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Quando la Polonia, sul punto d’essere invasa da Hitler, mandava ultimatum alla Lituania

La versione storica oggi dominante sulla seconda guerra mondiale vuole che esista una linea di separazione chiara e ben riconoscibile fra gli Stati che furono aggressori e quelli che furono aggrediti; e, poiché furono questi ultimi, alla fine, a uscire vincitori dall’immane conflitto, si può ben comprende come una simile interpretazione unilaterale si sia imposta in via definitiva, al punto da far considerare intollerabile qualsiasi interpretazione diversa (subito bollata come "revisionista").

Eppure, un esame sereno e obiettivo dei fatti mostra chiaramente l’assoluta insostenibilità di una impostazione così palesemente ideologica e interessata, la cui unica ragion d’essere sembra sia la giustificazione "a posteriori" della buona causa e del buon diritto dei vincitori stessi, non certo l’accertamento spassionato ed equanime della verità storica.

Dividere gli attori del grande gioco in "buoni" e "cattivi" non significa altro che prolungare l’enorme ingiustizia del processo di Norimberga, nel quale i vincitori si ersero a giudici dei vinti e sottoposero questi ultimi a un procedimento giuridicamente mostruoso, inventandosi dei reati nuovi di zecca e addossandoli, retroattivamente, agli imputati: un arbitrio così smaccato e una forzatura legale così evidente, quali mai s’erano visti fino a quel momento.

Delle grandi potenze non c’è molto da dire, se non che erano tutte interessate allo scatenamento della guerra e miravano solo a fare in modo di lasciarne ricadere la responsabilità sugli avversari: quelle del Tripartito, perché volevano dare l’assalto al potere mondiale, dal quale si sentivano ingiustamente escluse, o relegate in posizione subalterna; le democrazie, perché intendevano fermare la Germania e i suoi alleati prima che la loro ripresa economica e il loro rafforzamento militare diventassero troppo pericolosi, e, inoltre, prima che costituissero un esempio da imitare per altri Stati, cosa che avrebbe messo in crisi tutto il sistema finanziario di Wall Street e della City, nonché gli immensi imperi coloniali francese e britannico; l’Unione Sovietica, perché aspettava il momento buono per inserirsi nella lotta fra i due schieramenti e per sfruttare quest’ultima a proprio vantaggio, con totale cinismo, come poi effettivamente fece: alleandosi con Hitler nell’agosto 1939, e poi alleandosi con Churchill e Roosevelt a partire dall’estate del 1941.

Quel che si conosce poco, almeno presso il grande pubblico, è il ruolo, non sempre secondario, giocato dalle potenze minori, con la trama fittissima e complicatissima delle loro rivalità incrociate, dei loro furibondi nazionalismi e razzismi, delle loro velleità da grandi potenze, delle loro brame di rivincita, dei loro immensi appetiti territoriali ed economici, da realizzare le une a danno delle altre. Molti di questi conflitti erano localizzati nell’area carpatico-danubiana e in quella baltica ed erano la diretta conseguenza dello scatenamento degli opposti nazionalismi, dopo la dissoluzione della Monarchia asburgica. La decisione presa dalle potenze vincitrici, nella Conferenza di Versailles del 1919, di procedere allo smembramento di quell’antico impero plurinazionale, che aveva assicurato — bene o male — più di quattro secoli di stabilità e di pace nel cuore dell’Europa, fu aggravata dall’aver lasciato, il presidente Wilson specialmente, mano libera agli Stati successori quanto alle annessioni di territori dei Paesi sconfitti. Per esempio, lo stesso presidente Wilson, che contendeva all’Italia non solo Fiume, abitata da Italiani, ma perfino l’Istria orientale e parte della Dalmazia, promesse dall’Intesa con il Patto di Londra, non trovava nulla da eccepire a che il suo amico Masaryk incorporasse nella neonata Cecoslovacchia 3 milioni e mezzo di Tedeschi dei Sudeti; o che all’Austria venisse proibito — con buona pace del diritto all’autodecisione – di unirsi alla Germania.

Oppure prendiamo il caso della Polonia. Il maresciallo Pilsudski aveva coltivato il sogno di ricreare la potenza polacco-lituana del XVI secolo, dal Baltico al Mar Nero, annettendosi l’Ucraina, la Russia Bianca e la Lituania stessa; allorché questo progetto si mostrò irrealizzabile, si "accontento" di annettersi qualche milione di Ucraini e Bielorussi, pari al 17% dell’intera popolazione nazionale (mentre Wilson aveva considerato intollerabile l’annessione all’Italia di 490.000 Sloveni e Croati, ratificata dal trattato di Rapallo) e di spostare ad Est di alcune decine di chilometri la "linea Curzon", che segnava il limite dell’etnia polacca e che avrebbe dovuto segnare anche il confine politico della Repubblica.

