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L’eurocentrismo, bersaglio spuntato dei filosofi “politicamente corretti”

Dire che la nostra cultura è ammalata di eurocentrismo, e che l’eurocentrismo è la versione nostrana di quel male assoluto che è l’etnocentrismo, è dire una cosa ormai talmente abusata, che, per quanto politicamente corretta e, anzi, imprescindibile — o almeno ritenuta tale – nei salotti buoni dell’intellighenzia italiota, non ha più alcun senso comune, se non come verità ovvia o, peggio, come versione mascherata di quello sport sempre di gran moda fra i nostri intellettuali, che è quello della denigrazione sistematica della nostra civiltà, dei suoi presupposti, del suo sviluppo storico, dei suoi esiti e di tutti i suoi valori.

Perché si tratta di una verità, indubbiamente; ma, siamo onesti, di una mezza verità: perché la verità complessiva è un’altra, e cioè che non sarebbe giusto (oltre che possibile), per un Europeo, prescindere dalle proprie radici culturali; e non sarebbe bello, né giustificato, buttare ogni cosa alle ortiche, proclamarsi pentito e contrito di tutto, sputare su ogni cosa da esse prodotta, dalla politica all’arte, dalla filosofia alle scienze, per non parlare della spiritualità e della religione — solo per magnificare e levare fino alle stelle le altre culture, per l’unica ragione che sono "altre", e, magari, "native" quanto basta per rispolverare il nefasto e imbecille mito russoviano del Buon Selvaggio, ossia una delle pietre miliari che hanno contrassegnato la marcia sistematica verso il suicidio morale e intellettuale della nostra civiltà.

Eppure questi preti alla rovescia, questi transfughi dalla nostra civiltà, che non son capaci di ammettere quanto ad essa siano debitori, se non altro in senso puramente biologico, credono che non vi sia altro modo, per farsi perdonare dagli altri popoli e dalle altre culture le violenze delle crociate, l’inumanità della tratta, le stragi dei "conquistadores" e lo sfruttamento del colonialismo, se non quello di insultare la propria civiltà, disprezzare le proprie radici, vergognarsi ed arrossire di tutto ciò che i nostri padri, pur fra errori e traviamenti – che indubbiamente ci sono stati – ci hanno trasmesso e che, dopo tutto, hanno fatto grande la piccola Europa (10 milioni di kmq. contro i 44 dell’Asia, i 42 delle Americhe e i 30 dell’Africa), attirando anche moltissimi giovani degli altri continenti verso le nostre università, verso la nostra filosofia e la nostra letteratura, verso Omero e Virgilio, verso Dante e Bach, verso tute le nostre manifestazioni artistiche e verso la semplice bellezza e le insondabili profondità teologiche della religione cristiana.

Fra i predicatori di relativismo e di auto-denigrazione sistematica si annoverano molti nomi di pensatori contemporanei; ci piace riportare qui il "vademecum" del perfetto filosofo politicamente corretto, riassunto in questa pagina di Dario Antiseri (da: D. Antiseri, «Laicità. Le sue radici e le sue ragioni», Cosenza, Rubbettino, 2010):

«Non è raro il caso in cui è possibile vedere che interi popoli, per periodi spesso lunghi della loro storia, tendono a riferire in modo unilaterale a se stessi tutta la realtà, a ritenersi al centro della storia, a credere i propri valori (religiosi, etici, politici, estetici, ecc.) gli unici giusti; essi tendono, in sostanza, a ritenersi superiori agli altri. Questo atteggiamento si chiama etnocentrismo. E trova, per esempio, eloquenti testimonianze in miti, denominazioni etniche e nomi geografici. Così, proprio a proposito delle "denominazioni geografiche", vediamo che termini come Esperia (che significa "terra della sera" = occidente), nome con cui i Greci designavano l’Italia, o altri termini da noi usati, come Medio Oriente, Estremo Oriente, hanno un senso solo se si assume la propria posizione come centrale; ma se il punto di vista cambia, le designazioni non rispondono più alla realtà come era vista prima; anzi, i termini potrebbero addirittura invertirsi,; la riprova è data dal fatto che un Giapponese non accetterebbe mai di chiamare il proprio Paese "Estremo Oriente".

Un simile modo di rapportarsi agli altri è la prima e più spontanea forma di etnocentrismo; atteggiamento questo così diffuso tra i gruppi umani che gli studiosi di discipline come l’antropologia o la sociobiologia lo ritengono biologicamente fondato, pensano cioè che sia funzionale alla sopravvivenza: la difesa dal diverso, che può anche essere un nemico, serve a mantenere intatta l’identità culturale del gruppo preservandolo da minacce esterne. Qui, però, sorge una questione: se simile atteggiamento non ci appare di solito condannabile, allora perché mai l’etnocentrismo costituisce un problema? Ebbene, esso costituisce un problema per la ragione che da questo atteggiamento spontaneo, di per sé non negativo, si può sviluppare un fenomeno che consideriamo molto negativo: il razzismo.

