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29 Luglio 2015Che cosa pensare della decisione di Churchill (e di Roosevelt) di consegnare a Stalin e a Tito, nel maggio del 1945, tutti i combattenti anticomunisti russi, cosacchi, ustascia e cetnici, i quali, al momento della disfatta, si erano rifugiati in Austria; decisione, peraltro, già presa e stabilita nella Conferenza di Jalta, del febbraio precedente?
Tutti costoro avevano combattuto, è vero, al fianco dei Tedeschi, ma, nella stragrande maggioranza dei casi, non per simpatia ideologica, bensì per amore dei loro rispettivi Paesi, che avrebbero voluto vedere liberati dal dominio comunista: di Stalin nel caso della Russia, di Tito in quello della Jugoslavia; si erano poi consegnati alle forze britanniche sperando in un trattamento umano, spesso — come nel caso dei Cosacchi del Kuban – conducendo con sé le mogli e le famiglie e convinti che avrebbero ricevuto il trattamento previsto dalle leggi internazionali per il nemico sconfitto che si arrende, mentre solo in un secondo tempo, disarmati e caricati sui treni, avevano appreso, con raccapriccio, quale fosse la loro vera destinazione: la morte.
Fu una pagina non molto bella della politica britannica, e infatti l’opinione pubblica ne fu tenuta all’oscuro per molti anni — così come fu tenuta all’oscuro per molti anni del massacro aereo di Dresda, del febbraio 1945, operato dalle "fortezze voltanti" anglo-americane, senza alcuna necessità militare, e a poche settimane dalla conclusione dell’immane conflitto; una pagina nella quale un certo numero di ufficiali dell’esercito di Sua Maestà britannica si sentirono macchiati da un disonore incancellabile, poiché, dopo aver accettato la resa di circa 200.000 combattenti Russi, Cosacchi, Croati, Sloveni e Serbi, e aver dato loro ampie assicurazioni circa il loro destino, li avevano poi consegnati ai Sovietici e agli Jugoslavi di Tito, bramosi di fare le proprie vendette e decisi a trattarli alla stregua di traditori e collaborazionisti, senza pietà per nessuno.
La cosa fu particolarmente imbarazzante per Churchill, il quale si era lasciato giocare doppiamente: sia da Stalin, il quale gli aveva fatto sperare che perfino in Polonia (per non parlare degli altri Paesi dell’Europa centro-orientale raggiunti dalla rapida avanzata dell’Armata Rossa, nel 1944-45) vi sarebbero state delle libere elezioni e una sorta di divisione, che avrebbe lasciato almeno una parte di essa entro la sfera strategica occidentale; sia da Tito, che egli aveva favorito in ogni modo, durante la guerra civile jugoslava, a scapito del monarchico e anti-comunista Mihailovic, per venire poi beffato dall’astuto leader croato. Questi, infatti, si servì delle armi e degli altri aiuti ricevuti dalla Gran Bretagna non solo per combattere i Tedeschi e (fino all’8 settembre del 1943) gli Italiani, nonché per "chiudere i conti" con i cetnici, ma anche, nel maggio 1945, a operazioni ormai concluse su tutti gli altri fronti europei della seconda guerra mondiale, per piombare con evidenti intenzioni annessionistiche su Fiume, Pola, Trieste e Gorizia, da un lato, e sulla Carinzia austriaca, dall’altro. In questo secondo caso, Tito aveva spinto la sua audacia — o la sua impudenza — fino a chiedere agli Alleati che gli fosse assegnata una sfera di occupazione in Austria, come per i quattro "grandi" (Sovietici, Americani, Britannici e Francesi), e precisamente, appunto, la Carinzia, che già nel 1919 i nazionalisti sloveni avevano invaso e avevano tentato – ma invano – di annettersi, almeno fino alla valle della Drava, ivi compreso il bacino di Klagenfurt.
Una brutta pagina, dunque, quella relativa alla consegna dei combattenti Russi e Jugoslavi anticomunisti; una pagina che, per quanto riguarda i Cosacchi del Don e del Kuban, è stata rievocata, fra gli altri, dallo storico friulano Pier Arrigo Carnier nel suo pregevole libro «Lo sterminio mancato. La dominazione nazista nel Veneto orientale, 1942-45», edito da Mursia.
