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Ettore Luccini e il debito culturale dei comunisti verso il fascismo di sinistra

Il concetto è stato a lungo semplicemente impronunciabile, eppure la cosa era lì, sotto gli occhi di tutti, o, almeno, di chi avesse abbastanza onestà intellettuale da accettare di vederla, da non rifiutarsi di prenderne atto: ossia che molti, moltissimi intellettuali, i quali, durante e alla fine della Seconda guerra mondiale — e della guerra civile del 1943-45– presero partito per il P.C.I. e "scoprirono" le magnifiche sorti e progressive del marxismo nostrano, venivano direttamente da una esperienza di vita, di lavoro e di studio entro le file del fascismo di sinistra.

Era lì, a contatto con i problemi e con gli uomini dell’ambiente operaio, con il sindacalismo fascista, con i sostenitori del corporativismo quale "terza via" fra capitalismo e bolscevismo; era lì, a contatto con personalità più o meno eretiche rispetto al Partito fascista ormai istituzionalizzato, burocratizzato, decisamente imborghesito, era a contatto con idee le quali, germogliate nel 1919, poi rientrate nei cassetti, quando il Fascio era diventato regime, e regime conservatore, per poi tornare a esprimersi apertamente nella Repubblica Sociale e specialmente nel Manifesto di Verona: era lì che quegli uomini avevano appreso il gusto e la passione per le questioni del lavoro, per i bisogni dei contadini e degli operai, per la ricerca di una via italiana all’economia che non fosse, puramente e semplicemente, quella dell’ordine e della disciplina, ossia quella gradita agli agrari e ai padroni, nonché ai poteri forti (allora come oggi) della finanza internazionale, ma che mirasse ad una partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, oltre che ad una autonomia economica e finanziaria dell’Italia nel mondo, e, in ultima analisi, ad una subordinazione dell’interesse privato al bene collettivo, delle classi allo Stato.

La natura opportunista, meschina, furbesca, di molti fra coloro i quali entrarono in massa nel P.C.I. dopo la guerra, si rileva proprio dalla loro assoluta, radicale incapacità di riconoscere quel debito culturale, e, sovente, umano; dalla loro strenua, proterva volontà di negare qualunque legame, qualunque connessione, fra la loro militanza nel Partito Nazionale Fascista — nei cui organi avevano fatto carriera e si erano fatti conoscere al pubblico come scrittori, giornalisti, economisti, politologi — e la loro successiva scelta di aderire al nuovo credo marxista ed iscriversi, con piglio quanto mai deciso, nell’unico partito italiano che proclamasse, né più né meno, di voler replicare nel nostro Paese le belle imprese e le geniali realizzazioni del comunismo staliniano. Perché non trovassero il coraggio di farlo, è abbastanza chiaro: resta comunque la mediocrità, intellettuale ed umana, del loro atteggiamento, tutto proteso a rifarsi una verginità "democratica" (democratici proprio loro, i marxisti stalinisti!; ma tant’è: di questi ed altri equivoci si è nutrita, per lunghissimi decenni, la scena politica, ideologica e culturale italiana) e, più ancora, tutto proteso a difendere retrospettivamente, per così dire, la loro nuova fede, sacra e inviolabile, da qualunque sospetta connessione con l’aborrito fascismo, con l’abietto regime che, per vent’anni, aveva trascinato la Patria nel fango e negli orrori della repressione sociale (ignorando, beninteso, quisquilie come le pensioni d’invalidità e vecchiaia).

Nel Paese dei guelfi e ghibellini, dei rossi e neri, non era ammissibile riconoscere un tale debito: ne sarebbe stata sporcata l’immagine di assoluta purezza, di candore immacolato del Partito Comunista; peggio ancora, ne sarebbe parsa riabilitata, almeno in parte, l’oscena immagine del fascismo, il grande nemico di classe, il custode dei privilegi capitalisti. Il fatto che Mussolini venisse dal socialismo, e non da quello riformista, ma da quello rivoluzionario della estrema sinistra; che egli fosse, e fosse sempre stato, un uomo del popolo, un rivoluzionario, a suo tempo ammirato da Lenin come il solo Italiano capace di fare qualcosa di serio nel malinconico panorama del socialismo nostrano: tutto questo andava cancellato, dimenticato, rimosso; bisognava che restasse solo l’immagine di una inconciliabile antinomia fra il comunismo, cioè il regno del Bene, e il fascismo, ossia il regno del Male. E così è stato.

