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Ottobre 1917: i profeti della “vita nuova” vogliono imporre il Bene al mondo intero

Il comunismo, giunto al potere in Russia nella versione marxista-leninista, mediante un colpo di Stato che la sua propaganda ebbe poi l’improntitudine di chiamare "rivoluzione" (e così viene ancora chiamato da tutti, compresi gli anti-comunisti), fu una delle forme assunte dallo gnosticismo di massa che, secondo l’espressione di Eric Voegelin, prese piede nel mondo moderno dopo che le società occidentali ebbe voltato le spalle a Dio e gli intellettuali e gli uomini politici ebbero dichiarato che l’uomo deve provvedere da se stesso alla propria felicità, eliminando dal suo cammino tutto ciò che la ostacola.

Per il comunismo, l’ostacolo alla felicità era rappresentato dalla borghesia: dall’esistenza di una classe di parassiti e di sfruttatori del lavoro, di nemici del popolo, i quali non meritavano alcuna compassione, ma che andavano sradicati così come il contadino distrugge i parassiti che si sono insediati nel suo campo o nel suo frutteto. La formula di Lenin era: trasformare la guerra mondiale in guerra civile; il suo scopo era distruggere fisicamente la classe borghese per poter stabilire il paradiso in terra, ossia il comunismo. Chi sostiene che Lenin fu "costretto" alla guerra civile dalla controrivoluzione dei "bianchi" e dall’intervento dell’Intesa, mente sapendo di mentire: Lenin aspettava, desiderava, voleva la guerra civile come strumento di igiene sociale.

In tutti i movimenti gnostici di massa, dal progressismo alla psicanalisi, lo schema è sempre lo stesso: gli adepti ritengono di possedere, loro soltanto, la chiave per la corretta lettura del reale; e loro soli, naturalmente, sono in grado di elaborare la giusta strategia per risolvere i problemi dell’umanità, per sciogliere la disarmonia del mondo (sono tutti caratterizzati, infatti, da un profondo e cupo pessimismo riguardo alla condizione umana); sono tutti convinti che il mondo è sbagliato ed ingiusto, ma che loro hanno sia la capacità, sia la volontà di intervenire per migliorarlo quanto basta a renderlo accettabile e vivibile.

Nel caso del comunismo, si tratta di eliminare fisicamente la borghesia e di socializzare i mezzi di produzione, mediante una "temporanea" dittatura del proletariato, che si risolve, poi, in una dittatura del piccolo, ma sperimentato gruppo dirigente del partito comunista: ai semplici fedeli di questa religione di salvezza tocca solo di credere e obbedire, mentre i capi sanno quel che è giusto e ciò che va fatto — oh, ma sempre a nome del popolo e per conto del popolo lavoratore, si capisce; mica per se stessi. Perché, poi, ci sia bisogno di questo strano giro vizioso: e cioè che, invece di lasciar libero il popolo di decidere, sia necessario che pochi ma fidati gruppi armati comunisti si impadroniscano del potere a nome del popolo. e, se necessario, che mandino davanti al plotone d’esecuzione anche i lavoratori e i rivoluzionari — come avviene a Kronstadt, contro i marinai della flotta del Baltico — questo non viene chiarito più di tanto: si tratta, in fondo, di dettagli. L’importante è che sul palazzo del governo sventoli la bandiera rossa: tutto il resto è accademia. È accademia anche disquisire se il governo rivoluzionario aveva o non aveva il diritto di scioglier l’Assemblea Costituente, eletta dal popolo: a che serve una Assemblea Costituente, se il popolo — nella persona dei gruppi comunisti armati — ha già conquistato il potere? Se il partito comunista si è impadronito del potere, il popolo è già rappresentato: senza bisogno delle forme arcaiche e poco convincenti della democrazia borghese.

Vale la pena di meditare quanto dice Aleksandr Jakovlev, sulla scia di Ivan Bunin, circa l’attitudine dei rivoluzionari, veri profeti della palingenesi universale, a voler imporre il Bene, cioè la loro idea di quel che sia il Bene (e di quel che sia il Male) al mondo intero, a qualunque costo (da: A. Jakovlev, «La Russia, il vortice della memoria. Da Stolypin a Putin»; traduzione dal russo di Aleksej Hazov, Milano, Spirali, 2000, pp. 81-4):

«Aprendo il capitolo dedicato al periodo più tragico della storia del nostro popolo non potrei fare a meno di ricordare il grande Ivan Bunin, il quale già nel 1924 scriveva:

