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4 Settembre 2015
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4 Settembre 2015Sono ormai note, ed estremamente controverse, le tesi del russo Viktor Suvorov circa le origini e gli sviluppi della seconda guerra mondiale, che si possono riassumere in una formula tanto semplice quanto brutale: Hitler non fu affatto un leader della statura di Stalin, ma semplicemente il suo utile e inconsapevole "manovale".
L’obiettivo di Stalin, secondo Suvorov, era quello di conquistare l’Europa: per questo si stava preparando, e l’Armata Rossa era infatti dotata di potentissimi mezzi bellici di offesa; la difensiva, nel suo piano strategico, non era nemmeno prevista. Quando Hitler andò al potere, anzi, fin dal fallito "putsch" del 1923, il dittatore sovietico decise di puntare su Hitler, favorendolo in ogni modo e aiutando nascostamente il riarmo tedesco. L’ultima, anzi, la penultima mossa della sua strategia, fui il patto di non aggressione dell’agosto 1939, che di fatto diede avvio alla seconda guerra mondiale. Hitler, nei piani di Stalin, doveva avanzare verso Ovest come un "rompighiaccio", portando l’affondo contro le democrazie; dopo di che l’Armata Rosa lo avrebbe colpito alle spalle e si sarebbe spinta fino alle rive dell’Atlantico, trovando la Germania indifesa e la Francia, forse anche l’Inghilterra, già messe fuori combattimento dai Tedeschi. Avrebbe preso tutti lui, con il minimo di rischio e di fatica: l’Europa sarebbe stata sua e del comunismo.
Ora, se già le tesi "revisioniste" di Nolte, secondo le quali il nazismo altro non fu che la risposta al bolscevismo, e i lager altro non furono che la risposta ai gulag, e lo sterminio di razza altro non fu che la risposta allo sterminio di classe, avevano mandato fuori dai gangheri la maggior parte degli storici benpensanti e politicamente corretti, perché sembravano sminuire, in qualche modo, l’unicità del Male Assoluto nazista e, peggio ancora, mettere sullo stesso piano nazismo e comunismo, facendo del secondo una semplice "risposta" al terrore suscitato dal primo, quelle di Suvorov hanno suscitato, se possibile, reazioni ancor più negative, perché, facendo di Hitler un semplice manovale di Stalin, fanno del bolscevismo il vero, Grande Male del XX secolo: un Male che non solo precede, cronologicamente e ideologicamente (come voleva Nolte) quello nazista, ma, addirittura, subordina il secondo al ruolo di misera marionetta, destinata ad essere gettata via non appena ebbe svolto la funzione assegnata.
Il fatto è che molti, moltissimi storici contemporanei, anche e forse soprattutto quelli occidentali, hanno una lunga ma inconfessabile coda di paglia: vengono, ideologicamente, dalla sinistra marxista, dunque non possono in alcun modo accettare l’equivalenza fra nazismo e comunismo; anche dopo la caduta del Muro di Berlino, pur se non osano più dirlo apertamente, in cuor loro sono rimasti ancorati, nostalgicamente e sentimentalmente, alla loro visione del mondo, salvo qualche adattamento di facciata; Stalin è diventato, sì, il "cattivo", ma il comunismo, in se stesso, era buono, e anche l’Unione Sovietica, dopo tutto, ha svolto un compito utilissimo, anzi, indispensabile per la costruzione della moderna democrazia: ha dato un contributo fondamentale alla sconfitta del nazismo. E questo permette loro di lavare tutti i panni sporchi in casa.
C’è solo un piccolo particolare che non quadra: Suvorov non è un fascista, ma un ex alto ufficiale dell’Armata Rosa e un ex alto dirigente dei Servizi segreti sovietici; uno, insomma, che ha conosciuto molto bene, e dall’interno, i meccanismi politici e militari dell’Unione Sovietica; uno che ha le competenze per affermare che, nell’estate del 1941, quando scattò l’Operazione Barbarossa, ossia l’invasione dell’Unione Sovietica da parte dell’esercito tedesco, lo schieramento sovietico non era affatto difensivo, come sostiene la Vulgata storiografica oggi dominante, a Est come a Ovest, ma offensivo; e che proprio per questo Stalin fu preso in contropiede e ci mancò poco che i suoi machiavellici piani andassero all’aria.
