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Quelli che l’8 settembre fecero l’«altra» scelta Si fa presto a dire: «quelli di Salò».

Si fa presto a dire: «quelli di Salò».

Anni e decenni di sistematico lavaggio del cervello, nell’Italietta repubblicana e democratica nata dal colpo di mano del re Vittorio Emanuele III, il 26 luglio 1943, e dal voltafaccia internazionale di Pietro Badoglio, l’8 settembre successivo, con l’inevitabile conseguenza della guerra civile, delle stragi, della sistematica deformazione della verità, ci hanno abituati ad un riflesso condizionato: subito, nella nostra mente, prende forma una massa confusa di opportunisti, di pazzoidi, di criminali di guerra, i quali, quando era chiarissima la scelta fra la libertà e la dittatura, fra l’onore e il disonore, fra il bene e il male, hanno scelto consapevolmente, deliberatamente, pervicacemente di schierarsi dalla parte sbagliata della storia, dalla parte sbagliata della Patria. Manutengoli del tedesco invasore, collaborazionisti di un governo illegittimo e sanguinario, oltretutto di un governo fantoccio, da operetta, nondimeno saturo di odio e brama di vendetta, ben deciso a far pagare al popolo italiano il prezzo più alto possibile per la propria liberazione e per il proprio riscatto, così, per puro sadismo e per il macabro piacere di sprofondare sotto le macerie, portando con sé quante più cose e persone possibile.

Così ci hanno insegnato a scuola; così ci hanno detto e ripetuto i libri, a cominciare dai testi scolastici; così ribadiscono gli intellettuali, gli uomini di cultura, i membri della classe politica; e, naturalmente, non si peritano di far risaltare, per contrasto, l’abnegazione, lo spirito di sacrificio, l’eroismo e l’amore per la libertà di cui diedero prova gli "altri" Italiani, quelli "giusti", quelli che scelsero, a prezzo di durissime conseguenze, le conseguenze della loro scelta di libertà. Sicché la storia dell’Italia contemporanea è passata, per oltre settant’anni, attraverso il prisma deformante di una lettura tutta ideologica, tutta faziosa e contingente, tutta interessata e strumentalizzata, dei fatti che si svolsero nel biennio decisivo 1943-45, e, in particolare, di ciò che avvenne nel Paese, soprattutto nelle Forze Armate, dopo l’8 settembre del 1943.

Ora,m senza nulla voler togliere alle ragioni ideali, alla nobiltà e al coraggio di quanti, in quella tragica congiuntura, ritennero che fosse loro dovere rimanere fedeli a un re che li aveva traditi e abbandonati, di un governo che li aveva ingannati e mandati allo sbaraglio, ci sembra sia arrivato il momento, e che anzi quel momento avrebbe già dovuto arrivare da un pezzo, di riconoscere l’idealismo, la nobiltà ed il coraggio di quelli che fecero la scelta opposta: di separare il proprio destino dalle autorità "legittime", che si erano, però, moralmente e politicamente screditate, e di dare la propria fedeltà a un nuovo governo, formalmente, forse, meno "legittimo" (ma la discussione è ancora aperta fra i costituzionalisti), ma che, ai loro occhi, aveva almeno il merito di rappresentare la fierezza nazionale, la volontà di non arrendersi dell’esercito e del Paese, di proseguire la lotta, che, allora, si profilava realmente come una lotta all’ultimo sangue, nella quale era in gioco la stessa sopravvivenza dell’Italia come nazione.

Non scelsero, dunque, per un rigurgito di spirito fascista, non per una cieca fedeltà a Mussolini, e tanto meno per una qualche inconfessabile sudditanza nei confronti del Terzo Reich, quei ragazzi fecero la scelta di stare dalla parte di Salò: molti di loro, infatti, non erano mai stati fascisti (anche per motivi anagrafici!), e, comunque, dal regime non avevano lucrato, né ottenuto il benché minimo privilegio; non perché si illudessero circa le risorse dell’ormai vecchio e stanco Duce (il quale, a sua volta, per amore dell’Italia e non per folle ambizione, aveva accettato la missione suicida di capeggiare il nuovo governo fascista, impostagli da Hitler dietro la minaccia di terribili rappresaglie sulle città italiane); e non certo, infine, perché nutrissero una particolare simpatia per l’esercito occupante tedesco (che però, almeno, era quello di una nazione alleata, che aveva aiutato le nostre Forze Armate a resistere, in Libia, nel Mediterraneo, in Tunisia, in Sicilia).