"Ed ecco che nel mondo si è formato un intero esercito di profeti della vita ‘nuova’, che si sono arrogati il privilegio mondiale, la concessione per fare del bene all’uomo, un bene che sarebbe universale e uguale. Si è formato un esercito di professionisti di questo mestiere: migliaia di membri dei vari partiti sociali, migliaia di tribuni dal cui novero spuntano tutti coloro che in fin dei conti, in un modo o nell’altro, vengono esaltati e portati in alto. Ma per ottenere tutto ciò occorre, lo ripeto, una grande menzogna, un grande servilismo, l’organizzazione dei fermenti e delle rivoluzioni, bisogna di tanto in tanto camminare nel sangue che arriva fino ai ginocchi. L’importante è privare la folla dell”oppio della religione’, offrirle al posto di Dio un idolo incarnato in un vitello, o più semplicemente, in una bestia. Pugaciov! Cosa poteva fare Pugaciov? Ma la bestia ‘planetaria’ è già un’altra cosa. Lenin, un degenerato, un idiota amorale dalla nascita, ha presentato al mondo qualcosa di sconvolgente: ha fatto fallire il più grande paese del mondo e ha ammazzato alcuni milioni di persone. Eppure il mondo è già talmente pazzo da discutere alla luce del sole se è un benefattore dell’umanità oppure no! Già stava sul suo trono di sangue quando fu ripreso dai fotografi inglesi e mostrava loro ogni attimo la lingua: ma non vuol dire niente, continuavano a discutere! […]"

Anche nella Russia odierna si continua sull’inopinabile: se valga la pena di portare via la salma di Lenin dal suo mausoleo oppure no, se considerarlo un grande artefice della felicità oppure no, se conservare le sue immagini, questi mostriciattoli di bronzo, oppure no. Di quale moralità sociale può trattarsi se un boia e un criminale resta ancora venerato come benefattore della nazione?

Dopo aver usurpato il potere Lenin definì i fatti dell’ottobre 1917 "un colpo di Stato". Solo successivamente l’evento fu ribattezzato "rivoluzione" e più tardi ancora ottenne l’appellativo di "grande". In realtà era solo Controrivoluzione. La più distruttiva controrivoluzione permanente della storia mondiale. Se non assimiliamo appieno questo fatto, siamo condannati ad affrontare a lungo il penoso interrogativo su che cosa sia capitato a noi in passato e che cosa ci sta succedendo oggi. Fin dall’inizio Lenin pensava di creare un partito combattente mentre lo stato doveva fungere da "strumento del proletariato in una grande guerra", guerra su scala mondiale. L’elemento più distruttivo del suo modus operandi scaturiva dalla sua convinzione che la rivoluzione è una forma di guerra civile, una crudele guerra di sterminio che ha un unico obiettivo: fomentare l’incendio rivoluzionario su scala mondiale. Mirando a realizzare questo suo compito globale, Lenin arguisce che la guerra civile "porta inevitabilmente alla dittatura" che può significare "solo un potere illimitato, non condizionato dalle regole e fondato sulla violenza". Per questo motivo dichiarò la trasformazione della guerra imperialista in una guerra civile come un obiettivo programmatico del suo partito. Lenin lasciò ai suoi eredi anche un testamento di carattere strategico. Disquisendo sulla natura del periodi di transizione profetizzò che questo periodo "rappresenterà un’epoca intera di atroci guerre civili".

L’attività dei bolscevichi giunti al potere incominciò con un inganno. Il secondo congresso dei soviet istituì con il suo decreto del 26 ottobre 1917 il Consiglio dei commissari del popolo dichiarando che era "un governo provvisorio degli operai e dei contadini" i cui poteri scadevano al momento della convocazione della Costituente. Le elezioni alla Costituente si svolsero il 25 novembre, già sotto il nuovo regime. I bolscevichi presero una sonora batosta e perciò, nel gennaio 1918, la Costituente fu disciolta con la forza. Dopo la sconfitta elettorale Lenin si rese conto che, oltre alla violenza, non aveva a disposizione altri strumenti necessari a mantenere il potere.

