
Grazie, Aquila Rossa!…
30 Luglio 2015
La disputa fra realismo e nominalismo: lo spazio geometrico è un oggetto “reale”?
30 Luglio 2015È stata eroica, la morte di Adolf Hitler; o, comunque, vi sono in essa elementi di grandezza tragica, e sia pure avvolti da bagliori sulfurei; oppure è stata, puramente e semplicemente, la squallida fine di un mostruoso tiranno, forse di uno psicopatico che, vedendo crollare il proprio edificio, ha voluto sottrarsi al giudizio degli uomini?
Posta così, la domanda potrebbe sembrare inutilmente provocatoria: tanto più — non lo si ripeterà mai abbastanza — che di essa non sappiamo abbastanza; non sappiamo, nemmeno, con assoluta certezza, se si trattò di un suicidio o di un omicidio (vedi, ad esempio, l’ormai classico libro-inchiesta di Henri Ludwigg, «L’Assassinio di Hitler», edito in Italia da Longanesi), per non parlare delle voci relative ad una sua, invero improbabile, fuga, a bordo di un sottomarino oceanico, che lo avrebbe portato addirittura in Sud America, permettendogli di sfuggire all’onta del processo di Norimberga e garantendogli una vecchiaia ritirata e tranquilla, sotto falso nome, come ad altri gerarchi nazisti rifugiatisi in Cile, Argentina e Paraguay).
Eppure, non si tratta di una banale provocazione: del resto, quale uomo dotato d’un barlume di senso morale avrebbe mai voglia di fare una cosa del genere, davanti al doppio mistero della morte di un uomo, e della coscienza dei crimini commessi, che egli ha portato con sé nel mistero supremo della tomba? Eppure, davanti alla storia, Hitler è un uomo: e tanto la sua vita, quanto la sua morte, vanno considerate, dallo studioso di storia, alla stregua di qualunque altro fatto avente rilevanza storica: non esistono parametri storici differenti per le brave persone e per i grandi criminali. Lo avevamo già sostenuto, diversi anni fa, in un altro lavoro (cfr. «La questione della Wetlanschauung di Hitler come problema storiografico», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 22/07/2009), e lo ribadiamo in questa sede. Altro è il giudizio morale, altra l’indagine storica: se anteponiamo questo a quella, ci troveremo fra le mani, inevitabilmente, una immagine distorta degli eventi, e sarà stata solo colpa nostra: troveremo quel che avevamo già deciso di trovare.
E allora – sia pure con un certo sforzo, perché l’entità dei delitti commessi dal nazismo non è cosa che possa lasciare indifferente alcuno — lasciamo perdere, per una volta, le solite esecrazioni e gli scongiuri di rito, benché divenuti ormai d’obbligo nella cultura del "politicamente corretto", e poniamoci di fronte alla morte di Hitler come ci si pone di fronte a un qualunque altro fatto storico. Sappiamo, ad esempio, che anche Federico il Grande, quando i Russi presero Berlino e tutto sembrava perduto per la Prussia, pensò seriamente al suicidio: fu solo una concatenazione improvvisa di eventi favorevoli che salvarono lui e la sua nazione. Analogamente, sappiamo che Stalin, quando i carri armati tedeschi giunsero a pochi chilometri da Mosca, meditò in tutta serietà di por fine ai suoi giorni: un dittatore come lui non avrebbe potuto permettersi di sopravvivere al crollo della sua costruzione; non dopo aver istituzionalizzato un culto della personalità come quello a lui rivolto da milioni di cittadini sovietici.
Il caso di Hitler non è diverso. È anche assai dubbio che la sua coscienza morale abbia avuto qualcosa da rimproverargli, allorché le prime avanguardie corazzate sovietiche si avvicinarono al Bunker della Cancelleria, in una capitale del Terzo Reich che avrebbe dovuto risplendere di una gloria millenaria, e che, a soli dodici anni dall’ascesa al potere dei nazisti, era già ridotta a un immenso cumulo di macerie fumanti. La guerra mondiale? Non era stato lui a scatenarla: erano state la Gran Bretagna e la Francia a dichiarargliela, col pretesto di soccorrere la Polonia (cosa che, fra l’altro, non fecero; in compenso non mossero un dito mentre Stalin, allora alleato di Hitler, invadeva la Polonia a sua volta e ne occupava una buona metà, praticamente senza sparare un colpo di fucile). Il genocidio degli Ebrei e degli Zingari? Hitler pensava di avere ben meritato, agendo come aveva agito — mettiamo fra parentesi le testi minimaliste, come quella di David Irving, tendenti a sollevare la maggiore responsabilità di quelle decisioni dalle spalle di Hitler, per scaricarla su quelle di Himmler, Heydrich e qualche altro). Aver condotto la Germania alla catastrofe? Hitler era un "darwiniano": riteneva — e non era il solo a pensarlo — che un grande popolo deve battersi fino alla morte pur di conquistare il posto che gli spetta nel consesso delle nazioni e che esso dovrebbe preferire la propria distruzione ad un lento logoramento o ad una politica ignobilmente rinunciataria. Dunque, il Führer non si sentiva affatto colpevole della tragedia in cui era precipitato il popolo tedesco: meglio vederlo soccombere tra le fiamme di un immane «crepuscolo degli dei«, che piegare la testa sotto il giogo di Versailles, cioè sotto il giogo dell’ebraismo internazionale e delle sue due punte di lancia: il bolscevismo e il capitalismo predatorio della City e di Wall Street.
