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L’Italia, grande potenza mancata Strano destino, quello dell’Italia: quasi una beffa

Strano destino, quello dell’Italia: quasi una beffa.

La geografia e la popolazione vorrebbero farne un Paese importante, uno dei maggiori d’Europa: quel che una volta si diceva una grande potenza (una volta, perché oggi di grandi potenze ce n’è una sola: gli Stati Uniti d’America). Così, quando essa raggiunse l’unità politica, nel 1861, aveva, in un certo senso, il destino segnato: non poteva recitare il ruolo della Svizzera o della Danimarca; non poteva, nemmeno volendo, stare alla finestra dei grandi avvenimenti europei e mondiali.

Piuttosto grande come superficie, decisamente popolosa come numero di abitanti, però alquanto povera di materie prima, e, per giunta, arrivata in ritardo sulla scena della spartizione mondiale, con una rivoluzione industriale ancora ai primi passi: quando già la tavola stava per essere sparecchiata e i giochi mondiali potevano ormai dirsi fatti.

Scriveva il rivoluzionario russo Michail Bakunin, nel suo classico «Stato e anarchia», nel 1873 (in: M. Bakunin, «Stato e anarchia e altri scritti», traduzione dal russo di Nicole Vincileoni e Giovanni Corradini, Milano, Feltrinelli, 1968, p. 17):

«Lo Stato italiano si trova in una posizione singolare perché mentre per numero di abitanti e per superficie dovrebbe annoverarsi fra le grandi potenze, per la sua forza effettiva questo stato vacillante, con un’amministrazione corrotta e malgrado ogni sforzo tristamente indisciplinato e per di più odiato dalle masse, anche dalla piccola borghesia, può a malapena considerarsi una potenza di second’ordine. Gli occorre perciò un protettore, un padrone fuori d’Italia e chiunque troverà naturale che dopo la caduta di Napoleone III il principe Bismarck abbia occupato il posto dell’indispensabile alleato di quella monarchia creata dagli intrighi piemontesi e resa possibile in pratica dagli sforzi e dalle gesta patriottiche di Mazzini e Garibaldi.»

Per un certo tempo, invero, l’Italia provò a mantenere la linea politica delle "mani nette": e così venne fuori dal Congresso di Berlino del 1884-85, in cui tutti gli altri (perfino il piccolo Belgio: e non per un appetito da poco) se ne vennero via portandosi dietro qualche brandello, più o meno consistente, del continente africano.

Alla fine, l’Italia tentò malaccortamente di recuperare il tempo perduto, ponendo sotto il proprio protettorato l’impero di Abissinia; ma la Francia, che già le aveva soffiato Tunisi proprio sotto il naso, nemmeno stavolta volle lasciarle via libera: armò il Negus, Menelik, e non smise di brigare fino a quando non giunse l’infausta giornata di Adua. Perfino a Tripoli avrebbe voluto ostacolarci: giunse al punto di rifornire i Turchi di materiale bellico, sfruttando la propria bandiera neutrale; e poi levò altissime strida perché una delle sue navi era stata fermata e ispezionata.

Sia l’ingresso nella Triplice Alleanza, sia l’entrata nella Prima guerra mondiale, contro gli alleati del giorno prima, furono dettati ai governi italiani dalla necessità di tenersi all’altezza di una politica di potenza, pur senza avere una potenza effettiva; anche la partecipazione alla spedizione internazionale contro i Boxers, in Cina, va letta nello stesso modo, oltre che con l’opportunità di prendersi la rivincita sul governo di Pechino, che aveva respinto la richiesta italiana di avere una propria concessione sulla costa, come le altre grandi potenze.

In un certo senso, si potrebbe quasi dire che l’Italia è stata costretta a fare una politica più grande di lei, perché, nel Mediterraneo e in Europa, un Paese così centrale e così importante non avrebbe potuto, forse nemmeno se lo avesse voluto, seguire una politica diversa: le altre potenze si sarebbero fatte avanti per accaparrarsela, specie in caso di guerra.

La stessa cosa accadde alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Si è accusato Mussolini di aver gettato il Paese in una tragica avventura; ma avrebbe potuto, qualsiasi altro governo, prendere una decisione diversa, nel 1939-1940? Non lo aveva potuto, o voluto, Salandra, nel 1914-15; non lo avrebbe potuto Mussolini, venticinque anni dopo. Adesso, l’Italia aveva effettivamente uno status da grande potenza, specie dopo la guerra d’Etiopia: non era più libera di giocare al ribasso. La Francia, la Gran Bretagna, la Germania, non glielo avrebbero permesso. Doveva schierarsi, da una parte o dall’altra.

