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22 Settembre 2015I giochi non erano ancora fatti e l’esito della Seconda guerra mondiale non era scontato fino a quando Hitler non prese la fatale decisione di scatenare l’attacco all’Unione Sovietica, la famosa "Operazione Barbarossa", il 22 giugno del1941, impegnando l’esercito tedesco — con il supporto di Italia, Romania, Ungheria, Slovacchia e Finlandia – nella più grande operazione offensiva della storia moderna, lungo un fronte di ben 1.600 km.
Questa è, ancora oggi, l’opinione della maggior parte degli storici: anche se, ovviamente, non è possibile fare la storia a ritroso e abbandonarsi ad ipotesi circa quel che avrebbe potuto accadere se questa o quella condizione preliminare fosse stata diversa da come che realmente fu. Del resto, si discute ancora se, e di quanto, la decisione di Hitler abbia preceduto una analoga decisione di Stalin: si va dal completo diniego, alla tesi secondo cui il "Piano Barbarossa" scattò appena in tempo per precedere un attacco speculare da parte dell’Armata Rossa. Appare realistico concludere che, anche se una aggressione sovietica non era imminente, Stalin non avrebbe aspettato ancora molto prima di approfittare del fatto che Hitler, pur essendo riuscito a liquidare la Francia, non aveva chiuso la partita con la Gran Bretagna, anzi, l’intervento italiano aveva dato a quest’ultima l’occasione di ristabilire un fronte terrestre contro l’Asse (nel deserto egiziano): il che implicava la facile previsione che, presto o tardi, anche gli Stati Uniti sarebbero scesi in campo a sostegno del loro tradizionale alleato inglese.
Sia come sia: quando la Wehrmacht, forte di 3.000.000 di uomini, balzò all’attacco dell’Unione Sovietica, le notizie dei primi giorni di guerra riferirono che, in moltissimi casi, le popolazioni dell’Ucraina, della Bielorussia, della Lituania, della Lettonia e dell’Estonia, e, qualche settimana più tardi, della stessa Russia, avevano accolto le truppe avanzanti con entusiastiche manifestazioni di gioia. Esisteva pertanto un enorme potenziale, umano e militare, che la Germania avrebbe potuto utilizzare a suo vantaggio, se avesse avuto la volontà e la capacità di presentarsi non come uno stato invasore, ma come un amico e un liberatore di quelle popolazioni. Non solo le minoranze etniche, come gli Ucraini e i Cosacchi, i Tartari e i popoli baltici, ma anche numerosi cittadini russi odiavano il regime staliniano ed erano ansiosi di scrollare il giogo comunista: molti di loro erano disposti ad arruolarsi in un esercito, o in un gruppo di eserciti, la cui bandiera fosse la lotta contro Stalin e il bolscevismo, e la liberazione nazionale dal ventennale servaggio. Lo sterminio dei kulaki era cosa piuttosto recente, così come le "purghe staliniane" che, fra l’altro, avevano letteralmente decapitato i quadri di comando dell’Armata Rossa, indebolendo drasticamente la sua efficienza come strumento bellico (e lo si era visto nella campagna d’inverno contro la Finlandia, nel 1939-40 (anche se le cose erano andate ben diversamente nella guerra non dichiarata contro l’esercito giapponese, ai confini della Mongolia e della Manciuria; ma pochi se ne accorsero).
Ora, il punto era proprio questo: la definizione degli obiettivi di guerra da parte dell’Asse. La campagna contro l’Unione Sovietica doveva avere il carattere di una crociata anticomunista, come auspicato da Mussolini (che, peraltro, era stato tenuto all’oscuro fino al’ultimo minuto) o di una conquista brutale, per assicurare alla Germania lo "spazio vitale", le materie prime e una popolazione di sudditi semi-schiavi, da impiegare nei lavori agricoli, smantellando il sistema industriale sovietico? In altre parole: doveva prevalere l’impostazione ideologica o quella geopolitica ed economica? Per che cosa stavano facendo la guerra, i soldati dell’Asse?
Ebbene: questo punto capitale non fu mai ben chiarito; ma quel che si vide, in pratica, fu il deciso prevalere del punti di vista di Hitler, anche contro i suoi stessi generali: la guerra prese fin da subito il carattere di una gigantesca rapina e di un gigantesco sterminio; ebrei e dirigenti comunisti furono eliminati in maniera sommaria, non appena cadevano nelle mani degli invasori; i soldati russi fatti prigionieri ricevevano un trattamento bestiale nei campi di concentramento; nessuna fiducia venne accordata alle minoranze e agli oppositori politici del regime staliniano, sicché l’arruolamento di un esercito di volontari russi, sotto la guida del generale Andrej A. Vlasov (già eroe della difesa di Mosca), procedette estremamente a rilento, le armi gli furono lesinate, e quando, infine, nel 1944, ogni remora politica nei suoi confronti cadde, era ormai troppo tardi: si era già nel 1944 e l’Armata Rossa avanzava irresistibilmente, ormai da due anni, verso il cuore della Germania, né si sarebbe più fermata prima di entrare A Berlino, ridotta ad un cumulo di macerie fumanti.