Il professore di filosofia e storia Ettore Luccini (Genova, 1910-Padova, 1978) è una delle numerose figure d’intellettuali che hanno transitato dal fascismo di sinistra al comunismo e che bene esemplificano la continuità ideale che esiste fra le due ideologie e fra i due movimenti, anche se non ammessa né riconosciuta dai diretti interessati, anzi, drasticamente negata, e sia pure al prezzo di strane contorsioni intellettuali; per cui essa ci sembra particolarmente adatta ad illustrare quanto andiamo dicendo.

Luccini si era fatto notare, da giovane, come redattore della rivista padovana «Il Bò» (il nome della sede universitaria di quella città), espressione dei Gruppi Universitari Fascisti (G.U.F.) di Padova, fondata nel 1935 da Ugo Mursia e Ruggero Zangrandi, due nomi destinati a una notevole carriera nell’Italia postbellica; vi aveva sostenuto, insieme ad altri, le sue discussioni e le sue battaglie sul tema del corporativismo, in parte dirette contro il maggiore esponente della tendenza di destra, il filosofo Ugo Spirito (anch’egli, a guerra finita, accostatosi al comunismo: ma non nella "blanda" versione sovietica, che gli parve insufficiente, bensì in quella, dura e pura, del maoismo cinese); conobbe e diventò amico del fisico Eugenio Curiel, israelita triestino e futuro partigiano, medaglia d’Oro alla memoria; e divenne, infine, dopo essere stato vicino alla Resistenza, una figura di spicco nella vita culturale di Treviso e Padova, oltre che stimato e ammirato insegnante, e fondatore dell’Associazione Italia-U.R.S.S., negli anni successivi alla guerra e fino alla morte, avvenuta nel 1978.

Così ne rievoca l’evoluzione intellettuale Francesco Loperfido, parlamentare e presidente dell’Istituto Gramsci, in un ampio e articolato volume collettivo che ricorda la sua vita e il suo pensiero (F. Loperfido, «Ettore Luccini. Umanità, cultura, politica», Vicenza, Neri Pozza Editore, 1984, pp. 4-7):

«Lo attirano presto la religione, la bellezza, un gusto per l’intelligenza della psiche [sic], un interesse per gli altri che non lo abbandoneranno mai. L’analisi della vita interiore lo occupa come problema di fondo. Con la stessa passione coltiva l’amore dell’amicizia, lo studio attento degli amici. La penetrazione psicologica alimenta la predilezione del dialogo. La pratica politica in gran parte si affida alla fecondità del dialogo. Fin dagli anni universitari lo vediamo cercare un principio di bene, animarsi della consapevolezza attiva che esiste la via del bene, via di giustizia, di libertà, di pace, di scambi spirituali, di azione per il raggiungimento del bene. L’umanitarismo sentimentale — attingo dall’auto-biografia di Treviso – acquista più profonda interiorità dallo studio di Tolstoi. "Società e diritto in Tolstoi" è argomento della sua tesi in filosofia del diritto. Accetta il suo cristianesimo utopistico, l’irremovibile pacifismo e antimilitarismo: ne è così convinto da dimettersi dal corso allievi ufficiali che la milizia fascista teneva presso l’università. Nel 1934 si iscrive al Partito fascista, si interessa del G.U.F., viene premiato ai Littoriali di Firenze per la traduzione della "Paura" di Afinoghenov, commedia di propaganda bolscevica: un giovane pacifista, traduttore dal russo di testi filo-bolscevichi [e già qui, per chi la vuol vedere, c’è una bella, colossale contraddizione] si iscrive al partito della guerra e dell’antibolscevismo. Egli parla di "ragioni di opportunità", ma forse è convinto di muoversi in un ambiente più aperto se non rivoluzionario. Non è poco, dopo anni di isolamento, di cambi di città e scuole, di sradicamento trovarsi nell’ambiente dove si discute la Carta del lavoro, l’economia corporativa e programmata, il superamento, per una terza via, dello stesso capitalismo o per lo meno del suo predominio. Ma crediamo che anche allora il problema più inquietante che si pone è: "come devo vivere?" Quesito tipicamente tolstoiano personale e politico, del singolo e della società. La vita particolare, transeunte, è interna al mondo: a un mondo dove l’approdo della vita individuale è la confluenza in una realtà extrapersonale. Il singolo si smarrisce, se non oltrepassa la propria determinata individualità andando verso il suo essere illimitato, il suo se stesso extrapersonale, vera coscienza di relazione tra sé e gli altri…»