Quando la xenofobia (etimologicamente: "la paura dello straniero") si trasforma in ideologia — cioè nell’elaborazione cosciente di teorie che stabiliscono gerarchie tra gruppi umani, le razze — e quando l’enunciazione di dottrine che predicano la violenza si traduce in fatti concreti di persecuzione nei confronti di quelli creduti inferiori, siamo di fronte al razzismo.

L’eurocentrismo — forma nostrana di etnocentrismo — è la credenza che la civiltà europea — con tutte le sue acquisizioni "umanistiche", "scientifiche" e "tecnologiche" — sia una civiltà "superiore" a tutte le altre. Una credenza, questa, che nel passato è stata utilizzata da strumento di giustificazione delle avventure del colonialismo: l’idea dell’"inferiorità" altrui e quella della "missione civilizzatrice" delle nazioni europee sono servite per motivare azioni che altrimenti sarebbero apparse ripugnanti.»

Ebbene ci piacerebbe sapere, alla luce di questa pagina di prosa che manda in solluchero tutti i signori e le signore politicamente corretti, quale mai civiltà umana, antica o moderna, piccola o grande, tecnologicamente evoluta oppure no, non abbia avuto la tendenza a considerare se stessa come il centro della storia umana, del destino umano, della sapienza e saggezza umane. Forse i popoli primitivi, fra i quali è così frequente che il nome del proprio popolo significhi, semplicemente, "uomini", come dire che non uomini, o non del tutto uomini, sono i membri delle altre etnie e delle altre civiltà? Eppure, a scuola, i manuali di storia politicamente corretti, maneggiati dai professori politicamente corretti, inculcano nella mente dei loro alunni che soltanto in Occidente è allignata la mala pianta dell’etnocentrismo; che solo i Greci, e dopo di loro i Romani, avevano il vezzo di chiamare "barbari", e di trattare in conseguenza, quanti non erano né Greci, né, più tardi, Romani; e si dimenticano, più o meno, di ricordare a quegli stessi alunni che il salto verso il superamento di questa mentalità ingenuamente etnocentrica non è stato fatto per merito dell’Illuminismo e dei vari Voltaire e Rousseau, con o senza i loro improbabili Buoni Selvaggi, ma dal cristianesimo, che per primo ha scavalcato le barriere di razza e di casta e per primo ha predicato la fratellanza, e dunque l’uguaglianza, di tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla lingua, dalle origini, dal censo e così via.

Oppure passiamo a considerare le civiltà più evolute: per esempio, quell’antica Cina. Forse che i sudditi del Celeste Impero non si sentivano di gran lunga superiori a qualunque altro abitante del pianeta al di fuori dei loro confini? Forse che non chiamavano "barbari", e anche "diavoli", tutti gli stranieri che si presentavano alle loro frontiere o davanti ai loro porti marittimi? E forse che i Giapponesi, divenuti a loro volta, sudditi di un potente Impero, in epoca assai più recente e a noi vicina, non hanno sfoggiato un orgoglio di razza così aggressivo e radicale, così violento e spietato, da far arrossire quello degli antichi sovrani assiri e babilonesi? Forse che non hanno inferito, durante la Seconda guerra mondiale, contro i prigionieri inermi, compresi i civili, le donne e i bambini? Forse che non hanno compiuto, fra i loro cugini di razza, nelle regioni asiatiche da essi occupate, orrori e misfatti, come i massacri di Nanchino, sì da ricordare le montagne di teschi accumulati da Attila, Gengis Khan e Tamerlano nel corso delle loro guerre di devastazione e di saccheggio, e in misura tale da far rimpiangere, nei pochi anni delle loro vittorie, i secoli della dominazione coloniale europea? I Giapponesi si ritenevano stirpe divina, e non esitavano a utilizzare i Mancesi o i Cinesi come cavie umane per mostruosi esperimenti di guerra batteriologica, né a far morire di stenti i prigionieri occidentali, mentre li sottoponevano a massacranti lavori per la costruzione di strade, ponti e ferrovie.

Ma, per venire ai nostri giorni, che dire dei fondamentalisti islamici che ammazzano i cristiani in quanto tali, e non solo quelli di origine occidentale, ma anche le antichissime minoranze cristiane che esistevano già, in Nord Africa, in Egitto, in Siria, in Mesopotamia, secoli prima che si diffondesse il verbo di Allah per bocca del profeta Maometto? Che tagliano le teste, violentano le donne, rapiscono i fanciulli, e non solo dei cristiani, ma anche di altre minoranze religiose, come gli Yazidi? Che fanno saltare con la dinamite le ciclopiche e vetuste sculture di Bamyjan, perché non sopportano la presenza della "immonda" religione buddista, anche se solamente allo stato di rovine archeologiche vecchie di secoli e secoli?

