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Il Leviatano è, per Hobbes, il Dio mortale cui siamo debitori della nostra pace e sicurezza

Che altro è lo Stato, per Hobbes, se non un Dio mortale, al quale tutti devono ciecamente obbedire, se non vogliono piombare nel caos di una libertà senza legge, nella quale ciascuno, volendo prevalere sul proprio simile, finirebbe per trovare la sua stessa distruzione?

Scrive, infatti, Hobbes nel «Leviatano» (traduzione di R. Giammanco, Torino, Utet, 1955):

«Il solo modo per dar vita alla costituzione di un potere comune capace di difendere gli uomini dalla invasione degli altri popoli e dalle reciproche ingiurie, ed insomma di garantire la loro sicurezza in modo che con la propria attività e con i prodotti della terra essi possano nutrirsi e vivere comodamente, consiste nell’investire di tutto il proprio potere e di tutta la propria forza un uomo od una assemblea di uomini che sia in grado di ridurre tutte le varie opinioni, per mezzo della pluralità dei voti, ad una sola volontà; il che è come dire di dare incarico ad un uomo o ad una assemblea di uomini di rappresentare la persona dei singoli cittadini e di riconoscersi, ciascuno per quanto riguarda se stesso, come l’autore di qualsiasi cosa che colui che è stato eletto a rappresentarli farà o farà in modo che venga fatta in quelle cose che concernono la pace e la sicurezza comune, ed in questo, ridurre le proprie volontà ciascuno alla volontà di lui, ed i loro giudizi al giudizio di esso. Ciò è più di un consenso o di un accordo; è una concreta unità di tutti i componenti dello stato in una sola e medesima persona, resa possibile da un patto di ciascuno con l’altro, come se uno di essi dicesse all’altro: "Do autorizzazione e trasferisco il mio diritto di governare me stesso a questo uomo od a questa assemblea di uomini, a condizione che anche tu ceda il tuo diritto a lui e nello stesso modo ne autorizzi tutte le azioni". Quando si è fatto ciò, la moltitudine così unita in una sola persona è chiamata uno stato, in latino "Civitas". Questa è la fondazione di quel rande Leviatano o piuttosto, per parlare con più reverenza, di quel Dio mortale a cui, al disotto del Dio immortale, noi siamo debitori della nostra pace e difesa. […]

Le prerogative della sovranità sono: promulgare le leggi e abrogarle; deliberare la guerra e la pace, dirimere tutte le controversie, o direttamente, o per mezzo di giudici appositamente eletti; eleggere tutti i magistrati, i ministri, i consiglieri. Infine, se v’è qualcuno che può legittimamente fare anche una sola azione, che a nessun altro cittadino o gruppo di cittadini sia lecita all’infuori di lui, questo è colui che ha ottenuto la sovranità dello Stato. Solo lo Stato può fare quel che un cittadino o un gruppo di cittadini non ha il diritto di fare. Chi agisce in questo modo si vale del diritto dello Stato, cioè della sovranità […].

Ma, pur essendo il potere sovrano costituito in virtù dei patti stipulati dai singoli individui tra loro, non dipenda soltanto da questa obbligazione reciproca dei cittadini. Vi si aggiunge l’obbligo assunto dal cittadino verso chi detiene il potere sovrano. Infatti, ogni cittadino, stipulando il patto con ciascuno degli altri, dice: "Io trasferisco il mio diritto a questa persona alla condizione che tu pure lo trasferisca alla stessa persona". Con le quali parole si vuol significare che il diritto che ognuno aveva di usare le proprie forze a proprio vantaggio è stato trasferito totalmente in una persona o in u’assemblea a vantaggio della comunità. Così, siccome sono intercorsi, da un lato, i patti coi quali i singoli si sono reciprocamente vincolati, dall’altro è intervenuta pure una donazione di diritti in favore del sovrano da parte dei cittadini che sono obbligati a rispettarla, ne viene che il potere sovrano si appoggia sopra una duplice obbligazione da parte dei cittadini, l’una nei confronti dei loro concittadini, l’altra nei confronti del sovrano. Perciò i cittadini, qualunque sia il loro numero, non possono legittimamente destituire dal potere il sovrano senza il suo consenso […].