Pure, il maresciallo Pilsudski non era ancora soddisfatto: bramava di annettere altre terre, sia della Lituania, sia della Cecoslovacchia: rispettivamente, la città di Vilnius e il distretto di Teschen (Česky Tesin). Vilnius era addirittura la capitale della Lituania, che la Russia sovietica aveva riconosciuto come tale col trattato di pace del 12 luglio 1920; ma l’esercito polacco l’aveva occupata il 9 ottobre 1920 e il governo polacco ne aveva proclamato l’annessione il 20 febbraio 1922. Teschen era una città della Slesia-Moravia che l’esercito cecoslovacco aveva occupato il 23 gennaio 1919, dando inizio a una breve guerra con la Polonia, la quale, essendo impegnata in un conflitto ben più grave con la Russia bolscevica, dovette tenersi sulla difensiva. Nel distretto di Teschen venne poi organizzato un plebiscito, in base al quale una parte del distretto rimase definitivamente alla Cecoslovacchia, nonostante l’esistenza di una forte minoranza polacca; situazione che venne ratificata dalla Conferenza di Spa, in Belgio, tenutasi dal 5 al 16 luglio 1920.

I Polacchi, però, non avevano mai dimenticato questo scacco, né mai avevano rinunciato a far valere le loro rivendicazioni sull’intero distretto, data anche la sua importanza mineraria. Bisogna dire che i governanti di Varsavia, dopo la conclusione della guerra con la Russia e la vittoria insperata riportata sull’Armata rossa davanti alle mura di Varsavia (13-25 agosto 1920), si erano alquanto montati la testa. Sconfitta la Lituania in una beve guerra (1° settembre — 7 ottobre), essi vedevano la Polonia come una grande potenza e, poiché una grande potenza deve avere anche un impero coloniale, si spinsero ad usare verso i loro "protettori" francesi un atteggiamento di sufficienza, avanzando perfino la richiesta di una cessione del Madagascar. Sia detto fra parentesi, il progetto hitleriano di deportare gli Ebrei nel Madagascar nasce da qui: i nazisti si limitarono a rispolverare un analogo progetto polacco, scaturito dal virulento antisemitismo del governo di Varsavia, che non era inferiore a quello dei tedeschi medesimi (almeno prima del 1933).

Sta di fatto che, non appena la Conferenza di Monaco del 29-30 settembre 1938 costrinse la Cecoslovacchia a cedere i Sudeti alla Germania, il governo polacco non aspettò nemmeno un giorno e lo stesso 30 settembre lanciò a sua volta un ultimatum al governo di Praga, esigendo — e ottenendo — l’immediata retrocessione del distretto di Teschen: a proposito di dare "coltellate alle spalle" e di piombare come avvoltoi sul corpo di un nemico ormai agonizzante. Non era stata una mossa sorprendente: perché il governo polacco, che non aveva fatto neppure una piega quando Hitler aveva invaso l’Austria e realizzato la sua annessione, nel marzo 1938, aveva continuato ad accarezzare l’idea di una invasione della Lituania ed, eventualmente, di una annessione completa di quella Repubblica baltica. Vi erano stati degli incidenti di frontiera, piuttosto seri, nel marzo del 1938, e il governo di Varsavia aveva lanciato a quello di Kaunas un ultimatum, minacciando la guerra — proprio come aveva fatto l’Austria-Ungheria con la Serbia, nel luglio 1914: donde lo scoppio della prima guerra mondiale — se questo non fosse stato immediatamente accolto.

Così ha ricordato quel lontano episodio lo storico italiano Aurelio Lepre nel suo saggio «Guerra e pace nel XX secolo. Dai conflitti tra Stati allo scontro di civiltà» (Bologna, Società Editrice Il Mulino, 2005, pp. 223-224):

«Il 12 marzo [1938] l’esercito tedesco entrò in Austria. […] L’invasione avvenne in un clima di festa, non offuscata da nessuna protesta evidente. Il referendum che ratificò l’annessione vide prevalere i sì con il 97%.

Negli stressi giorni in cui la Germania si annetteva l’Austria, poco mancò che la Polonia tentasse di fare lo stesso con la Lituania: il nazionalismo non era una malattia della sola Germania, ma un morbo endemico dell’intera Europa, che ne stava minando la stabilità. Il 7 marzo il ministro degli Esteri polacco Józef Beck, che si trovava in Italia, aveva ostentato nei confronti di un’eventuale annessione dell’Austria alla Germania un disinteresse che aveva sorpreso Galeazzo Ciano, il ministro degli Esteri italiano. Aveva infatti sostenuto che la Polonia intendeva mantenere una posizione di equilibrio, "senza compromissioni in nessun senso".