A questo proposito, riportiamo una interessante considerazione svolte dallo storico inglese Jasper Ridley nella sua biografia del maresciallo Tito, un libro scritto con un certo scrupolo documentario, anche se, in 440 pagine di testo, non nomina mai la parola "foibe", non dice assolutamente nulla del dramma degli Italiani della Venezia Giulia e tocca appena di sfuggita l’occupazione jugoslava di Trieste, peraltro senza dire una parola sulle atrocità e sulle illegalità che l’accompagnarono; non perché il libro di Ridley sia, appunto, di qualità superlativa sul piano storiografico, ma perché quella specifica considerazione si presta ad ulteriori, pertinenti riflessioni, non solo sul dramma dei combattenti anticomunisti slavi che nel 1945 furono abbandonati al loro destino da Churchill e da Roosevelt, ma, più in generale, sulla facilità con cui la cosiddetta "opinione pubblica" può essere fuorviata e manipolata dai moderni mezzi d’informazione, anche nelle società democratiche (da: J. Ridley, «Tito»; titolo originale: «Tito», 1994; traduzione dall’inglese di Paola Frezza Pavese, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1996, pp. 234-5):
«All’epoca [cioè nel maggio e giugno del 1945], in Gran Bretagna e negli Stati Uniti non si seppe granché del destino dei profughi e del ruolo svolto in proposito dall’esercito britannico. La storia fu raccontata in America, una quindicina di anni dopo, da iugoslavi avversi a Tito, mentre in Gran Bretagna ci vollero quasi quarant’anni perché si venisse a conoscerla. Il massacro degli avversari politici da pare dei partigiani e il ruolo svolto dalla Gran Bretagna furono allora ampiamente pubblicizzati e stigmatizzato da persone da persone che li giudicavano con l’ottica del 1984 e non del 1945. Nel 1984, molti provarono solidarietà per croati, sloveni e serbi (oltre che russi) che si erano trovati in un mondo dominato da due dittatori, Hitler e Stalin, e avevano deciso di combattere per Hitler contro Stalin. Nel 1945 pochissimi, in Gran Bretagna, vedevano la situazione sotto questa luce.
Il modo in cui certi nomi vengono associati illustra il pensiero dell’opinione pubblica e aiuta a comprenderlo. Oggi si parla e si scrive di "Hitler e Stalin", ma quasi nessuno parlava di "Hitler e Stalin" durante la seconda guerra mondiale. Allora, si parlava di "Hitler e Mussolini" e di "Churchill, Roosevelt e Stalin". Hitler era nemico della Gran Bretagna, mentre Stalin era un alleato. Il russo o lo iugoslavo che combatteva per Hitler contro Stalin era un traditore del suo paese ed era giusto consegnarlo a Stalin e a Tito perché ricevesse la meritata punizione, proprio come sarebbe stato giusto che russi e iugoslavi avessero estradato William Joyce, "Lord Ah-ah", in Gran Bretagna perché fosse processato e giustiziato come traditore per le sue trasmissioni di propaganda alla radio tedesca.
Se alcuni di coloro che furono fucilati dai partigiani nelle fosse di Kočevje non avevano ucciso partigiani, commesso crimini di guerra, e neppure lottato a fianco degli invasori fascisti, essi caddero vittime innocenti della guerra, ma non più di quel bambino di due anni ucciso nell’incursione aerea britannica su Dresda la cui fotografia fu riportata da Goebbels sulla prima pagina dei giornali tedeschi con questa didascalia: "è morto per la Germania". Nel 1945, l’opinione pubblica britannica, accettata l’uccisione Dresda, in febbraio, di 90.000 civili in una notte, e a Hiroshima, in agosto, di altri 300.000 con una sola bomba, non si sarebbe turbata più di tanto nel sapere che Tito a maggio aveva ucciso 23.000 persone; anche se non sarebbe arrivata ad approvare il generale Glaise von Horstenau, secondo cui non esisteva distinzione morale tra terrore orizzontale e verticale, cioè tra l’essere massacrati orizzontalmente dalle pallottole di un plotone di esecuzione o verticalmente dalle bombe lanciate dall’alto.
In confronto al numero complessivo delle vittime della seconda guerra mondiale, è relativamente basso il totale delle persone uccise dai partigiani. Oggi, in Gran Bretagna, si condanna Tito per avere giustiziato i 23.000 profughi a lui consegnati, ma molti, in Serbia, gli rimproverarono di averne uccisi troppo pochi. Dicono che soltanto "Broz, il croato" si poteva accontentare della morte di 30.000 persone della sua etnica come riparazione per i 700.000 serbi assassinati dagli ustascia; numero che del resto è quasi sicuramente esagerato, così come quello delle 300.000 persone che si dice, sarebbero state uccise dai partigiani nel 1945.»
