
Vivere con fede significa affidare a Dio il timone della propria navicella
20 Ottobre 2015
Il movimento cluniacense donò alla Chiesa e all’Europa una seconda giovinezza
20 Ottobre 2015Il paragone non è mai stato fatto in maniera esplicita, almeno che noi sappiamo, però è sempre stato sottinteso: una di quelle cose che non si dicono a voce alta, non perché sono ritenute indicibili, ma perché appaiono talmente scontate, da non aver bisogno di essere sottolineate. Il paragone di cui parliamo è quello, latente nella cultura politica degli anni Sessanta, fra Ernesto "Che" Guevara e Gesù Cristo: fra il "buon" rivoluzionario (come lo definirebbe il sociologo venezuelano Carlos Rangel) e il "buon" maestro (come lo aveva definito un apostolo ritiratosi all’ultimo momento: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?», Marco, 10, 17); ed era, semmai, a favore del primo. I ragazzi di quell’epoca non tenevano in camera da letto il Crocifisso (o, se ce lo tenevano, era perché lo avevano trovato lì, messo dalla mamma), ma il ritratto del "Che": bello, sorridente, virile, con il leggendario sigaro in bocca, idolo intramontabile di una intera generazione.
Sì, intramontabile: perché sono ancora legione i sessantottini impenitenti che seguitano a coltivarne il culto, con le caratteristiche di una vera e propria religione laica: è come se il "Che" non fosse mai morto, ma fosse assurto direttamente al Cielo, il Cielo della leggenda marxista: la quale, essendo — essa pure – assai dura a morire, consente questa ed altre aberranti mistificazioni.
La prima mistificazione, infatti, è quella che vede il "Che" come un intrepido e disinteressato combattente della libertà: perché, quando decise di andare in Bolivia, nel 1967, per impiantarvi la guerriglia (non si è mai capito se per restarvi o per poi passare nel Perù, paese dalle più promettenti prospettive marxiste, o per sconfinare in Argentina, patria del "Che", e appiccare colà il fuoco dell’insurrezione), egli aveva svolto, per alcuni anni, un ruolo centrale nella instaurazione del regime dittatoriale a Cuba, secondo solo a quello di Fidel Castro. Ernesto Guevara, dunque, non era affatto quel rivoluzionario puro e senza macchia, che la leggenda ha creato post eventum: è un uomo che ha avuto pesanti responsabilità nella repressione poliziesca che è costata la vita o la prigione a migliaia di cittadini cubani, e non solo ai simpatizzanti del caduto dittatore Batista, ma anche ai rivoluzionari non "allineati" sulle posizioni castriste e filo-sovietiche, marxiste e liberticide che il regime volle imporre dopo la presa del potere, nel 1959.
A tutti i suoi fans e i suoi adoratori e nostalgici, bisognerebbe ricordare che è sua responsabilità la creazione del primo campo di concentramento sull’isola di Cuba, dopo l’avvento del regime castrista, circostanza confermata anche dal filosofo francese Régis Debray, che fu "compagno di strada" dei rivoluzionari cubani e che cercò di seguire il "Che" fino in Bolivia, venendo infine catturato dall’esercito boliviano; che ebbe un ruolo decisivo nei processi tenutisi a La Cabana, al tempo delle grandi fucilazioni; e che, come documentato dallo scrittore peruviano Álvaro Vargas Llosa, nonché da «Il libro nero del comunismo», curato dallo storico francese Stéphane Courtois, non solo fece giustiziare e rinchiudere in campo di concentramento centinaia, e forse migliaia, di persone, ma teorizzò l’uso estremo della violenza, dichiarando pubblicamente che bisognava assumere non solo il concetto della lotta di classe, ma l’odio intransigente come fattore di lotta, e far sentire il nemico come «una belva braccata»: affermazioni, del resto, perfettamente in linea con tutta la tradizione marxista-leninista, maoista, castrista, e delle quali soltanto un ipocrita o un perfetto babbeo si potrebbe mostrare sorpreso o meravigliato.