Mussolini provò a fare fronte comune con le democrazie, fino al 1935, con l’accordo di Stresa; dopo, fu letteralmente gettato fra le braccia di Hitler. E quando questi attaccò la Polonia (senza averlo minimamente informato delle sue intenzioni, anzi, avendolo deliberatamente ingannato, al momento della firma del Patto d’Acciaio, con l’assicurazione che non ci sarebbe stata la guerra fino al 1943), il Duce era ormai preso nel gioco. Che cosa sarebbe accaduto dell’Italia, se Hitler avesse vinto la guerra da solo? E che cosa sarebbe accaduto, se avessero vinto le democrazie? Non c’era scampo. Mussolini scelse il male miniore: non per sé, ma per l’Italia. Cercò di afferrare una occasione unica; se non lo avesse fatto, le conseguenze avrebbero potuto essere terribili per il Paese. Non è vero che il fascismo fosse destinato a unire i propri destini al nazismo; questa è una versione di comodo: le cose potevano andare altrimenti, e sarebbero andate altrimenti, se Francia e Gran Bretagna avessero sostenuto l’Italia allorché questa era decisa a contenere il riarmo di Hitler. Fu Mussolini a fermare la Germania nel 1934, quando Dollfuss venne assassinato e l’Austria stava per essere invasa. Se l’indipendenza austriaca ebbe ancora quattro anni di vita, fu merito esclusivo di Mussolini. Così come fu responsabilità di francesi e inglesi l’averlo lasciato solo.

Mussolini era il solo a credere nella grandezza dell’Italia; il regime da lui messo in piedi, e la pletora di gerarchi che lo affiancarono per vent’anni, pensavano, per lo più, ai propri affari. Il re stava a guardare: gradiva il titolo di imperatore d’Etiopia e quello di re d’Albania; ma temeva il potere eccessivo dell’uomo che lui stesso aveva chiamato al governo del Paese. I militari, generali e ammiragli, non credevano nella vittoria; i banchieri e gli industriali non ne avevano interesse: avevano capito che una sconfitta, per i loro affari, sarebbe stata più conveniente. La Massoneria e la mafia aspettavano il momento giusto per vendicarsi; una parte del clero, per prendersi la rivincita sul solo governo che avesse affrontato e risolto la questione romana, ma che aveva seriamente minacciato l’autonomia delle organizzazioni educative cattoliche.

Si arriva così al 25 luglio, e poi all’8 settembre del 1943. Molto peggio di Caporetto: il Paese non è solo sconfitto, è disfatto; non cede soltanto l’esercito, ma l’intera amministrazione. La patria è morta. No, dice la Vulgata democratica e resistenziale: la Patria è morta, ma solo per risorgere. Tanto per non perdere l’antico vizio dell’auto-inganno; tanto per sentirsi un po’ vincitori nel 1945, in un mondo dove a vincere, anzi, a trionfare, sono i "buoni", e a perdere, solamente i "cattivi". Ma come si fa a parlare di rinascita della Patria, dopo un anno e mezzo di guerra civile, che lascia dietro di sé vendette e atrocità senza fine, ancora per mesi e mesi? E dopo un trattato di pace che ci tratta da sconfitti, in tutto e per tutto, con l’estrema umiliazione di non poter perseguire i traditori, perché, dicono gli Alleati, essi hanno "ben meritato" per la giusta causa, cioè la loro?

Joseph Goebbels, il Ministro della Propaganda del Terzo Reich – che sarà stato un criminale, ma era un uomo intelligente e un acuto osservatore – aveva scritto alla data del 23 settembre 1943, dopo l’armistizio di Badoglio con gli Anglo-americani e il ritorno di Mussolini, liberato dalla prigionia del Gran Sasso e postosi alla testa della Repubblica Sociale, con l’appoggio delle armi tedesche (da: J. Goebbels, «Diario intimo»; traduzione dal testo americano di Giorgio Monicelli, riscontrata sul testo originale tedesco di Cesira Oberdorfer, Milano, Mondadori, 1948, pp. 627-628):

«Il Duce intende creare un nuovo esercito italiano coi residui del fascismo. Ho i miei dubbi sulle sue possibilità di riuscita. Il popolo italiano non è all’altezza di una politica rivoluzionaria concepita con ampiezza di vedute. Gli italiani non vogliono essere una grande Potenza. Questa volontà è stata inculcata loro artificialmente dal Duce e dal partito fascista. Il Duce avrà quindi scarsa fortuna nel reclutare un nuovo esercito nazionale italiano. Il vecchio Hindenburg aveva indubbiamente ragione quando disse che nemmeno Mussolini sarebbe mai riuscito a fare degli italiani niente altro che degli italiani.»