Intanto, si può osservare che l’opinione pubblica britannica non aveva affatto "accettato", a caldo, la distruzione aerea di Dresda (perché di questo si trattò, e non di una "incursione" come tante), per il semplice fatto che ne venne tenuta sostanzialmente all’oscuro, o meglio, che venne tenuta all’oscuro del suo tremendo bilancio di vittime, così come della sua inutile e insensata strategia bellica, per moltissimi anni: in pratica, essa venne a sapere delle dimensioni di quell’evento solo grazie al libro di uno storico britannico, David Irving, allorché apparve nelle librerie il suo saggio-rivelazione: «The Destruction of Dresden», nel 1963: diciotto anni dopo i fatti (la traduzione italiana, con il titolo «Apocalisse a Dresda: i bombardamenti del febbraio 1945», è apparsa solo nel 1965, due anni più tardi).
La mancata distinzione fra "terrore orizzontale" e "terrore verticale" è, anch’essa, un pesante retaggio della storia fatta dai vincitori: di fatto, non vi è paragone, nei Paesi europei alleati o occupati dall’Asse — tranne, ovviamente, per quel che riguarda Ebrei e Zingari — fra il numero, enorme, delle vittime provocate dai sedicenti "liberatori" anglo-americani e quello dovuto alle rappresaglie tedesche (e italiane) contro gli attacchi partigiani, i quali ultimi, sovente, e con buona pace della retorica resistenziale, altro non furono che azioni terroristiche, dirette contro soldati ignari (come in via Rasella, a Roma) o già in ritirata (come avvenne specialmente nelle ultime due o tre settimane di guerra). Tuttavia, per un meccanismo psicologico piuttosto semplice, oltre che per la pressione massiccia e capillare della propaganda alleata, i massacri aerei, operati da invisibili piloti che correvano pochissimi rischi nello sganciare il loro carico di morte sulle città indifese, erano percepiti quasi come eventi fatali e imperscrutabili, dovuti a un destino crudele, ma impersonale, mentre le rappresaglie eseguite "faccia a faccia" destavano un devastante miscuglio di paura, amarezza, rabbia impotente e cieco desiderio di vendetta.
Di fatto, i piloti alleati, e i comandi che decidevano le loro "missioni", erano, a tutti gli effetti, degli assassini puri e semplici, non di rado con l’aggravante del sadismo (quante vote i piloti dei caccia non si divertivano a scendere a bassa quota per mitragliare le inermi popolazioni, i treni carichi di passeggeri, le donne che andavano al lavoro in bicicletta, e perfino i bambini che si recavano a scuola o che si godevano qualche minuto di relativa spensieratezza sulle giostre di qualche sagra di paese: episodi, questi, tutti ben documentati, e rimasti incancellabili, come fossero scritti in caratteri di fuoco, nella memoria di quanti li vissero!); erano degli assassini, vogliamo dire, non meno, semmai più, di quanto potevano essere considerati tali i soldati tedeschi – o, ripetiamo, i soldati italiani, fino all’8 settembre del 1943 — i quali bruciavano un villaggio, arrestavano e magari torturavano dei partigiani o, nei casi più gravi, fucilavano degli ostaggi, per ritorsione, nei Paesi occupati dalle forze dell’Asse.
Comunque, la parte veramente interessante del brano citato è quella in cui l’autore evidenzia come la cosiddetta opinione pubblica si lascia influenzare nel giudizio storico relativo a certi fatti, specialmente quelli che coinvolgono il proprio Paese, laddove si tratta di eventi dal pesante impatto emotivo o dalle forti implicazioni etiche. Egli osserva, giustamente, che, per un Inglese del 1945, Hitler era il nemico, mentre Stalin era l’alleato: ciò lo portava automaticamente ad essere quanto mai severo nel giudicare le azioni del primo, ma piuttosto indulgente nel caso del secondo. È logico che così sia stato; ma non è affatto logico e naturale che uno storico possa ragionare in tal modo anche "a posteriori", né che possa "giustificare" retroattivamente la logica dei due pesi e delle due misure. E questo perché, in una guerra come la guerra civile europea del 1917-1945, non esistono punti d’osservazione privilegiati e moralmente o politicamente "neutri": da qualunque punto di vista si guardi, non si può prescindere dal fattore propagandistico e ideologico.