Ma anche la stessa presa del potere era dovuta all’alto tradimento. Già durante la grande guerra Lenin aveva intravisto la possibilità d’impadronirsi del potere mediante una martellante opera di agitazione tra i soldati, e non solo tra i soldati, a favore della sconfitta militare del proprio governo. Aveva scritto che l’unica politica del partito bolscevico è quella diretta allo "sfruttamento da parte del proletariato delle difficoltà del proprio governo e della propria borghesia al fine di rovesciarli. E ciò è impossibile, irraggiungibile senza auspicare la sconfitta del proprio governo, senza contribuire a tale sconfitta. Sempre più numerose sono le testimonianze che il colpo controrivoluzionario d’ottobre fu compiuto con il denaro tedesco versato da Berlino allo scopo di ottenere l’uscita della Russia dalla guerra. Per Berlino i bolscevichi erano d’aiuto facilitando le operazioni tedesche sul fronte orientale. Bisognava neutralizzare la Russia ed eliminare il fronte orientale dal momento che, dopo l’entrata in guerra degli americani, la situazione su quello occidentale stava diventando catastrofica. I bolscevichi erano tenuti a concludere un accordo di pace con la Germania perché quest’ultima potesse trasferire le proprie truppe all’Ovest. Il compito non era poi così difficile: Lenin era pronto a tutto pur di mantenere il potere. A questo proposito proclamò il patriottismo un pregiudizio borghese. Il proletariato, secondo i bolscevichi, non aveva Patria! Così fu perpetrato l’alto tradimento della Russia.»

Lenin, dunque — che non pochi studiosi, anche ai nostri giorni, continuano a guardare con un misto di diffidenza e di segreta ammirazione, riconoscendogli tacitamente la statura di un grande uomo politico, pur se non ne condividono interamente né le idee, né i mezzi impiegati — ha avuto, se non altro, il dono della chiarezza: senza tanti giri di parole, annunciò (come avrebbe fatto anche Hitler nel «Mein Kampf»), con brutale schiettezza, quel che intendeva fare una volta arrivato al potere, e anche come ci sarebbe arrivato, cioè tradendo il proprio stato e il proprio esercito in guerra, e accettando aiuti dal nemico della sua patria. Disse che la guerra civile era assolutamente necessaria per spazzare via i nemici interni; che la guerra civile avrebbe portato immancabilmente alla dittatura: e che la dittatura era ciò di cui la Russia aveva bisogno affinché il comunismo potesse venire instaurato pienamente. Gli arresti, i processi sommari, le esecuzioni, la condanna ai campi di lavoro in Siberia, la repressione di qualunque opposizione, il pugno di ferro contro ogni avversario anche solo potenziale, compresi i cristiani praticanti (sia ortodossi che cattolici), lo sbrigativo massacro dei marinai "controrivoluzionari" e lo sterminio pianificato dei piccoli proprietari terrieri, la deportazione di intere popolazioni: tutte queste cose, iniziate con metodo da Lenin e proseguite più che volonterosamente da Stalin, non furono affatto "incidenti di percorso" dovuti alle gravissime e molteplici difficoltà in cui vennero a trovarsi i bolscevichi a partire dalla loro presa del potere; erano, al contrario, passaggi obbligati, previsti, calcolati, voluti, che facevano parte di una vasta strategia a largo raggio, nella quale nulla era lasciato al caso, ma tutto concorreva al fine di azzerare ogni ostacolo, reale o anche solo possibile, e inaugurare la "vita nuova".

La vita nuova! Che bel concetto, che splendida immagine, addirittura evangelica, o dantesca, se si preferisce: così dolce, così struggente, così romantica. La vita nuova per un uomo nuovo, per un mondo nuovo: un uomo finalmente emancipato dal giogo del capitalismo e liberato dai vizi della cultura e della morale borghesi, e un mondo ove non ci sarebbe mai più stato alcuno sfruttamento dell’uomo da parte dei suoi simili. Tutti i movimenti gnostici di massa puntano a questo obiettivo: realizzare la vita nuova, instaurare l’età dell’oro, migliorare l’opera di Dio, così palesemente imperfetta e lacunosa, con una specie di seconda creazione, questa volta ad opera dell’umanità saggia e illuminata, pietosa dei mali sociali, sollecita del bene universale. Quante buone intenzioni, quanta sollecitudine verso le sofferenze umane, in questi moderni seguaci dello gnosticismo di massa: nei marxisti come nei progressisti, nei positivisti come negli psicanalisti, nei comunisti come nei nazisti. Con tante buone intenzioni, con tanta sollecitudine, con tanta disponibilità al sacrificio (perché molti dei moderni gnostici non esitarono ad affrontare i pericoli e la morte per il trionfo delle loro dottrine), ci si domanda come mai nessuno di loro abbia portato in dono all’umanità ignorante, sfruttata e infelice, questa famosa vita nuova, ma solo un carico peggiore di sofferenze, un ulteriore fardello di atrocità e amarezze.

Vale la pena di chiedesi se, per caso, non fossero radicalmente sbagliate proprio le premesse. È proprio vero che il mondo è malvagio e che la sofferenza non serve a nulla, dunque bisogna abolirla per decreto, ad ogni costo? Ed è vero che l’uomo può redimersi da solo, e farsi il Dio di se stesso?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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