Singolare convergenza di giudizio fra l’anarchico russo dell’Ottocento e il ministro tedesco del Novecento: l’Italia potrebbe essere una grande potenza, ma non lo è; e non lo è, non perché il suo destino sia segnato nelle stelle, ma, molto più semplicemente, perché non lo vuole. L’Italia ha voltato le spalle ai suoi alleati, che l’avevano aiutata a difendersi, e accolto come liberatori i suoi nemici, che seguitavano a bombardare le sue città inermi, seminandole di morti e di macerie: e questo anche dopo la caduta di Mussolini. Nessun esercito vide mai, nella sua avanzata in un Paese nemico, ciò che videro gli Anglo-americani nell’estate del 1943 in Sicilia, e, nei mesi successivi, risalendo lungo la Penisola: delle folle che li accoglievano come eroi, che mendicavano denaro e sigarette, che mostravano loro la strada, che segnalavano i campi minati; e un governo collaborazionista che chiedeva, attraverso i suoi "Comitati di liberazione", bombardamenti più duri ai danni delle città non ancora "liberate" dagli invasori.

Che stima potevano maturare, gli Alleati, verso un Pese del genere? Quale rispetto per un simile popolo? E meno male che, nell’aprile e nel maggio del 1945, si misero in mezzo per frenare la rabbia sanguinaria e la furia omicida dei partigiani: cresciuti improvvisamente da 70.000 a 250.000, quando ormai la guerra era finita, e più che mai bramosi del sangue dei vinti. Piazzale Loreto è stato un simbolo: il simbolo di un popolo che non ha rispetto di se stesso. Nessun popolo che abbia rispetto di se stesso farebbe a dei fratelli quel che fece la folla milanese sui cadaveri di Piazzale Loreto: la stessa folla che cinque mesi prima, nel dicembre del 1943, era andata in delirio quando Mussolini aveva parlato al Teatro Lirico, e aveva girato in automobile scoperta per le strade. Senza che nessun partigiano osasse mettere fuori il naso.

Poi ci fu la vicenda dei profughi giuliani: fratelli italiani che fuggivano dalle foibe e dagli orrori di Tito. Furono accolti a sputi e insulti dai "compagni" comunisti e da tutta la sinistra: quella stessa sinistra che, oggi, chiede – anzi, pretende – la massima ospitalità verso i profughi, veri o presunti, che ogni giorno sbarcano sulle nostre coste, provenienti da cento Paesi diversi, e dei quali, sovente, non si sa nulla, né i dati personali e lo stato di salute, né la nazionalità, tanto meno le intenzioni. Sia la Chiesa che lo Stato ribadiscono il concetto: non è degno di un popolo civile negare l’accoglienza ai bisognosi. Peccato che nel 1945-47 non abbiano speso molte parole per i 350.000 profughi dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. Si vede che quelli non erano ideologicamente meritevoli della loro compassione.

La storia dell’Italia repubblicana e democratica è la diretta prosecuzione di quelle vicende, di quella impostazione. Una volta imboccata la strada della vergogna e del disonore, è difficile saltarne fuori, qualora ve ne fosse la volontà. Il voltafaccia dell’8 settembre, la mancata difesa del suolo patrio, la fuga del re e del governo, la guerra civile, il goffo tentativo di salire sul carro dei vincitori: sono fattori che hanno pesato per anni, per decenni, sia sulla psicologia degli Italiani stessi, sia sul giudizio che di noi si sono formati gli altri popoli e gli altri governi.

Una volta, durante un’intervista privata al generale Charles De Gaulle, il nostro Indro Montanelli tentò di giustificare la politica italiana, dicendo che l’Italia era un Paese povero; De Gaulle lo interruppe e lo corresse: «Nossignore; l’Italia non è un Paese povero; è un povero Paese». Montanelli, nel riferire questo episodio, disse che ancora dopo quarant’anni quella frase gli bruciava e che si vergognava di non essersi alzato e di non essere andato via. Appunto. Un giornalista famoso, che sia anche rispettoso del proprio Pese e di se stesso, si sarebbe alzato e sarebbe andato via. Con quel gesto, avrebbe insegnato all’interlocutore che il suo giudizio era sbagliato; o, almeno, gli avrebbe insinuato un dubbio. Restando lì seduto a sopportare un simile schiaffo in pieno viso, gli confermò che quel giudizio era esatto e meritato.

Gli Italiani che dopo l’8 settembre del 1943 scelsero, come ormai si deve dire, la "parte sbagliata", spesso non erano fascisti: erano semplicemente Italiani fieri e rispettosi del proprio onore, che vollero mostrare al mondo che non tutti gli Italiani erano come il re e come Badoglio. Avrebbero meritato un po’ di rispetto, almeno dopo morti. Non l’hanno mai avuto: neanche settant’anni dopo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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