Pertanto, quando si congedò, per l’ultima volta, dai suoi intimi e più fedeli collaboratori; quando volle salutare e stringere la mano, personalmente, fino all’ultima delle sue dattilografe, asserragliate con lui nel Bunker fatale; quando predispose la soppressione del suo amatissimo pastore alsaziano, Blondi, e quando si risolse a regolarizzare, con un matrimonio civile, la sua lunga relazione con Eva Braun, la donna che, pur potendo mettersi in salvo, aveva voluto seguirlo fino all’ultimo, e restargli al fianco a prezzo di qualunque pericolo: quando fece tutte queste cose, e poi, con la donna che aveva appena sposta, si chiuse nella sua stanza e si accinse a darsi la morte, insieme a lei, Hitler poteva sentirsi amareggiato, sconfortato, deluso per la piega che avevano preso gli avvenimenti (fino quasi all’ultimo aveva creduto, tenacemente, testardamente, assurdamente, che la situazione internazionale avrebbe potuto ribaltarsi, offrendo a lui e alla Germania una insperata via di salvezza); ma non si sentiva colpevole. Pensava, anzi, che il popolo tedesco aveva meritato di perire, dal momento che non era stato all’altezza del proprio destino di vittoria: se i Sovietici avevano saputo difendere Mosca, anche il suo esercito avrebbe dovuto saper difendere Berlino, e la Germania con essa. Invece i Sovietici si erano mostrati forti, e i Tedeschi deboli: così ragionava, o più probabilmente, sragionava, l’uomo che era stato acclamato dai suoi compatrioti come un Dio, ma che era stato anche — non dimentichiamolo –, da molti di essi, male accettato, anzi detestato, perfino maledetto.
Portava con sé, nella tomba — meglio, nel fuoco purificatore, secondo le disposizioni che aveva impartite riguardo alle proprie spoglie mortali ad alcune, fedelissime SS — il mistero insondabile di un essere umano che, dopo aver tanto contribuito allo scatenamento di una delle più grandi tragedie dell’umanità, non che pentirsi, o ripensare la propria vicenda, o rimproverarsi alcunché, affrontava la morte con lo stato d’animo, semmai, di chi si sente tradito: convinzione che, se aveva un reale fondamento riguardo ai congiurati del luglio 1944, certo non lo era, anzi era sommamente ingiusta, riguardo a tutti quei soldati, aviatori e marinai, nonché a tutti quei civili, che disciplinatamente, e sovente eroicamente, avevano obbedito ai suoi ordini, creduto alle sue promesse, sacrificato ogni cosa al senso dell’onore militare e alla difesa della patria.
Lo scrittore e drammaturgo spagnolo Manuel Iribarren (nato a Pamplona nel 1903 e ivi deceduto nel 1973) ha scritto una pagina intensa sulla fine di Hitler; una pagina che, se pure non ci trova interamente d’accordo, apre, nondimeno, una nuova prospettiva su un fato storico che siamo sempre stati abituati a considerare come bello e "giudicato" una volta per tutte, a inappellabile giudizio dei vincitori, non tanto, in effetti, per ragioni morali legate alle colpe del personaggio (i crimini di Stalin non furono certo minori, e le bombe di Hiroshima e Nagasaki avrebbero ben meritato, se a gettarle fosse stata la parte soccombente, una apposita Norimberga), ma semplicemente perché la stria, come sempre, la scrivono i vincitori, i quali si prendono regolarmente il diritto di emettere anche una condanna inappellabile dei vinti, appunto sotto il profilo morale.
Ne riportiamo qui di seguito il passaggio centrale (da: M. Iribarren, «I grandi davanti alla morte»; titolo originale: «Los grandes hombres ante la muerte»; traduzione dallo spagnolo di Luigi Rolfo, Alba, Edizioni Paoline, 1957, pp. 421-2, 423-4):
«Nella morte di Hitler, concorrono circostanze terribili, che la convertono in una paurosa tragedia moderna, di fronte alla quale impallidisce il fatalismo di Macbeth. Hitler, volontariamente chiuso nei sotterranei della Cancelleria, ultimo baluardo della resistenza tedesca, non può sfuggire al suo crudele destino. L’esercito russo sta chiudendo Berlino in una morsa inesorabile; e le sue bombe, messaggere di distruzione e di morte, piovono da ogni lato. Due idee lo sostengono fino all’ultimo istante: l’idea che "ogni sconfitta può essere madre d’una futura vittoria", e quella di morire in difesa della civiltà occidentale. Adolfo Hitler era tutto, e ora è ridotto a essere un’ombra vagante. Non è ancora vecchio: ha solo cinquantasei anni: ma l’abuso delle droghe con cui ha cercato di conservare le sue energie, l’eccesso di lavoro e di responsabilità e la coscienza del disastro inevitabile hanno fatto di lui, a poco a poco, un uomo pallido e precocemente finito.