Le tesi di Suvorov sono state efficacemente riassunte da Enzo Bettiza nel suo libro «Corone e maschere» (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2001, pp. 39-41), da cui ne riportiamo il passaggio centrale:
«Stalin riteneva che l’Europa era vulnerabile e conquistabile in caso di guerra. Fin da allora pensava che il "lavoro sporco" contro le democrazie occidentali avrebbe dovuto essere affidato al "rompighiaccio" in camicia bruna: Hitler, senza rendersi conto dei piani di Stalin, avrebbe dovuto sgomberare inconsapevolmente la via all’avanzata del comunismo sovietico sul continente europeo. Ma, per arrivare a tanto, bisognava prima sgomberare la via all’avanzata del nazionalsocialismo in Germania. Stalin la favorì con tutti i mezzi di pressione e di propaganda che il Komintern gli metteva a disposizione. Naufragato il conato rivoluzionario tedesco del 1923, il Komintern, qualche anno dopo, ordinò ai comunisti germanici di dichiarare una guerra totale alla socialdemocrazia, di non ostacolare l’ascesa del movimento hitleriano, di combinare anzi situazioni di omertà elettorale con i nazionalsocialisti contro i traditori della classe operaia, etichettati "social fascisti". Stalin sapeva bene che i comunisti, dopo la disfatta del ’23, non potevano più salire al potere in Germania. Se si voleva che la guerra come nel ’17 diventasse ancora la madre delle rivoluzioni, se si voleva scardinare l’Europa prima di conquistarla, la strada poteva essere una sola: riarmare l’esercito tedesco, offrirgli in territorio russo spazi e munizioni per le manovre, appoggiare al tempo stesso Hitler nella scalata ai vertici del Reich, poi stringere un patto con lui, coprirgli le spalle dandogli via libera per l’aggressione contro la Polonia e le democrazie europee. Scopo di Stalin era la distruzione della Francia e dell’Inghilterra ad opera della Germania nazista e, infine, La distruzione della Germania ad opera dell’Unione Sovietica. Qui, Suvorov finisce per riallacciarsi alle profetiche intuizioni espresse più volte da Trockij fra il 1933 e il 1939: "Stalin in definitiva ha dato luce verde a Hitler e così ha sospinto l’Europa verso la guerra". Siccome la storia non si lascia programmare fino in fondo, le cose andarono diversamente. Ma non del tutto diversamente. Hitler non capì il grande gioco che, forse, avrebbe potuto almeno in parte volgere a proprio vantaggio; violò i patti; prese l’URSS in contropiede; la aggredì a sorprese. Iniziò a suicidarsi prima dei tempi calcolati e auspicati da Stalin per il suo suicidio. Quella follia suicidiaria teutonica doveva sconvolgere per due anni, fino a Stalingrado, i progetti a più lunga scadenza del maestro di scacchi sovietico. Stalin, che aveva impostato gli immensi arsenali dell’URSS per una guerra offensiva, per l’invasione della Germania e dell’Europa dissanguate dalla guerra, si trovò completamente sprovvisto difensive con cui resistere all’attacco tedesco. Osserva il tecnico militare Suvorov: "Avevamo formidabili cacciabombardieri costruiti non per battagliare nel cielo ma per colpire aeroporti e città oltrefrontiera. Avevamo i più veloci blindati del mondo, dotati però di una strana caratteristica: ripetevano in chiave tecnologica moderna la mobilità delle cavallerie leggere di Gengis Khan contro i centauri feudali catafratti, uomo e destriero, in panoplie di ferro. Quei carri armati potevano addirittura sbarazzarsi dei cingoli e proseguire su ruote, correndo a una velocità di cento chilometri orari. Quindi, come s’è poi dimostrato, del tutto inutilizzabili in una strategia difensiva sulle pessime strade sovietiche; ma potenzialmente utilizzabilissimi sulle ottime autostrade germaniche in una strategia offensiva". Se Hitler avesse rispettato il "Teufelpakt", il "patto col diavolo", Stalin con la sua cavalleria veloce avrebbe forse potuto spingersi, al momento opportuno, dagli Urali all’Atlantico. L’ingenuo Roosevelt lo aiuterà ad arrivare comunque fino all’Elba; metà conquista, se non tutta, verrà realizzata…»
Non possiamo dire quanta parte di verità vi sia in questa ricostruzione della genesi della seconda guerra mondiale; molta, crediamo, in ogni caso. Se lo schieramento sovietico sulla frontiera tedesca fosse o no difensivi, nell’estate del 1941, discutono ancora gli storici militari, ci proponiamo di ritornare sull’argomento, riportando anche il parere di un autorevole esperto, B. H. Liddel Hart. Una cosa, però, ci appare evidente: Stalin non pensava affatto alla pace, nell’estate del 1939; non pensava nemmeno a collaborare seriamente con le democrazie occidentali contro la Germania nazista; non gli importava nulla del destino della Polonia, al contrario, voleva vendicarsi della sconfitta nella guerra sovietico-polacca del 1919-21; pensava già di annettersi i Paesi Baltici e parte della Finlandia e della Romania, come pedine avanzate del suo gioco; ma, soprattutto, pebsava in grande: pensava alla conquista dell’Europa. Vedeva lucidamente, da buon erede degli Zar, che mai come allora, dai tempi della campagna contro Napoleone del 1814, la Russia aveva le carte buone per spingersi fino all’Atlantico e porre l’intero continente sotto il suo protettorato.