Il governo di Varsavia mirava realmente a mantenere buoni rapporti con tutti i paesi confinanti, tranne che con la Lituania. Il motivo del contrasto era la città di Vilnius. Fin dal Cinquecento c’era stata a Vilnius una forte presenza polacca, mentre nelle campagne circostanti era numericamente prevalente la popolazione di origine lituana. Nel 1918 lituani e polacchi avevano combattuto insieme contro l’Armata rossa, ma poi era iniziata la rivalità tra i due nuovi Stati, per la delimitazione delle frontiere. Nel 1920 un trattato aveva assegnato Vilnius alla Lituania, ma i polacchi ,’avevano occupata e nel 1923 ne era stato firmato un altro, che riconosceva i nuovi confini. I rapporti tra i due paesi però erano rimasti tesi, non erano state stabilite relazioni diplomatiche e nella Costituzione lituana Vilnius era indicata come capitale: Kaunas era considerata soltanto come la sede provvisoria del governo. Anche negli anni successivi la questione di Vilnius aveva mantenuto uno stato di forte tensione tra i due governi e tra i due popoli, con incidenti di frontiera divampati più frequenti nel 1937.

L’11 marzo 1938 si verificò uno scontro armato in un villaggio di frontiera, che si concluse con l’uccisione di un soldato polacco. In Polonia la stampa reagì violentemente e si svolsero manifestazioni popolari di protesta, imponenti soprattutto a Varsavia e a Vilnius. In alcuni ambienti lituani si temette che l’"Anschluss" dell’Austria alla Germania potesse servire di esempio ai polacchi per annettersi la Lituania. L’ambasciatore americano a Varsavia in un dispaccio inviato al suo governo rilevò che l’opinione pubblica polacca appariva favorevole a un intervento militare. Il 17 marzo Beck, rientrato precipitosamente dall’Italia, pur non essendo personalmente favorevole a una guerra, perché mirava alla pacifica costituzione di un blocco dei paesi baltici sotto la guida della Polonia, consegnò al governo lituano un ultimatum, in cui si chiedeva la normalizzazione dei rapporti diplomatici che avrebbe comportato il riconoscimento dei confini esistenti e la definitiva appartenenza di Vilnius alla Polonia. La crisi avrebbe potuto avere serie conseguenze anche sul piano europeo: in caso di conflitto, infatti, era prevedibile che la Wehrmacht avrebbe occupato una parte del territorio lituano, provocando un intervento dell’URSS. Maksim Litvinov, il Ministro degli Esteri sovietico, avvertì che doveva essere garantita l’inviolabilità dei confini lituani, mentre l’Armata rossa effettuava manovre alla frontiera. Il governo di Kaunas alla fine accettò l’ultimatum, anche per le pressioni di quello britannico.

Intanto Hitler pensava ai Sudeti come tappa successiva del processo di riunificazione in un solo Stato di tutti coloro che parlavano la lingua tedesca e avevano tradizioni tedesche. [La crisi ceco-tedesca, la conferenza di Monaco e la retrocessione del territorio dei Sudeti, abitato da circa tre milioni e mezzo di germanofoni, al Terzo Reich, ebbero luogo alla fine di settembre del 1938.]»

Le frontiere stabilite a Versailles nel 1919 erano assurde, ma ancora più assurdo era stato, da parte dei Tre Grandi (Wilson, Lloyd George e Clemenceau) aver dato retta ad alcuni nazionalisti slavi e deciso la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, cosa che non era mai stata fra gli obiettivi di guerra dell’Intesa, e nemmeno dell’Italia, fino al 1918, e dietro il quale taluni storici contemporanei, fra i quali François Fejtö, intravvedono la "longa manus" della Massoneria, sia parigina che internazionale (cfr. il nostro articolo «Dietro la fine dell’Austria e le premesse di un’altra guerra mondiale il cattivo genio di T. Masaryk», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 27/02/09).

Stati come la Polonia, dalle frontiere artificiali, gonfiate a dismisura per poter fare da antemurale anti-tedesco a beneficio della Francia (ma lo stesso discorso vale per la Piccola Intesa: Cecoslovacchia, Romania e Jugoslavia) ebbero, così, la loro brava parte di responsabilità nel clima di tensione che preparò lo scatenamento della seconda guerra mondiale. La Polonia nazionalista, razzista, antisemita, autoritaria, militarista e megalomane (i suoi capi, nel 1939, sognavano di poter vincere anche contro la Germania e l’Unione Sovietica insieme), non fu solamente una "vittima"…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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