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17 Agosto 2015La società moderna abbisogna, in pace e in guerra, del tecnico “puro”: efficiente e disumano

Albert Speer (Mannheim, 19 marzo 1905-Londra, 1° settembre 1981) è stato il perfetto prototipo del tecnico "puro" al servizio di un regime politico e di una impresa militare: come ministro degli Armamenti e della produzione bellica, dal febbraio del 1942 alla fine della Seconda guerra mondiale, ha compiuto meraviglie nel concentrare, razionalizzare, potenziare e perfezionare il sistema produttivo e bellico della Germania hitleriana.
Basti dire che proprio nell’ultimo anno di guerra, quando ormai il Terzo Reich era sottoposto all’avanzata convergente dei suoi nemici occidentali e orientali, e quando l’aviazione alleata riduceva in cenere, una dopo l’altra, le città tedesche; proprio in quell’ultimo anno, quando, dopo l’attentato a Hitler da parte del gruppo di congiurati di Stauffenberg, la polizia politica si accanì con particolare ferocia contro ogni oppositore, reale o potenziale, e mentre l’esercito e la popolazione civile tedeschi subivano il numero più alto di perdite, Speer seppe portare ai massimi livelli la produttività delle industrie belliche, quasi tutte trasferite in centrali sotterranee, a prova di bomba, e servite da personale schiavizzato, proveniente dai campi di concentramento. La guerra era ormai irrimediabilmente persa, anzi, la fine era imminente: eppure la macchina industriale tedesca girava a pieno ritmo e, se solo non avesse dovuto fronteggiare una coalizione mondiale formata da gran parte degli stati del pianeta, è ben difficile immaginare che qualcuno sarebbe riuscito ad opporvisi con qualche speranza di successo.
Ma chi era quest’uomo, che Hitler riceveva personalmente con la massima cordialità e con il massimo rispetto e, anzi, con ciò che di più simile può esservi all’amicizia, se l’amicizia fosse un sentimento che il Führer era in grado di provare per qualcuno? Non era un militare dalle medaglie sfavillanti; non era un energumeno di partito; vestiva in borghese, non senza ricercatezza; non amava le parate, non amava le scenografie, non amava le uniformi: era, insomma, l’esatto contrario dei principali accoliti di Hitler, da Göring a Himmler, da Hess a Goebbels. Non aveva nulla di ciò che caratterizzava il nazista convinto e fanatico; non era brutale e neppure amante del fasto, vale a dire corrotto; nondimeno, era il solo uomo al quale Hitler aprisse la porta con autentico piacere, con il quale stesse a parlare per ore ed ore, e col quale avesse sognato di rifare, di sana pianta, l’urbanistica delle principali città tedesche ed austriache, a cominciare da Berlino. Semplici affinità "sentimentali" tra l’architetto di successo e l’architetto fallito? O, addirittura, come qualcuno ha ipotizzato, una vera e propria attrazione omoerotica da parte del dittatore nazista? Ma tutto ciò non spiegherebbe ancora il "mistero" Speer: che è stato, a ben guardare, più semplice, ma anche più complesso, di quanto potrebbe apparire a prima vista.
Speer è il prototipo dell’uomo "nuovo"; non in senso nazionalsocialista (o fascista, o comunista), ma proprio in senso taylorista e organizzativo: l’uomo del quale tutti gli stati moderni hanno bisogno, in pace e in guerra, e che non si fa scrupolo di porsi al servizio di qualunque regime, perché non gl’importa nulla se non di due cose: mettere alla prova il proprio talento manageriale, e strappare per sé il massimo del potere e della visibilità, ottenendo il massimo della gratificazione. In fiondo, è lo stesso tipo di von Braun, che, dalle V1 e dalla V2 naziste, è passato ai razzi spaziali americani per la conquista della Luna; ma anche, si faccia attenzione, di Enrico Fermi o Leo Szilard, che hanno posto le loro conoscenze scientifiche al servizio della superpotenza americana, così come avrebbero fatto, se si fossero presentate le circostanze adatte, per qualsiasi altro potere. L’importante, per essi, era poter condurre sino in fondo le loro ricerche ed i loro esperimenti.