Suvorov espone le sue tesi in un libro che è stato tradotto e pubblicato in Italia (Spirali, 2000) con il titolo: «Stalin, Hitler: la rivoluzione bolscevica mondiale», che bene sintetizza la sua idea di fondo: Hitler come semplice "manovale" di Hitler, il nazismo come semplice "rompighiaccio" del bolscevismo proiettato alla conquista del mondo. Già, perché nel 1939, più ancora che nel 1914, era questa la posta in gioco: la conquista del mondo. E nessuna potenza come l’Unione Sovietica vi si stava preparando, silenziosamente ma tenacemente, metodicamente, inflessibilmente. Tutta la sua politica interna — lo sterminio dei kulaki, l’industrializzazione forzata, le grandi purghe staliniane — era pensata in funzione di questo obiettivo di politica internazionale.
La dottrina del "comunismo in un solo Paese" era valida sul breve periodo; sul medio e su quello lungo, gli scopi finali di Stalin si spingevano molto più lontano, a tutta l’Europa e, di conseguenza, a gran parte del mondo. Il resto sarebbe venuto poco a poco, grazie all’azione dei partiti e dei gruppi comunisti locali: ovunque essi erano pronti a eseguire qualunque ordine di Stalin. A Barcellona per fucilare gli anarchici, a migliaia; a Città del Messico per assassinare Trotzkij; a Giakarta, più tardi (nel 1965), per prendere il potere con un colpo di Stato, mediante l’avallo di Sukarno. E, se alla fine del gioco l’Unione Sovietica non è riuscita a conquistare l’Europa e il mondo, ha però occupato metà del continente europeo, fino all’Elba e ai confini austriaci, e una bella fetta di quello asiatico, Cina, Corea del Nord e Vietnam del Nord compresi. Non male, se si pensa che, fino all’ultimo, i comunisti occidentali hanno sostenuto, anche in sede storiografica, che Stalin si stava preparando a fare la guerra contro la Germania, senza altri scopi che non fossero di natura puramente difensiva; e che il patto Molotov-Ribbentrop aveva unicamente questo scopo.
La realtà è che, nel 1939, gli attori del grande gioco erano tre, non due: il bolscevismo sovietico, il nazismo tedesco (con l’appendice del fascismo italiano e del militarismo giapponese) e le democrazie occidentali, compresa la più potente di tutte, che però fu abbastanza astuta da non intervenire direttamente se non quando vi fu trascinata, apparentemente controvoglia: gli Stati Uniti d’America. Stalin voleva servirsi del nazismo per fare fuori, o per indebolire in maniera decisiva, le democrazie, e poi far saltare il banco con un’unica puntata. Le democrazie volevano guadagnare tempo e non escludevano di poter attirare nel loro gioco l’Unione Sovietica, anche prima dell’Operazione Barbarossa: tanto è vero che dichiararono guerra alla Germania per l’invasione della Polonia, ma si guardarono bene dal dichiarare guerra all’Unione Sovietica che, qualche giorno dopo, aveva attaccato la Polonia a sua volta, colpendola ignominiosamente alle spalle. Né le dichiararono guerra quand’essa rivolse le armi contro la neutrale Finlandia — eppure l’invasione del Belgio neutrale, nel 1914, era stato il pretesto per l’intervento inglese contro la Germania. E il mondo intero, compresi i due diretti antagonisti, finse di non vedere quando si accese una breve, ma furibonda guerra non dichiarata fra l’Armata Rossa e l’esercito giapponese ai confini della Manciuria e della Mongolia, sempre nel 1939. I Giapponesi, però, se la legarono al dito: si sentirono abbandonati da Hitler e, più tardi, non si unirono ai Tedeschi quando, durante la battaglia di Mosca dell’inverno 1941-42, le sorti del regime di Stalin erano appese a un filo.
Le democrazie, in quel fatale 1939, non erano più desiderose di pace di quanto lo fossero i due dittatori; anch’esse aspettavano il momento giusto per sferrare il colpo. O, almeno, tale era la posizione di Churchill e, forse, di Roosevelt. Speravano di scagliare i due totalitarismi l’uno contro l’altro; se la videro brutta quando essi, invece, parvero mettersi d’accordo: da sole contro entrambi, temevano di non farcela. Con quale dei due allearsi temporaneamente, non era un problema politico e tanto meno etico, ma solo e unicamente strategico. La minaccia più immediata era quella di Hitler: per questo bisognava eliminarla per prima. Ma anche per fermare la rinascita economica tedesca…
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