Eppure c’era stato chi, nella stessa Wehrmacht, aveva visto chiaro e aveva scongiurato il Führer di mutare condotta nei confronti della popolazione sovietica, specialmente a partire dall’esito fallimentare della battaglia di Mosca, che, iniziata ai primi di dicembre del 1941, si risolse con l’arresto e la parziale ritirata tedesca e che, causando perdite gravissime all’attaccante, segnò in pratica l’inizio della fine per il Terzo Reich. Le forze dell’Asse, infatti, avevano una sola speranza di giungere ad una conclusione vittoriosa della campagna sul fronte orientale: conquistare Mosca e liquidare il principale nucleo di resistenza sovietico entro il sopraggiungere dell’inverno. La Wehrmacht non era nemmeno attrezzata per una campagna invernale: Hitler era stato talmente fiducioso di far crollare l’avversario prima dell’inverno, che le truppe tedesche non erano state dotate di uniformi invernali e dovettero affrontare quelle gelide temperature, con la benzina che si congelava nei serbatoi dei carri armati e degli autoveicoli, nelle loro leggere uniformi estive.
Non è questo il luogo per discutere quanto, in tale fallimento, abbia pesato la strategia militare dello stesso Hitler, che non seppe tenere fermo il principio della concentrazione delle forze attaccanti, e che ritardò l’avanzata su Mosca, principale obiettivo politico e industriale, attardando le sue forze migliori in operazioni gigantesche e spettacolari, ma non decisive, quali la battaglia di Kiev, che fruttarono milioni di prigionieri, ma consentirono a Stalin di guadagnare tempo e all’Armata Rossa di trasferire in Europa le ottime divisioni dislocate lungo la frontiera dell’Estremo Oriente, a presidio contro i Giapponesi (i quali rimasero con le armi al piede). È anche possibile che neppure la conquista di Mosca avrebbe risolto, di per se stessa, la campagna: Stalin e il suo governo avrebbero potuto arretrare in qualche città degli Urali, e accorciare ulteriormente le linee di comunicazione dell’Armata Rossa, mentre i Tedeschi avrebbero dovuto allungare ulteriormente le proprie, già enormemente sfilacciate ed esposte agli attacchi delle forti unità partigiane, che agivano da dietro il fronte. In questo modo, i Sovietici avrebbero guadagnato anche un ulteriore vantaggio rispetto al fattore tempo, che giocava comunque a loro favore: le industrie americane, che si erano messe a produrre materiale bellico a pieno ritmo, avrebbero comunque rifornito l’Armata Rossa di tutto quanto le abbisognava, mentre lo stesso Hitler aveva commesso l’ulteriore errore dichiarare guerra agli Stati Uniti, senza necessità, dopo l’attacco giapponese su Pearl Harbor.
Resta il fatto che le potenze dell’Asse giocarono male le loro carte. Germania, Italia e Giappone non coordinarono affatto le loro mosse (i Giapponesi, addirittura, non dichiararono guerra ai Sovietici nemmeno dopo che Hitler e Mussolini erano entrati in guerra, al loro fianco, contro gli Stati Uniti); i Cosacchi vennero spediti in Europa occidentale, perfino in Italia (in Carnia, per l’esattezza), a fare la guerra contro i partigiani locali, perché non ci si fidava di impiegarli in Russia; e Vlasov ricevette un significativo appoggio, come si è detto, quando ormai il tempo massimo era scaduto e si trattava solo di ritardare la fine. In altre parole, Hitler si rassegnò a sostituire i suoi piani da sterminatore assiro solo quando fu chiaro che la guerra sul fronte orientale (e non solo su quello) era ormai perduta: fino a che c’era stata una possibilità di conquistare l’Unione Sovietica e sottometterla interamente ai suoi voleri, egli non aveva voluto ipotecare il suo diritto di conquista, né rinunciare al benché minimo vantaggio. Si mostrò, pertanto, perfino più miope del governo del Kaiser Wilhelm II, che, nel 1918, si fece patrocinatore di una indipendenza, almeno formale, della Polonia, dell’Ucraina, dei Paesi Baltici, pur di concludere la campagna sul fronte russo.