La sua buona stella s’è oscurata da quando è divenuto famoso il nome di Stalingrado, che gli risuona continuamente negli orecchi. Crede d’essere circondato di traditori! Teme che lo si voglia sopprimere o rapire; e si rode per le sue sventure e le diserzioni che non può rimpiazzare. Perché non sono lì con lui, per affrontare eguale destino, Himmler e Göring? Ricorda con dolore l’attentato che avvenne a Rastenburg, nella Prussia Orientale, nove mesi prima, in quel terribile 20 luglio.[…]
Hitler manifestò il proposito d’uccidersi, e giunse in effetto a uccidersi, non per paura della morte, ma per rispetto a quello che rappresentava la sua persona. Egli era il capo d’un popolo grande ed eroico, e doveva impedire che i nemici della Germania profanassero la sua dignità. Questo atteggiamento richiama alla memoria quello del re Saul che, morti i suoi figli e a punto di cadere egli stesso nelle mani dei nemici, dice al suo scudiero: "Sfodera la spada e uccidimi, affinché non vengano questi incirconcisi a uccidermi e schernirmi".
Egli distribuì ai suoi alcuni tubetti d’ottone che contenevano una dose mortale di cianuro di potassio, per invitarli a un suicidio collettivo. Il cianuro esercita la sua azione mortale paralizzando prima i tessuti respiratori e poi il cuore. La morte è rapida, quasi fulminante, e il dolore dura pochi secondi. Che la risoluzione fatale del Führer non fosse frutto d’un gesto improvviso e irresponsabile, è provato dal testamento che dettò a una delle sue segretarie, Frau Junger, in cui è chiaramente manifestata la sua volontà: "Io e la mia sposa, piuttosto di sopportare lo scherno della capitolazione, preferiamo morire. Desideriamo essere bruciati immediatamente nel luogo in cui ho svolto per dodici anni la maggior parte del mio lavoro al servizio del mio popolo".
Prima di portare a termine la loro tragica risoluzione, Hitler e la sua sposa si congedarono dai servi e dagli amici stringendo loro la mano a uno a uno; ma pareva che le loro anime fossero già assenti. Quindi si chiusero nelle loro stanze private. Hitler, che vestiva pantaloni neri e giacca grigia, esercitò fino all’ultimo la sua influenza straordinaria su tutti quelli che lo circondavano.»
Secondo lo scrittore spagnolo, dunque, Hitler non aveva paura di morire, ma di cadere vivo nelle mani del nemico: non voleva a nessun patto adornare il trionfo del vincitore – e in questo ricorda, più che il re Saul, morto in battaglia, la regina Cleopatra, morta nelle sue stanze dopo essersi fatta mordere da un aspide del Nilo; o, se si preferisce, l’imperatore Nerone, che si uccise o si fece uccidere da un servo, mentre già stavano per raggiungerlo i cavalieri di Galba, eletto nuovo imperatore dalle truppe pretoriane in rivolta.
Egli, dice Iribarren, era il capo d’un popolo grande ed eroico: e vien fatto di arrossire quando, per confronto, il pensiero vada alla fine di Mussolini e a come tanta parte del popolo italiano visse il dramma della guerra mondiale, della sconfitta, della guerra civile: cercando sempre di scaricare su altri la responsabilità di ogni cosa e accogliendo con deliranti segni d’entusiasmo i "liberatori", che poi erano semplicemente i conquistatori, i quali, disprezzando in cuor loro tanto servilismo, si accingevano, occupando il Paese, a cogliere il frutto della loro vittoria.
Hitler era ormai un uomo solo, abbandonato dai suoi fedelissimi: nessuno di essi, al contrario di ciò che sarebbe accaduto in Giappone poco dopo, s’era suicidato per non sopravvivere alla sconfitta o per testimoniargli l’estrema lealtà. Vi fu grandezza in quella morte? Tutto dipende da ciò che si intende per "grandezza". Se si intende la forza interiore di chi non si piega al destino, né brama di sopravvivere a ogni costo, rassegnandosi alla disfatta dei propri sogni, allora forse sì, vi fu una certa grandezza. Negarlo, sarebbe uno stupido pregiudizio ideologico; esaltare quella morte per riabilitare moralmente il suicida, sarebbe una forzatura inaccettabile. Meglio rispettare il mistero della morte…
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