E fecero quella scelta, non lo si dimentichi mai, mentre gli "alleati", i "liberatori", gli "amici" anglosassoni della nostra libertà, da tre anni martellavano il nostro Paese, le nostre popolazioni indifese, le nostre città piene di sfollati, di donne, di anziani, di bambini, con i loro micidiali, efferati, militarmente ingiustificati bombardamenti aerei: cosa che avevano continuato a fare, anche su Roma, e con la massima energia, pure mentre le trattative di Badoglio con essi erano in corso, e che continuarono a fare per tutta la durata della guerra, fino alla primavera del 1945, spesso accanendosi a mitragliare a bassa quota i treni dei civili, le persone che andavano al lavoro, gli studenti che si recavano a scuola, senza risparmiare nessuno, riducendo in cenere interi quartieri, con metodo, con perseveranza, con inesorabile accanimento.

Quegli aerei forieri di more, quelle autentiche fortezze volanti, che sganciavano dal cielo migliaia di tonnellate di esplosivo, si chiamavano, difatti, "Liberator": come dubitare, dunque, proclamava la propaganda angloamericana, delle loro buone ed oneste intenzioni? Come dubitare, sosteneva il governo Badoglio, che si dovesse vedere in chi li mandava dei veri alleati, e che si dovesse confidare in loro per la ricostruzione dell’Italia, dopo tutto il male che il fascismo le aveva inflitto per vent’anni (anche se a dirlo erano persone le quali, come appunto Badoglio, dal regime avevano ricavato onori, carriera, denaro, titoli, privilegi d’ogni sorta; ma questo era, evidentemente, un dettaglio del tutto secondario)?

Del resto, oltre a sganciare enormi quantità di bombe su città e paesi, quegli aerei sganciavano anche, sulle montagne e nelle valli controllate dai partigiani, armi e materiali affinché gli Italiani potessero meglio ammazzarsi a vicenda, seminando una scia di odio, di vendette e crudeltà che avrebbe avvelenato per due o tre generazioni la vita futura della nazione: anche per questo, stando ai Comitati di liberazione nazionale, bisognava aver fiducia in quelle nazioni così generose e altruiste, le quali, pur essendo state da noi aggredite e combattute, adesso ci ripagavano il male col bene, e si mostravano così sollecite a contribuire al nostro riscatto politico e morale, riconquistando un posto degno nel seno della comunità internazionale. Del resto, non erano le nazioni anglosassoni ad avere "inventato" la democrazia liberale? E non era logico, pertanto, che fossero loro ad aiutarci a costruirla, o ricostruirla, in casa nostra? Disinteressatamente, si capisce; così come disinteressate erano state allorché avevano difeso il sistema di Versailles, lo strangolamento finanziario della Germania, lo strapotere della City e di Wall Street, le sanzioni contro l’Italia nel 1935, e infine l’indipendenza della Polonia, solo "dimenticandosi" che ad aggredirla e a spartirsela erano stati in due: Hitler e il loro amico e alleato Stalin, di comune accordo.

Ripensare la scelta degli Italiani che, dopo l’8 settembre del 1943, non accettarono lo spettacolo inaudito di un sovrano che fugge, portandosi dietro l’erede al trono e il capo del governo, senza aver lasciato ordini o disposizioni per nessuno, né per l’esercito che aveva giurato fedeltà a lui e alla corona, né ai prefetti, ai questori, ai pubblici amministratori, né, infine, agli stessi membri del governo, e dimenticandosi di spiegare alla nazione i motivi di quel voltafaccia subitaneo, di quella fuga ignominiosa, di quella capitolazione disonorevole. Non è affatto certo, ad esempio, che l’ammiraglio Bergamini, che perì nell’affondamento della corazzata «Roma» da parte tedesca, stesse navigando per consegnarsi agli Alleati: alla vigilia della sua ultima crociera, infatti, aveva escluso che la flotta a lui affidata potesse consegnarsi sia ai Tedeschi, sia agli Alleati. Il giorno prima, anzi, aveva confidato a un subordinato: «Non consegnerò mai la flotta al nemico»; e il nemico, per lui, in quel momento, era quello contro cui aveva combattuto per più di tre anni e che, appena poche settimane prima, aveva progettato di attaccare, a Palermo e a Bona.

Ed ecco ora uno di quei ragazzi che scelsero la parte "sbagliata", come oggi si usa dire: Giulio Lazzati: uno di quei ragazzi, un valoroso pilota della Regia aeronautica, come ci racconta la sua sofferta, ma ferma decisione di non seguire l’esempio del Re e del Governo di Pietro Badoglio, di restare fedele all’idea che stava servendo, ai sacrifici fatti, alla memoria dei camerati morti, insomma all’Italia per la quale si era fino ad allora battuto, insieme a tanti altri, e per la quale era disposto a dare la vita, mentre i politici avevano brigato nell’ombra e improvvisamente, da un giorno all’altro, avevano capovolto ogni cosa: obiettivi, valori, giuramenti, senso del’onore, per compiere il più spettacolare e indecoroso voltafaccia della pur non sempre coerente storia italiana.