Certo che Antiseri, bontà sua, riconosce come l’eurocentrismo sia un fenomeno socioculturale spontaneo e universale, perfino utile dal punto di vista biologico, in quanto strumento di difesa dal diverso, che può essere un aggressore. Poi, però, senza frapporre indugi, passa dall’etnocentrismo al razzismo, dal fenomeno buono a quello cattivo, e dice che qui sta il problema e qui sorge il pericolo: quasi che l’Europa avesse il monopolio del razzismo, o storicamente l’abbia avuto, mentre la cosa è lontanissima dal vero. Gli Hutu e i Tutsi del Ruanda si odiavano e si disprezzavano ben prima che l’uomo bianco si affacciasse sugli altipiani del’Uganda, anche se — bisogna ammetterlo — esso si è servito di quell’odio per meglio sottomettere entrambe le popolazioni. Huroni e Irochesi si odiavano e si disprezzavano molto prima che l’uomo bianco si affacciasse sulle foreste del Canada, anche se — bisogna, di nuovo, ammetterlo — quest’ultimo ha approfittato di tali rivalità secondo i suoi interessi. I Turchi hanno sterminato gli Armeni tra la fine dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale, proprio in nome di considerazioni di razza; e la stessa cosa hanno fatto, ancora i Turchi, con i Greci di Smirne, all’indomani della Grande guerra. L’elenco sarebbe lunghissimo: potrebbe continuare per centinaia di pagine. L’Europa non ha mai avuto il monopolio del razzismo, né della violenza etnica. I Boxer cinesi, nel 1900, massacravano tutti gli Europei e tutti i Cinesi convertiti su cui riuscivano a metter le mani, come i Mau Mau del Kenya fecero con le famiglie dei coloni britannici, e come i Bantu di Zanzibar fecero ai danni della minoranza araba, massacrata senza pietà per vendicare lo schiavismo… di quattro secoli prima.

Ora, lungi da noi voler negare, come dice Antiseri, che la credenza nella superiorità della civiltà europea «nel passato è stata utilizzata da strumento di giustificazione delle avventure del colonialismo: l’idea dell’"inferiorità" altrui e quella della "missione civilizzatrice" delle nazioni europee sono servite per motivare azioni che altrimenti sarebbero apparse ripugnanti». Da ciò non consegue, però, né che il colonialismo europeo (perché il colonialismo, come del resto la tratta degli schiavi africani, non è stato solo un fenomeno europeo) sia stato unicamente razzista, e dunque unicamente negativo; né che tutti gli Europei si siano prestati a tale strumentalizzazione e che abbiano avuto, nel rapporto con altre civiltà e culture, una attitudine esclusivamente predatrice; né, infine, che solo gli Europei abbiano creduto nella propria intrinseca superiorità e che solo essi si siano serviti di una tale credenza per imporre, con svariate forme di violenza, non solo materiale ma anche morale, forme di predominio e sfruttamento a danno di altri popoli e culture.

È vero, invece — ma questo i filosofi politicamente corretti, laicisti e relativisti, si guardano bene dal ricordarlo — che è nel corso della storia europea, a partire dal giudaismo e poi, soprattutto, con il cristianesimo, e con la elaborazione filosofica di esso da parte di Agostino e Tommaso, che l’umanità — l’umanità tutta, indipendentemente dal luogo e dalla razza — è pervenuta al concetto di "persona", prima ignorato; e che col cristianesimo, e in gran parte per opera del cristianesimo, è nata l’idea della dignità congenita di ogni singolo essere umano, del suo diritto alla vita e alla libertà, della sua uguaglianza rispetto ai propri simili, ivi compresi i bambini, le donne — prima giuridicamente irrilevanti in quasi tutte le culture — e, novità delle novità, gli schiavi, i malati, i deformi, i pazzi, insomma tutti gli esseri umani, senza eccezione alcuna. Idea che l’illuminismo ha semplicemente ripreso e riverniciato, espurgandola di ogni riferimento religioso — e togliendole, con ciò, la sua più solida base: la paternità divina degli uomini, che li rende, per forza di cose, fratelli tra loro — e presentandola come una sua "scoperta", nel segno della laicità, della razionalità, della tolleranza, eccetera eccetera. E creando la matrice di quella cultura laicista e radicale, oggi predominante in Europa, secondo la quale, ad esempio, un bambino non ancor nato non è "persona", e dunque non ha diritto alcuno, neanche quello più elementare — il diritto di venire al mondo; per non parlare dei bambini non ancora nati che presentano qualche difetto o imperfezione fisica, e che i loro genitori sono autorizzati a sopprimere nel ventre materno, perché, in tale prospettiva culturale, solo i sani, i belli, i forti, hanno il diritto alla vita.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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