Prima di tutto compariamo in generale i vantaggi e gli svantaggi della vita collettiva, perché nessuno possa pensare che sia meglio vivere ciascuno a proprio arbitrio piuttosto che costituire uno Stato. All’infuori dello Stato, ciascuno ha una libertà completa ma inutile, poiché chi ha tutto quel che vuole in forza della propria libertà, deve pur sopportare ogni cosa da parte degli altri, che a causa della loro libertà fanno anch’essi quello che vogliono. Invece, quando si è costituito uno Stato, ciascuno dei cittadini conserva quel tanto di libertà che basta a vivere bene e tranquillamente, mentre agli altri ne vien tolta in misura da renderli non più temibili. Al di fuori dello Stato si può venir depredati o uccisi da chiunque; nello Stato, da una sola persona. Fuori dello Stato, siamo protetti solo dalle nostre forze; nello Stato, da quelle di tutti. Fuori dello Stato, nessuno è sicuro dei frutti della sua attività; nello Stato, tutti lo sono. Infine, fuori dello Stato, è il dominio delle passioni, la guerra, la paura, la povertà, l’incuria, l’isolamento, la barbarie, l’ignoranza, la bestialità. Nello Stato, è il dominio della ragione, la pace, la sicurezza, la ricchezza, la decenza, la socievolezza, la raffinatezza, la scienza, la benevolenza.»

Quello di Hobbes, dunque, è una sorta di paganesimo statalista: una concezione secondo la quale tutto è nello Stato, nulla è fuori dello Stato e, soprattutto, niente e nessuno hanno il benché minimo diritto di criticare lo Stato, di metterne in discussione l’autorità ed i rappresentanti, di ritagliarsi il benché minimo spazio di autonomia rispetto ad esso. Nei suoi confronti, non sono ammesse distanze, né alcuna forma di autonomia: o si è con lui, o contro di lui; o gli si obbedisce ciecamente, o ci si ribella; o gli si delega tutta intera la propria sovranità, o si viene trattati da sediziosi e da felloni. Di più: bisogna rendergli omaggio; bisogna, quasi, adorarlo: è un Dio mortale, un Dio in terra, senza del quale non si potrebbe vivere; ma esso non ha bisogno degli uomini più di quanto il formicaio abbia bisogno della singola formica. Come la singola formica è irrilevante, così lo è il singolo membro dello Stato: quello che conta è che lo Stato sia obbedito pienamente e ciecamente, che ci si sottometta senza restrizioni e senza riserve mentali alla sua volontà, vale a dire alla volontà del monarca assoluto o da chiunque altro eserciti il potere.

L’unica cosa che si domanda al singolo individuo è di farsi docile esecutore di ciò che lo Stato stabilisce nei suoi confronti. È ben vero che lo Stato nasce proprio da una volontà, da un preciso accordo fra gli uomini; ma poi, una volta pattuito tale accordo, che consiste precisamente nella rinuncia piena e incondizionata di ogni diritto individuale a favore del diritto statale, non vi è più niente da fare o da dire: nato da una esigenza utilitaristica dei singoli membri della società, lo stato incomincia immediatamente a vivere di vita propria, a porsi come un Dio nei loro confronti, a esigere la più totale sottomissione.

È interessante osservare una chiara analogia con l’antropologia del cristianesimo: l’uomo è inclinato al male — homo homini lupus -, è portato alla guerra di tutti contro ciascuno e di ciascuno contro tutti (per il cristianesimo, quale conseguenza del Peccato originale); pertanto, lasciato a se stesso, si autodistruggerebbe: la necessità di creare lo Stato e di delegargli tutto il potere, senza residui, nasce da qui, da questo pessimismo antropologico. Tuttavia, il cristianesimo ha ben chiara la distinzione fra il piano dell’Assoluto — quello della Civitas Dei — e il piano del relativo — quello della Civitas hominum -, e non pretende affatto di equiparare il secondo al primo, né, tanto meno, di deificare la Città terrena con lo scopo di spacciarla per il fine ultimo della creazione, ma si limita a considerarla un mero strumento per realizzare, in maniera temporanea e imperfetta, quella giustizia che troverà la sua piena realizzazione solo nella dimensione dell’Assoluto.

Hobbes, al contrario, mescola i due piani e fa dello Stato un Dio mortale, per la buona ragione che, nella sua filosofia, non c’è posto per la trascendenza e che tutto quel che l’uomo può e deve aspettarsi dagli altri uomini, è la ragionevolezza, intesa in senso puramente ed esclusivamente immanentistico. Ecco, allora, che lo Stato-Leviatano altro non è, né potrebbe essere, che la versione laica e secolarizzata della agostiniana Civitas Dei; e, come facevano gli imperatori pagani del tardo Impero Romano, esige di essere obbedito e adorato, perché solo da esso gli uomini, cattivi come sono, possono sperare la salvezza: vale a dire, possono sperare di non uccidersi selvaggiamente fra di loro, di non derubarsi, di non calunniarsi, di non precipitare nella più squallida miseria, di non regredire nell’ignoranza e nella superstizione (Hobbes, infatti, è un super-razionalista, vero precursore dei philosophes illuministi) e di non morire di fame. Di più: per Hobbes, è la paura della morte che, in ultima analisi, crea il patto sociale e getta le basi dello Stato: il che mostra, in maniera ancora più evidente, il sottinteso metafisico della concezione politica hobbesiana, quasi che lo Stato offra la sola protezione possibile contro lo spettro della morte.

