiche che il clero slavo incitò i contadini istriani e dalmati contro i "padroni" italiani. La lotta di classe intrecciata al nazionalismo xenofobo: e il piatto è servito. Deve essere stata una bella soddisfazione, per quei parroci e quei cappellani, poter stabilire un legame di solidarietà con i loro parrocchiani e compatrioti, e nello stesso tempo vibrare come un’arma i loro sermoni anti-italiani: non succede tutti i giorni di potersi ergere a vindici della giustizia sociale, sapendo, intanto, di avere le spalle coperte dal governo, e di non dover correre alcun rischio, anzi, di poter contare sul tacito sostegno delle pubbliche autorità.

Assumere il ruolo degli agitatori sociali, ma con la benedizione e l’approvazione di Dio, è sempre stata una tentazione per una parte del clero, e lo è tuttora: non si dimentichi che la cultura rivoluzionaria moderne viene, in buona parte, dall’educazione ecclesiastica. Talleyrand era un ex abate, come Stalin era un ex seminarista; Renato Curcio era un ex cattolico (nonché ex simpatizzante del nazionalsocialismo di Jean Thiriart), così come Marco Boato, prima di passare a Democrazia Proletaria e al Partito Radicale, fu tra i promotori del movimento Cristiani per il socialismo. L’elenco potrebbe continuare a lungo. Quel che vogliamo dire è che esiste, da sempre, nella cultura cattolica, una forte tendenza rivoluzionaria e di sinistra; e non è poi così strano che anche dei sacerdoti ne abbiano sentito il fascino, se così vogliamo chiamarlo: il caso estremo è quello di Camilo Torres, in Colombia; ma c’è anche quello del poeta-ministro Ernesto Cardenal, nel Nicaragua sandinista. Né si dimentichi che, al suo primo affacciarsi sulla scena sociale, il movimento cattolico italiano ebbe un leader significativo in un prete di tendenza modernista, don Romolo Murri, che poi venne fermato dalla Curia; ma anche il fondatore del Partito Popolare, don Luigi Sturzo, non era certo un simpatizzante della destra.

Nel caso dell’Italia di fine Ottocento, ma anche in quello della Francia radicale e massonica e della Germania bismarckiana, lo Stato si presentava con forti tratti anti-religiosi e anti-cattolici; il che non toglie che il clero "politicizzato", o connotato in senso fortemente sociale, fosse disponibile anche a una collaborazione indiretta con le autorità statali, se ciò poteva rientrare in una strategia di contrasto delle forze liberali e massoniche, come avvenne, appunto, nel caso dell’Austria, la quale, bene o male, appariva ormai come l’ultima vera potenza cattolica, in Europa e nel mondo. I preti sloveni e croati potevano benissimo vedere nell’Austria uno scudo contro le tendenze irreligiose e materialistiche della borghesia "progressista" e, più in generale, del mondo moderno; e questo, in una certa misura, era anche lo stato d’animo di una parte dello stesso clero italiano (sia in Italia che nel Küstenland), che guardava al Regno d’Italia come al nemico dei diritti del papa e della Chiesa.

Da parte del governo austriaco, la politica di servirsi delle masse contadine slave, e specialmente del clero locale, contro le nazioni più evolute, e quindi più pericolose per l’unità dell’Impero, come l’italiana o la polacca (la seconda meno della prima), rientrava nella sua più generale, e tradizionale, strategia del "divide et impera": alla lunga, però, si sarebbe rivelata un grave errore. Aver favorito la politicizzazione del clero, e sia pure in funzione anti-irredentistica, apriva la strada ad un uso improprio del pulpito e dell’autorità sacerdotale, che poteva creare più problemi sociali di quanti, sul momento, pareva suscettibile di risolverne. Un prete di campagna che si crede onnipotente, in quanto voce di Dio sulla terra, e che sa di essere spalleggiato dal giudice e dal commissario di polizia, può essere spinto a perdere la testa e ad investirsi della parte dell’agitatore rivoluzionario, con la scusa di predicare il Vangelo, fino ad esiti imprevedibili.

In un certo senso, questa politica del governo austriaco fu tanto machiavellica e, in ultima analisi, tanto poco saggia, quanto quella – se ci è consentito il paragone — che adottarono le massime autorità politico-militari germaniche, durante la Prima guerra mondiale, allorché decisero di giocare la carta Lenin e di rimpatriare il rivoluzionario bolscevico dal suo esilio in Svizzera, sostenendolo anche finanziariamente perché facesse la sua rivoluzione e, poi, dopo aver preso il potere in Russia, firmasse la pace con le Potenze centrali, consentendo allo Stato Maggiore tedesco di trasferire in Occidente un milione di soldati dislocati sul fronte orientale. Lenin fece tutto come previsto, ma la Germania non vinse la guerra e, per giunta, fu investita dai bacilli rivoluzionari che ella stessa aveva contribuito a scatenare. Allo stesso modo, l’Austria, favorendo la politicizzazione del clero slavo contro l’elemento italiano, guadagnò un vantaggio temporaneo, ma poi lo perse nel 1918, quando l’Impero si disgregò e quello stesso clero non mosse un dito in sua difesa, perché ormai acquisito alla causa del nazionalismo slavo. C’è una lezione, in tutto questo: chi di machiavellismo ferisce…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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