Jasper Ridley, nella sua biografia di Tito, ragiona come se la Gran Bretagna, nella seconda guerra mondiale, si trovasse, chissà perché, al di sopra delle misere beghe continentali e fosse capace, almeno teoricamente, di formarsi una opinione spassionata su uomini e fatti di quel conflitto. È vero, invece, il contrario: la Gran Bretagna, allora come sempre — come nella Guerra dei Sette Anni, o nelle Guerre napoleoniche, o nella Prima guerra mondiale — attizzava le rivalità delle potenze europee per metterle le une contro le altre, al fine di conservare una egemonia finanziaria ed economica sul Vecchio Continente. A Churchill non importava "punire" la malvagità di Hitler — in fatto di malvagità, vedi appunto i massacri aerei nell’ultima fase del conflitto, Churchill non aveva bisogno di prendere lezioni da alcuno -, ma garantire al suo Paese l’egemonia marittima e commerciale e assicurarsi lo sfruttamento del suo smisurato impero coloniale: i Sudeti e la Cecoslovacchia, Danzica e la Polonia non erano che pedine del suo gioco di potere mondiale. Quanto all’opinione pubblica britannica, essa credeva quel che la City voleva che credesse: vale a dire, credeva che la Gran Bretagna, solitaria ed eroica, stesse tenendo alta la bandiera della libertà e della stessa civiltà, nell’ora più buia della storia mondiale, quando quel mostro di Hitler sembrava sul punto di spegnere entrambe sotto il tallone di ferro del nazismo.
Poco importava essere alleati di un altro mostro, Stalin; e poco importava che Stalin avesse egli pure invaso la Polonia e massacrato i suoi ufficiali, proprio come aveva fatto Hitler: a Stalin, però, il governo britannico non aveva dichiarato la guerra, e non l’aveva dichiarata neppure quando il dittatore del Cremlino aveva attaccato un altro Paese neutrale, la Finlandia, e ne aveva invaso ed annesso tre, in un colpo solo: la Lituania, la Lettonia e l’Estonia. Poco importava, perché lo scopo vero della guerra britannica non era la restaurazione della libertà in Europa, ma l’eliminazione di quella potenza che, di volta in volta, esercitando una forte egemonia continentale, metteva in pericolo gl’interessi della City londinese: vale a dire la Spagna nel Cinquecento, la Francia nel Settecento e ai primi dell’Ottocento, la Germania dalla fine dell’Ottocento alla metà del Novecento, infine la stessa Unione Sovietica dopo il 1945 (e di nuovo ai nostri giorni, con il risorgere della potenza russa post-comunista).
Così, la strategia britannica è sempre stata quella di suscitare la guerriglia sul continente europeo, per avere uno o più punti d’appoggio ove dirigere un eventuale sbarco dei propri eserciti contro la potenza continentale egemone: così, ad esempio, essa ha finanziato i guerriglieri realisti della Vandea al tempo della Rivoluzione francese; così ha finanziato i guerriglieri nazionalisti spagnoli, durante le campagne napoleoniche nella Penisola Iberica; così, nella Seconda guerra mondiale, ha finanziato, rifornito, consigliato i partigiani di molti Paesi d’Europa, dalla Norvegia ai Balcani, nelle loro azioni dirette contro le forze dell’Asse (anche se si trattava di partigiani ideologicamente schierati nel campo avverso, cioè comunisti: l’importante è che le loro azioni fossero funzionali agli interessi di Sua Maestà britannica). E, nel caso della Seconda guerra mondiale, l’insolita, ma naturalissima collaborazione, è stata così stretta, che sovente erano gli stessi partigiani a suggerire ai Comandi britannici (e americani) quali obiettivi bombardare con le loro flotte aeree; così, ad esempio, venne letteralmente distrutta l’italianissima città di Zara, dopo di che le sue macerie erano pronte per essere "consegnate" al fedele alleato dell’imperialismo britannico, il maresciallo Tito, a guerra conclusa, senza che nemmeno ci si sognasse di prendere in esame il principio wilsoniano dell’autodecisione dei popoli.
La verità è questa: nessuna potenza fa la guerra, se non per i propri egoistici interessi; e ciò è vero anche per quelle guerre finanziarie ed economiche, che si combattono — apparentemente in tempo di pace — a colpi di debito sovrano, di "spread" e di annunci delle agenzie di "rating", specialmente ai nostri giorni.
L’opinione pubblica dei diversi Paesi, a tale proposito, non è mai così "innocente" e "in buona fede", come l’ottimo Ridley sembra pensare.
Anche perché l’opinione pubblica non è una entità oggettiva: è un prodotto, virtuale, dei poteri finanziari; i quali, a loro volta, controllano l’informazione e, spesso, la cultura medesima… storiografia compresa. "Vae victis", guai ai vinti.
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