Nelle sue memorie, il generale Reinhard Gehlen, comandante dei Servizi segreti germanici sul fronte orientale, ha scritto (da: R. Gehlen, «Servizio segreto»; titolo originale dell’opera: «Der Dienst», 1973; traduzione di Vittorio Ghinelli condotta sulla versione inglese eseguita da David Irving e pubblicata dalla World Publishing Co, New York, 1973, pp. 85-88):
«Sono tuttora convinto che saremmo riusciti a conseguire gli obiettivi che ci eravamo prefissi con la campagna del 1941 se non fosse stato per le fatali interferenze di Adolf Hitler, la più grave delle quali sfociò nella Battaglia di Kiev. Le conseguenze di una vittoria militare sarebbero state comunque opinabili, dal momento che Hitler puntava alla conquista di spazio vitale, e ciò implicava necessariamente la distruzione totale dello stato russo. Noi dello stato maggiore generale eravamo invece arrivati a concepire una soluzione politica più moderata e realistica, nel cui ambito una Russia in quanto tale avrebbe continuato a esistere. Ci eravamo resi conto che questo vasto paese, ricco di potenziale umano e di risorse naturali, in ultima analisi avrebbe potuto essere conquistato — o meglio, liberati dal comunismo — solo con l’aiuto degli stessi popoli russi, ed è questa la ragione per cui anche dopo gli smacchi della campagna invernale del 1941-1942eravamo convinti che la guerra poteva ancora essere vinta, a condizione a condizione che avessimo saputo condurla con intelligenza. Se lo avessimo voluto, non ci sarebbe stato difficile guadagnare i russi alla nostra causa: sarebbe basto far leva sul loro istinto di auto-preservazione nazionale — oltre che, naturalmente, sul profondo odio che avevano accumulato nei confronti del comunismo in generale e dl sistema stalinista in particolare. Ma Hitler si rifiutò sistematicamente di credere in questa possibilità.
Ed è proprio nell’incapacità di Hitler di sfruttare il potenziale psicologico delle popolazioni russe , la massima parte delle quali ci aveva accolto con straordinario calore nelle prime fasi della campagna, che possiamo scorgere il suo errore decisivo: si pensi al modo brutale con cui egli impose i suoi satrapi Koch, Sauckel e Kube alle province russe conquistate trasformando le speranze frustrate dei russi in cieco odio verso i tedeschi. Questi errori ebbero per noi ripercussioni più gravi di molti sbagli strategici, per la semplice ragione che l’arrivo delle truppe tedesche aveva suscitato profonde reazioni positive a livello psicologico.
A differenza delle guerre del passato, quelle moderne sono fondamentalmente guerre tra popoli. Le guerre del XVIII secolo erano combattute dalle forze armate degli stati belligeranti. Le guerre moderne sono combattute dai popoli in quanto tali, chiamati a sostenere i sacrifici necessari e a impegnarsi direttamente anima e corpo a sostegno della loro causa. In particolare, il mondo moderno è diviso in due campi ideologici antagonistici — il "mondo libero" e il "comunismo internazionale" — cosicché quello che altrimenti sarebbe un conflitto puramente militare acquista un aspetto più intenso, di natura fondamentalmente psicologica. Hitler e Stalin non si stancarono di sottolineare l’aspetto ideologico della guerra, e per rispetto alle convinzioni di molti inglesi e americani persino Eisenhower intitolò le sue memorie "Crociata in Europa" […]
È questa estensione della guerra a ogni aspetto dell’attività umana che ci obbliga a scorgerne il carattere sostanzialmente politico, come dimostra nelle sue famose tesi "on War" lo stratega militare Karl von Clausewitz.
Mentre gli obiettivi politici determinano l’andamento della guerra, influendo su ogni sua singola fase, spetta al militare il compito di fare in modo che i capi politici non gli affidino compiti impossibili (come avvenne nel giugno 1941). In ogni fase i capi politici dovrebbero fare quanto possono per agevolare il compito dei militari, sfruttando tutte le armi politiche e psicologiche a loro disposizione. Era questa la vittoria a cui noi dello stato maggiore aspiravamo con l’aiuto degli ufficiali e dei soldati russi reclutati fra i prigionieri; e fu appunto questa vittoria che ci fu negata dai capi politici. A posteriori non ci resta che rammaricarci del fatti che Hitler (a differenza di Lenin, la cui conoscenza del pensiero di Clausewitz è testimoniata da numerose osservazioni marginali contenute nei suoi scritti) non si preoccupò di seguire più da vicino gli insegnamenti del maestro e di conformarsi a essi. Clausewitz affermò che la guerra non è che la continuazione della politica statale con altri mezzi […]
Nell’estate del 1941 la distruzione delle forze armate sovietiche era l’obiettivo il cui raggiungimento avrebbe creato le condizioni necessarie per la realizzazione dello scopo politico , e cioè delle intenzioni politiche di Hitler. Indiscutibilmente questo obiettivo non era stato raggiunti. Al contrario, gravi momenti di crisi erano stati superati solo con grandissima difficoltà e al prezzo della perdita di ingenti quantitativi di potenziale umano e di equipaggiamento che in pratica non avevamo alcuna possibilità di rimpiazzare, per non parlare della perdita di asti territori. Hitler voleva disperatamente riprendere in mano l’iniziativa nel 1942. Egli diede il via alle offensive in direzione di Leningrado e del Caucaso per ragioni di carattere economico. I suoi scopi non erano dunque principalmente politici, e infatti furono considerazioni economiche che influirono sulla scelta degli obiettivi militari. Ciò sarebbe stato comunque giustificabile alla luce dei criteri di Clausewitz se le offensive avessero avuto l’effetto di indebolire in modo permanente il nemico e costargli la guerra; o se, come spiega Clausewitz nel libro VIII, la conquista di questi punti focali avesse creato un clima più favorevole per una pace negoziata. Ma i pensieri di Hitler erano di tutt’altra natura.»