Però i tempi erano quelli: tempi di ubriacatura marxista, nei quali, in ogni città e università d’Europa (e non solo), sorgevano "collettivi", "comitati", "gruppi insurrezionali" e via farneticando: si aspettava la fine del mostro capitalista da un giorno all’altro, e il "Che" sembrava proprio il San Giorgio venuto a trafiggerlo, armato e rivestito della purezza della sua fede. Un po’ San Giorgio e un po’ Gesù Cristo, dunque: un eroe senza macchia (si fa per dire) e senza paura, araldo di un mondo nuovo e più pulito, finalmente liberato dalla piovra della borghesia internazionale; un eroe con forti connotazioni religiose e para-cattoliche. Non aveva forse, in quegli anni, imbracciato il mitra e preso la via delle montagne, per entrare nella guerriglia del suo Paese contro il governo al potere, il prete colombiano Camilo Torres, anche lui rimasto ucciso sul campo al primo scontro, anche lui giovane, bello, intelligente, puro e ammiratissimo dalle donne? E non furoreggiava, a partire da quegli anni, in tutta l’America Latina, la teologia della liberazione, che, partendo da una giusta critica alle sperequazioni sociali e all’egoismo delle classi dominanti, finiva per confondere religione e ideologia politica in un unico calderone, nel quale non si capiva più — e non si capisce tuttora — se si stia parlando di Dio o della lotta di classe? E il poeta peruviano Alejandro Romualdo, non aveva forse paragonato la passione di Cristo al supplizio inflitto dagli Spagnoli, nel XVIII secolo, al rivoluzionario Tupac Amaru II, squartato sulla pubblica piazza e poi, secondo i versi di Romulado, risorto al terzo giorno?
A tutto questo si aggiunga la impressionante somiglianza che si può cogliere tra le fotografie del cadavere del "Che", steso su una branda e con gli occhi ancora aperti, e il famoso quadro di Andrea Mantegna «Deposizione di Cristo morto»: stessa postura del corpo, stesso aspetto del volto, stessa prospettiva dell’osservatore (un caso, o una scelta intenzionale da parte dei fotografi?), e l’analogia fra Guevara e Gesù Cristo sarà completa. Entrambi caduti per amore del popolo, entrambi vittime dell’egoismo degli sfruttatori: insomma, compagni e fratelli ideali di lotta.
Osserva, dunque, nella sua grossa biografia su Ernesto "Che" Guevara, lo scrittore messicano di origine spagnola Paco Ignacio Taibo II (da: «Senza perdere la tenerezza. Vita e morte di Ernesto Che Guevara»; titolo originale: «Ernesto Guevara también conocido como El Che», 1996; traduzione di Gina Maneri e Sandro Ossola, Milano, Il Saggiatore, 1997, pp. 567-568):
«Dove trova il Che le energie necessarie per tutto ciò [ossia per tornare, dall’Africa, e passando per la Cecoslovacchia, in un Paese dell’America latina e tentare di esportavi la rivoluzione, al principio del 1967: nota nostra] dopo la terribile esperienza congolese? Dopo la sua morte, il giornalista statunitense I. F. Stone rifletterà: "Con l’assunzione del potere temporale la rivoluzione, come la Chiesa, entra in uno stato di peccato. Si può facilmente immaginare come questa lenta erosione dell’antica virtù abbia turbato il Che. Non era cubano e non poteva accontentarsi di liberare dall’imperialismo un solo paese latinoamericano. Pensava in termini continentali. In un certo senso, stava cercando rifugio nel deserto, come i santi primitivi. Soltanto lì la purezza della fede avrebbe poi potuto proteggersi dall’irrigenerabile [sic] revisionismo della natura umana". Ma c’è qualcos’altro, che a Stone sfugge. L’America Latina non era solo un territorio salariano in cui andare a sbaragliare i miserabili a testa alta, o una zona di sogni giovanili associati alla vendetta del capitano Nemo di Verne, seguendo le immagini letterarie dell’infanzia del Che. L’America Latina era anche un continente assolutamente reale. E le sue immagini, la profonda miseria delle baraccopoli di Caracas, l’orrore della disuguaglianza sociale peruviana, la demagogia boliviana, la prepotenza dei militari colombiani, le prevaricazioni imperialistico-criminali nel Centroamerica, i dittatori di cartone che ordinavano le torture, la denutrizione, la fame, l’ignoranza, la paura, erano immagini reali che il Che aveva fissato nei propri occhi durante i viaggi di gioventù. Ecco l’origine della tenacia del Che, della chiara coscienza che la necessità della rivoluzione latinoamericana, e non solo la sua necessità morale, era indifferibile. E come se non bastasse era una rivoluzione che nel 1966 sembrava possibile, non solo nel senso di realizzabile, raggiungibile, ma nel senso più terribile e urgente di prossima, vicina.»