Ha osservato Joachim C. Fest nella sua celebre monografia «Speer. Una biografia» (titolo originale: «Speer. Eine Biographie», Berlin, Alexander Fest Verlag, 1999; traduzione dal tedesco di Umberto Gandini, Milano, Garzanti, 2000, pp. 409-411):
«Nella primavera del 1944 Sebastian Haffner pubblicò sul londinese "Observer", sotto il titolo "Albert Speer — Dictator of the Nazi Industry — un breve ritratto del ministro tedesco degli armamenti. Il profilo dimostrava che conosceva con sorprendente precisione le vicende personali, le capacità e il carattere di Speer, e concludeva con una pessimistica previsione: Speer era un giovanotto "decisamente sicuro di sé", scrisse Haffner, on certo un "nazista vistoso e pittoresco", ma "l’uomo medio di successo, ben vestito, beneducato, non corrotto". In un certo senso era diventato "più importante per la Germania di Hitler, Himmler, Göring, Goebbels o dei generali, i quali sono tutti ridotti in qualche modo a essere nient’altro che dei collaboratori di quest’uomo. […] in cui scorgiamo la realizzazione della rivoluzione dei manager". Speer, si poté leggere ancora nell’articolo, simboleggiava "il tipo d’individuo che sta diventando sempre più importante in tutti gli Stati impegnati nella guerra: il tecnico puro, l’uomo dalle brillanti attitudini che, a prescindere dalle radici sociali e senza disporre d’un suo patrimonio, non ha altro obiettivo che quello di far strada nel mondo […]. E sono proprio l’assenza di condizionamenti psicologici e spirituali e la disinvoltura con cui maneggiano i meccanismi paurosi della nostra epoca" a consentire a lui e ai giovani della sua sorta di "fare molta strada […]. Questo è il loro tempo. Degli Hitler e degli Himmler potremo anche sbarazzarci. Magli Speer, qualunque cosa possa loro individualmente accadere, rimarranno ancora a lungo fra di noi".
In effetti Speer mostrò il tipo del futuro, pragmatico, ambizioso, senza convinzioni, e l’estraneità che aveva sempre avvertito in mezzo ai personaggi di maggior spicco del regime era fondata appunto su questo. Se la tesi della doppia faccia del Terzo Reich è esatta, lui ne rappresenta il lato moderno, e significativamente non riuscì a cogliere nei tratti arcaici e stravaganti del’ideologia dominante, nella "voracità dei popoli", nei "bastioni di sangue germanico", nella "missione di risanare il mondo", null’altro che "pagliacciate". Tutto il disprezzo che provava non bastò tuttavia a frenarne la smania di emergere e la voglia di partecipare. Anzi, mascherò e nascose efficacemente il sostrato di follia di quella dominazione conferendole quella determinazione tutta rivola all’avvenire cui il nazionalsocialismo dovette la maggior parte della sua forza d’attrazione.
Tre anni circa dopo il ritratto di Haffner, nell’estate del 1947, apparve lo studio di Hugh-tTrevor-Roper sugli "Ultimi giorni di Hitler". Basandosi su numerose testimonianze di funzionari del regime che erano riusciti a sottrarsi allo sfacelo, delineò un quadro preciso della fine del Reich e tratteggiò, assieme a tanti altri profili, anche un ritratto palesemente molto impressionato di Albert Speer, Lo caratterizzò come l’unico uomo alla corte di Hitler "le cui capacità di giudizio non siano state corrotte dall’essere stato al servizio di quello spaventoso maestro" e definì un "mistero" che Speer fosse "riuscito a sopravvivere come figura solitaria e scostante in quella congerie di vigili e vendicativi intriganti". !"Come amministratore è stato indubbiamente un genio", proseguì Trevor-Roper, "le sue ambizioni erano paco fioche e costruttive: avrebbe voluto riedificare Berlino e Norimberga". Poi, dopo queste considerazioni tutto sommato positive, seguiva, repentino, il cambio di registro con cui restrinse l,’ampia prospettiva delineata da Haffner alla particolarità tedesca: "Eppure, da un punto di vista politico, è Speer l’autentico criminale della Gerania nazista. Perché è stato lui a rappresentare più intensamente di ogni altro quella fatale filosofia che ha devastato la Germania e quasi sospinto il mondo intero alla rovina". "L’intelligenza acuta gli ha permesso di riconoscere la vera natura del regime nazista e della sua politica, di osservarne le trasformazioni, ne ha ascoltato gli ordini sfrenati e ne ha capito le allucinanti mire, eppure… non ha fatto niente". Quest’accusa non metteva in discussione soltanto le argomentazioni con cui Speer cercava di giustificarsi, ma anche e più in generale quelle di tutta la Germania che si era tenuta alla larga dalla politica durante la dominazione hitleriana e di cui Speer, agli occhi della storico britannico, era addirittura l’espressione più rappresentativa. Nessuno impersonava meglio di lui il tipo del suddito imperturbabilmente leale, indifferente, dedito a coltivare le proprie private ambizioni. Proprio perché lui e tanti altri come lui si erano tenuti alla larga da ogni politica e insistevano ora nell’affermazione di non aver fatto altro che ciò che aveva no ritenuto il loro "dovere", avrebbero reso possibile il costituirsi del regime e il verificarsi degli orrori che causò. Uomini come Sauckel, Ley e Streicher non spiegavano nulla, perché "desperados" sociali della loro specie esistevano in ogni collettività. Costituivano solo il nucleo centrale, sempre fingibile della truppa di Hitler:; gli Speer, invece, e con lui gli innumerevoli altri tedeschi che si erano attenuti all’adempimento puntuale e acritico del dovere, no.