Ascoltiamo le sue parole (da: G. Lazzati, «Ali nella tragedia» (Milano, Mursia, 1997, pp. 145-6):

«L’improvviso annuncio della firma dell’armistizio, dato da Badoglio la sera dell’8 settembre con il generico invito agli italiani ad opporsi a qualsiasi minaccia di reazione, da qualsiasi parte essa venisse, ci lasciò completamente perplessi. Immediatamente in tutti i comandi militari vi fu un’affannosa richiesta di collegamenti e di ordini precisi ma Roma rispondeva con il silenzio più completo.

Pensammo che qualche avvenimento eccezionale avesse forzato la decisione del nostro governo, il quale, di conseguenza si era trovato nell’impossibilità di attuare piani prestabiliti di azione o di difesa. Speravamo comunque che, nonostante le difficoltà insorte, dovessero giungere quanto prima anche a noi, rimasti negli aeroporti del Nord, chiarimenti sulla situazione ed ordini per consentirci di assumere un atteggiamento comune e coerente. Purtroppo giunsero, dopo alcuni giorni, le notizie della fuga da Roma del re, del principe ereditario e di tutto il governo. Perché si erano allontanati dalla capitale? Perché non erano stati dati ordini alle Forze Armate prima della comunicazione alla radio?

Apparivano assurdi gli avvenimenti che si stavano verificando. Qualsiasi cosa fosse successa, il re e Badoglio avrebbero dovuto rimanere a Roma, anche se ciò fosse costata loro la vita. Se non lo avevano fatto non potevano essere considerati da noi, totalmente abbandonati, degni di mantenere la loro carica.

Dopo i primi giorni, la nostra situazione di soldati rimasti in Italia centrale e settentrionale, era veramente tragica; il crollo di tutta l’organizzazione statale e lo sbandamento delle possibili forze di ordine pubblico ci avevano fatto cadere completamente in mano dell’occupante tedesco. Impotenti, umiliati, disprezzati, vivevamo in quei giorni ore tristi, insopportabili; ma si ridestò in noi il sentimento di dignità militare, di onore, di amor patrio e sentimmo la necessità di una reazione. Dovevamo reagire per dimostrare vitalità e fierezza, per ricostruire qualche cosa sulle rovine. Il vincolo del giuramento era caduto, nel secolo ventesimo non si poteva certo dare alla formula del giuramento il valore letterale che essa aveva avuto nel medioevo: la fedeltà alla persona del sovrano aveva un senso in quanto egli rappresentava la Patria, ma con la sua fuga da Roma egli aveva definitivamente annullato tale simbolica identità; egli per primo aveva tradito il vincolo che lo legava noi, suoi soldati. La nostra adesione al governo della Repubblica Sociale non fu priva di dubbi, incertezze, umiliazioni. L’indirizzo del suo programma non era inizialmente chiaro, la sudditanza ai tedeschi forzatamente completa; ad ogni modo, per noi, non vi era altra scelta da fare: attendere o aderire a tale governo. La decisione di agire in qualche modo, e non rimanere inerti, ci portò all’adesione.

Pensavamo anche che la presenza di una forza armata organica ed efficiente, sia pur di limitata entità numerica, sarebbe servita da cuscinetto fra le autorità tedesche e la popolazione italiana, rimasta completamente in loro balia e senza possibilità di difesa.

Pensavamo pure di influire sul governo di Mussolini, nel senso di evitarne gli eccessi di partito, di ridare onore al soldato italiano, rimasto al Nord. Alla fine del conflitto forse qualcuno, considerando tutto ciò,, avrebbe valutato l’apporto dell’Aeronautica repubblicana in maniera positiva.

In più, gli aerei americani dovevano continuare a scorrazzare nei nostri cieli ed a mitragliare tutto ciò che si muoveva sulle nostre strade così impunemente; qualcuno doveva affrontarli ed anche per questo tornammo a combattere, senza nessun calcolo a lunga scadenza, tanto sapevamo che alla fine i nostri avversari avrebbero vinto, i tedeschi ormai erano alle ultime battute, ma a noi tutto ciò non importava.»

Sarebbe tempo, in conclusione, di riconsiderare non solo la scelta di quegli uomini (e di quelle donne: quante ausiliarie pagarono con la vita, persino a guerra finita, la loro scelta!), ma, più in generale, tutto ciò che l’8 settembre 1943 ha significato nella nostra storia: una ferita mai più rimarginata, inferta, prima di tutto, alla nostra dignità, alla nostra fierezza. Basterebbe già solo adottare questa prospettiva, per ripensare doverosamente non solo il passato, ma anche il presente…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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