La biografia del "Che" di Paco Ignacio Taibo II, la prospettiva che adotta, la mitizzazione acritica e, anzi, agiografica del personaggio, il culto nostalgico dell’eroe caduto ancor giovane (un po’ Sandokan di Salgari, un po’ Gesù Cristo trascinato davanti a Pilato), trova rispondenza in un pubblico, anche italiano, che non ha mai messo in soffitta l’icona del "comandante Guevara" e che, pur dopo tante delusioni e amarezze per la misera fine del comunismo, non ha mai saputo fare un minimo di autocritica e si è rinchiusa a gelosa custodia delle proprie memorie, sempre più mitizzate, sempre più leggendarie, sempre più avulse dalla realtà. Il "Che", come abbiamo cercato di mostrare, non è mai stato quell’angelo vendicatore che, in vita, la cultura di sinistra volle far credere. Pertanto, il fatto che ancora oggi, a quasi mezzo secolo dalla sua morte, i signori intellettuali che andavano in visibilio per lui, non abbiano trovato l’onestà intellettuale e il coraggio civile per fare un po’ di mea culpa, per rivedere almeno in parte la figura del loro discutibile eroe, per sottoporre a doveroso ripensamento tutto il bagaglio ideologico, e ideale, che la mitizzata figura del "Che" rappresentava e condensava: tutto questo è molto, molto triste. Specie se si considera che codesti signori non sono affatto andati in pensione, non hanno avuto la coerenza e la dignità di passare, per così dire, all’opposizione: inossidabili e inamovibili, occupano tuttora le stanze buone e i posti-chiave nell’informazione, nella cultura, nell’editoria, nella stampa, nella televisione: firmano ancora gli articoli di fondo sui giornali a maggiore tiratura e si pavoneggiano, saccenti e imperturbabili, nei salotti televisivi, dissertando su tutto e su tutti, dalla ferrovia ad alta velocità in Val di Susa, al dovere dell’accoglienza verso gli immigrati clandestini che forzano le frontiere dell’Italia e dell’Europa, perché essi sono, immancabilmente, «in fuga da guerra e fame», come recita il mantra obbligatorio del politicamente corretto e come non si stanano di ripetere, fino al completo lavaggio del cervello, i nostri giornalisti e annunciatori televisivi.
Quanto alla attendibilità e alla obiettività storiografica di uno scrittore come Paco Ignacio Taibo II, basterebbe analizzare questa frase, sopra riportata: «… i dittatori di cartone che ordinavano le torture, la denutrizione, la fame, l’ignoranza, la paura». Ora, lungi da noi voler prendere la difesa d’ufficio di dittatori quali Anastasio Somoza, Fulgencio Batista o, più tardi, Augusto Pinochet; qui si tratta soltanto di guardare alla storia con gli occhi di chi vuol capirla e non con il pregiudizio fondamentalista del manicheo, che vede tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra e che, nella storia, cerca soltanto le conferme del proprio teorema ideologico. Che i dittatori latino-americano ordinassero le torture, non c’è dubbio; che favorissero l’ignoranza del popolo e volessero instaurare il regno della paura, è altrettanto chiaro; che "ordinassero" anche la denutrizione e la fame, questo ci sembra eccessivo. Si dirà che essi, mettendo le risorse dei loro Paesi sotto il controllo delle multinazionali yankee, di fatto creavano le condizioni perché si diffondessero la denutrizione e la fame: e va bene. Ma che "ordinassero" la denutrizione e la fame, questo è il linguaggio della più vieta, della più insulsa demagogia infarcita di manicheismo: il linguaggio di chi vuole demonizzare l’avversario, trasformandolo in un nemico disumano. E Carl Schmitt ci insegna a che cosa serva la demonizzazione del nemico: a poterlo odiare quanto basta da essere capaci di ammazzarlo senza la minima esitazione e, soprattutto, senza il minimo rimorso. Uccidere un mostro non è reato, né peccato: anche San Giorgio ha trafitto il drago per salvare la fanciulla innocente, destinata ad essere da lui divorata: e ha fatto bene, evidentemente. Del resto, abbiamo visto che, per Guevara, l’odio era uno strumento decisivo nella lotta di liberazione dall’imperialismo e dallo sfruttamento: secondo lui, l’odio non era mai abbastanza.
E qui sta l’evidente strumentalità dell’accostamento fra Ernesto Guevara de La Serna e Gesù Cristo: perché un abisso divide questi due uomini e le loro rispettive concezioni dell’uomo e del mondo, una distanza molto più grande — direbbe il sommo Omero – di quella che separa la terra dal Cielo. Il primo è stato un uomo di odio; il secondo è stato un uomo di pace, di amore e di perdono («Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno», disse mentre già lo stavano inchiodando sulla croce). L’odio genera ancora odio e violenza; l’amore genera comprensione e perdono: perché l’albero si riconosce dai frutti. E non c’è nessun teologo della liberazione, nessun nostalgico di Ernesto "Che" Guevara (o di Ho-Chi-MinH, di Mao Tze Tung, magari di Pol Pot o Kim il Sung), nessun marxista-leninista e nessun cattolico progressista o comunista travestito da prete, che possano abolire o annullare questa differenza. Perché non è una differenza di dettaglio, ma di sostanza. E non sono lecite confusioni, su questo terreno. Beninteso, se si è intellettualmente onesti.
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