Più chiaro di così.
I Tedeschi si giocarono la sola carta veramente buona che avessero in mano, sul fronte orientale, allorché posticiparono, sconsideratamente e ostinatamente, l’arruolamento di un consistente esercito russo formato da volontari anticomunisti, e si abbandonarono, peraltro su precise indicazioni del Comando supremo dell’Esercito, ispirato sempre dal cattivo genio di Hitler, a una politica di saccheggi, atrocità e fucilazioni sommarie, alienandosi le iniziali simpatie. Era inevitabile: Hitler non aveva invaso l’Unione Sovietica per liberarla dal comunismo, come cercò di raccontare la propaganda dell’Asse, ma per sottomettere e schiavizzare il popolo russo e per depredarlo delle sue ricchezze. Non aveva nemmeno stabilito degli obiettivi strategici conclusivi: posto che le sue Forze armate fossero davvero riuscite a conquistare Mosca e gran pare della Russia Europea prima dell’inverno 1941-42, che cosa sarebbe successo? Conquistare l’Unione Sovietica è impossibile: nessun esercito, per quanto moderno e bene organizzato, potrebbe controllare le migliaia e migliaia di km. che corrono fino a Vladivostok. Qualunque invasore, pertanto, dovrebbe porsi degli obiettivi limitati: o concludere la pace, o, almeno, non inasprire la resistenza e la lotta partigiana. Anche se Stalin fosse caduto, i Russi avrebbero continuato a battersi, stavolta senza la bandiera con la falce e il martello, sostenuti da Britannici e Americani: non avrebbero deposto le armi e non sarebbero rimasti a guardare, mentre i nazisti bruciavano, saccheggiavano, sterminavano. Hitler riuscì nel difficile capolavoro si rinsaldare il comunismo mediante una gigantesca iniezione di nazionalismo, coalizzando i Russi contro di lui nella loro grande guerra patriottica, simile a quella del 1812 contro Napoleone, descritta da Tolstoj nel romanzo «Guerra e pace».
Quale conclusione trarre da questa pagina di storia? Questa, ci sembra: che un governo totalitario non può porsi obiettivi di guerra limitati, e quindi ragionevoli, una volta che la guerra, da locale, sia diventata generale, cioè totalmente ideologica e geopolitica. La sua stessa natura arbitraria, illegale, brutale, lo trascina verso obiettivi di guerra totali, vale a dire irrealistici. Nessuna potenza mondiale può ragionevolmente perseguire un potere mondiale assoluto: se lo tenta, prepara la sua fine con le proprie mani. È probabile che Hitler non mirasse affatto al potere mondiale, almeno non nel 1941: mirava a eliminare l’Unione Sovietica, a procurarsi lo "spazio vitale" ad Oriente e a concludere un accordo di coesistenza pacifica a Occidente, con la Gran Bretagna e, in prospettiva, con gli Stati Uniti. Il calcolo non era folle, conteneva anzi elementi di ragionevolezza: eliminare il comunismo e accordarsi con le democrazie; in fondo, quel che accadde, nel prosieguo della Seconda guerra mondiale, fu una alleanza fra le democrazie e lo stalinismo, contro di lui. Ma aveva sopravvalutato le forze della Germania e sottovalutato quelle del nemico: errore imperdonabile, che in guerra si paga sempre duramente. Ad aggravare l’errore, la sua condotta di guerra brutale contro il popolo russo, logica conseguenza del suo razzismo e del suo delirio circa il destino di dominio degli ariani e il destino di servaggio dei popoli slavi. Pertanto è inutile chiedersi cosa sarebbe successo se avesse ascoltato uomini intelligenti, come Gehlen: perché i totalitarismi ignorano il senso del limite.
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