Se non che, quello che giustifica e umanizza la visione cristiana della politica è proprio l’idea della perfettibilità dell’uomo e l’idea, ad essa speculare, che, per supplire alla sua fragilità, egli può e deve rivolgersi al Dio d’amore che, solo, è in grado di rispondere alle sue domande, di soccorrere le sue debolezze, di aiutarlo a difendersi dai suoi cattivi istinti: idea nella quale è implicito il senso del limite da parte di chi esercita il potere, perché il vero e unico signore universale è sempre e solamente Dio, e qualunque potere terreno è legittimo e meritevole di fiducia e obbedienza solo a condizione di rispettare questa superiore sovranità ultraterrena, riconoscendo, con ciò stesso, di non essere assoluto e, dunque, di non avere nemmeno il diritto di farsi dispotico. Nella concezione cristiana, tutti i poteri costituiti non sono che strumenti al servizio di una teocrazia ideale: il vero sovrano è Dio e gli stati, i re, i governi, sono semplicemente delegati a farne le veci. Perciò lo Stato non rappresenta un valore assoluto e non può aspirare ad essere adorato come un Dio mortale: l’idea stessa è blasfema e, da un punto di vista cristiano, assolutamente infondata.

In Hobbes, che ragiona come se Dio non esercitasse il benché minimo ruolo nella storia umana, cioè come se la Provvidenza non esistesse, non vi è alcun limite alla pretesa dello Stato di essere accettato come il padrone universale di tutto ciò che esiste sotto il sole: l’unica condizione essendo che ciascun cittadino si spogli, come fanno tutti gli altri, della propria libertà personale, per rimetterla con fiducia assoluta nelle mani del sovrano. Quel che ne consegue è una statolatria radicale e totalitaria, nella quale la condizione iniziale che vide la nascita dello Stato — il patto originario fra gli esseri umani, federati per la comune difesa della vita, della libertà e dei beni di ciascuno — viene ben presto a rovesciarsi completamente: il singolo essere umano non ha il "diritto" di esistere fuori dello Stato, perché fuori dello Stato non vi sono che i nemici dichiarati dell’ordine e della legge, i nemici irriducibili del bene comune, che non devono essere considerati come dei semplici dissenzienti, ma come dei traditori nei confronti di ciò che di umano vi è nella natura umana. Insomma, delle belve feroci, meritevoli soltanto di venire abbattute, così come si uccidono i lupi che minacciano il gregge: la loro soppressione si riduce ad una operazione di polizia, anzi, a qualcosa di più (o di meno, secondo i punti di vista): perché, come il lupo è estraneo alla natura umana, ed eliminarlo è un bene in se stesso, un analogo ragionamento vale nei confronti di quanti disobbedissero alle leggi dello Stato: si son posti da sé al di fuori del consorzio civile, sono regrediti alla condizione della barbarie primitiva e, dunque, non meritano alcuna pietà o sentimentalismo, così come sarebbe assurdo, per il cacciatore, avere pietà del lupo che minaccia il gregge.

In cima a questa statolatria vi è la figura del sovrano: colui che è al vertice della piramide e non è sottoposto ad alcuna legge, perché egli stesso rappresenta la legge; e che nessuno può contestare, mentre la sua volontà deve imporsi a chiunque. Esattamente all’opposto di Locke, che arriverà a teorizzare il diritto di resistenza dei cittadini nei confronti di un potere che si riveli ingiusto e tirannico, Hobbes non può nemmeno concepire una situazione del genere, perché, secondo lui, essendo nato dal patto sociale, lo stato, per sua natura, non potrà mai tradirlo: solo in esso il cittadino troverà la pace, l’ordine e il benessere; fuori di esso, la guerra, il disordine e la miseria. Ne consegue che nessuno può chiedere al sovrano di lasciare il potere: solo lui stesso può decidere di farlo, di sua spontanea volontà, e non perché i cittadini osino pretenderlo. Per mantenere l’ordine e la pace, il sovrano non deve accordare la preferenza a nessun culto religioso: Hobbes è non solo il teorico dell’assolutismo, ma anche del laicismo. Logico: se lo Stato è un Dio mortale, bisogna che il Dio immortale sia relegato in interiore homine, dov’è meno visibile: sarebbe un concorrente scomodo e maledettamene ingombrante. Potrebbe rammentare agli uomini che esiste un solo Dio…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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