Può darsi che le cose siano andate proprio così, ammise Speer sempre più spesso col passare degli anni. Ovunque si volgesse, il mondo era pieno di "tecnocrati" o anche di altre persone che anteponevano i propri egoismi a ogni pubblico interesse. Ma allora, si domandava, da dove traevano la sicurezza con cui si ergevano a giudici della sua persona e del suo comportamento? Gli spesso giovani accusatori che si levavano un po’ ovunque per puntare il dito contro di lui non erano forse anch’essi partecipi di quella tradizione, o il filo si era improvvisamente spezzato? In una situazione analoga, avrebbero saputo dimostrare una più precisa capacità di giudizio, maggior forza morale e anche una maggiore saldezza di principi? E anche una minor paura dell’emarginazione sociale, della posposizione professionale e della violenza?»
In effetti, Albert Speer, più che un individuo, è un autentico prototipo umano il prototipo del tecnico, dello specialista e del burocrate impersonale, efficiente, amorale, buono per tutte le stagioni e più che disposto a servire qualsiasi regime, purché vi siano prospettive di carriera e di successo che appaghino la sua smodata ambizione.
Gli appassionati di carri armati possono appassionarsi alla figura di Rommel, o a quella di Guderian; gli appassionati dell’aviazione, alle imprese di assi leggendari, come Adolf Galland, e quelli della marina, a quelle di ammiragli come Lütjens; ma la verità è una sola: che uomini come Rommel, Guderian., Galland e Lütjens, messi tutti insieme, hanno esercitato un peso minore, sul corso della Seconda guerra mondiale, di quanto ne abbia esercitato un solo uomo come Albert Speer. La guerra moderna non ha bisogno né di geni strategici, né di eroi: ha bisogno di abili ed efficienti pianificatori della produzione industriale; di intraprendenti e infaticabili manager, capaci di reperire e utilizzare al meglio fino all’ultimo litro di benzina e fino all’ultimo chilo di esplosivo, di rastrellare le ultime risorse, di inquadrare l’ultimo lavoratore, di fondere l’ultimo anello d’oro: perché, nelle guerre moderne, non sono i cannoni, ma le banche a determinare la decisone finale. Vince chi possiede il più sofisticato sistema di produzione fordista, chi possiede le più efficienti catene di montaggio: non certo chi sa adoperare con più intelligenza le armi e i soldati.
È semplicemente ridicolo, ad esempio, presentare il maresciallo Montgomery come il vincitore della battaglia di El Alamein e della campagna d’Africa: il vero vincitore fu il sistema industriale e finanziario britannico, sostenuto dalla potenza americana. I pochi fanti e carristi italo-tedeschi nulla avrebbero potuto contro una simile smisurata entità: tanto è vero che, se avessero espugnato El Alamein, come già avevamo espugnato Bengasi e Tobruk, e si fossero spinti fino ad Alessandria e al Cairo, se avessero dilagato fino nel Delta e sul canale di Suez, non avrebbero, nemmeno allora, strappato la decisione: perché il sistema industriale-finanziario britannico non aveva un centro, ne aveva dieci o venti; e, per giunta, aveva dalla sua tanto il dominio dei mari, quanto il fattore tempo.
E quello che abbiamo detto di Speer, vale per tanti altri manager simili a lui, di allora e più tardi; e vale per tanti tecnici della finanza, dell’economia, dell’industria, della scienza, che sono pronti a mettere le loro competenze al servizio di qualunque causa, purché siano messi in grado di portare sino agli esiti estremi le loro ricerche e, insieme, le loro ambizioni. Gli "esperti" della agenzie di rating rientrano in questa categoria; ma anche molti ricercatori nell’ambito della biologia, della chimica, della genetica, della produzione industriale. Ernest Jünger lo aveva compreso e ne aveva parlato, fin dall’indomani della Prima guerra mondiale.
Se il destino del mondo è nelle mani dei tecnici, non è in buone mani. Essi sanno dove condurci, ma non sanno perché; ignorano cosa vada fatto, ma sono maestri nel modo di fare le cose. Nessuno, nemmeno i più alti poteri politici, possono fare a meno di essi. Il futuro è loro: ma essi, di chi sono?
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