Riassumendo. La figura di Ettore Luccini è precisamente quello di cui ha bisogno il P.C.I. per presentarsi come un partito assolutamente normale, trasparente, democratico, innamorato del bene supremo della libertà; e, inoltre, dialogante, aperto, disponibile perfino a interrogarsi sugli orizzonti spirituali. Insomma, tutto ciò che il P.C.I. di allora, staliniano, arrogante, totalitario, non era; quello, per intenderci, che, davanti all’insurrezione di Budapest, parlò di complotto dei fascisti ungheresi e che, per bocca d’un certo Giorgio Napolitano, esortava i carri armati sovietici a ripristinare il valore della pace. Ettore Luccini si prestava meravigliosamente a essere mostrato come specchietto per le allodole: animo ricco di umanità, di sensibilità, di amicizia, perfino attratto dal trascendente, dalla teosofia, dal cristianesimo (tolstoiano, naturalmente): insomma, tutti gli ingredienti che possono fare di un intellettuale comunista un personaggio che sia accattivante e fruibile, culturalmente e umanamente, anche al di fuori della ristretta cerchia dei militanti e degli adepti, una specie di apostolo delle genti (delle genti non comuniste o non ancora interamente convertite) e a decostruire il mito dei comunisti biechi e trinariciuti, alla Peppone, gente che aspetta solo l’arrivo di Baffone e dei cavalli cosacchi presso le fontane di San Pietro.

Nel frattempo, come si è detto, Luccini, come fondatore dell’Associazione Italia-U.R.S.S., svolgeva un ruolo non certo secondario nella diffusione del verbo marxista e stalinista nel Veneto democristiano, e nel presentare lo Stato sovietico come la patria felice di tutti i lavoratori; e ciò in piena Guerra fredda, quando l’U.R.S.S., per gli intellettuali e i militanti come lui, rappresentava ancora, evidentemente, una radiosa speranza per la giustizia e per la libertà dei popoli: quella stessa U.R.S.S. che mandava nei "gulag" o al manicomio qualsiasi oppositore o potenziale oppositore e rendeva impossibile a Boris Pasternak ritirare il Nobel per la letteratura, dopo aver spinto al suicidio poeti come Sergej Esenin e Valdimir Majakovskij, avere isolato e reso la vita difficile a romanzieri come Michail Bulgakov e aver deportato in Siberia, come ai tempi dello Zar, e peggio, scrittori del calibro di Aleksandr Solgenitsin.

Sta di fatto che nelle 430 pagine del libro sopra citato, e nei contributi di ben sessanta intellettuali chiamati a delineare i diversi aspetti della personalità di Luccini (fra essi Franco Sartori, Andrea Zanzotto, Guido Petter), si direbbe che nemmeno uno abbia trovato giusto fare un discorso, press’a poco, di questo tenore: «Ettore Luccini, come numerosi altri intellettuali passati al comunismo durante la guerra civile o subito dopo la (cosiddetta) Liberazione, veniva dal fascismo, nel quale aveva a lungo militato, in cui si era formato, e nel quale era venuto a conoscenza dei problemi, politici e sindacali, che lo interessarono poi per tutta la vita; e, avendo maturato il suo distacco dal regime, vide nel comunismo l’ideologia che più si avvicinava ai suoi ideali e l’abbracciò con molta convinzione, cercando in essa, come già l’aveva cercata nel fascismo, evidentemente senza trovarla, quella volontà di costruire un uomo nuovo all’interno di un nuovo ordine politico e sociale: vale a dire quell’idea totalizzante dell’uomo e della società che, di fatto, accomuna fascismo e comunismo, e rende così logico il passaggio dal primo al secondo, laddove si rimproveri al primo di essersi fermato a metà strada, di non aver portato sino in fondo il suo disegno rivoluzionario, di essersi congelato in un sistema "borghese".» Né pare che una tale ammissione sia mai uscita di bocca, a suo tempo, al diretto interessato: insomma, un atteggiamento analogo a quello dei "philosophes" illuministi, i quali, nel portare avanti le loro battaglie per la libertà, la fraternità e l’uguaglianza, mai ammisero il proprio debito culturale nei confronti del cristianesimo, senza la cui azione quelle parole d’ordine sarebbero state semplicemente impensabili; e i quali, anzi, videro sempre nel cristianesimo nient’altro che l’infame nemico da abbattere, il responsabile di tutti i mali dell’umanità, il concentrato di ciò che nella storia è negativo.

Ci piacerebbe immaginare quale effetto farebbe, per esempio, in Germania, la pretesa non di uno, o di due, o di tre, ma di legioni d’intellettuali, di essere sempre stati oppositori irriducibili del nazismo, e di aver sempre avuto una inclinazione verso il comunismo, pur essendosi volontariamente iscritti al nazionalsocialismo e pur avendo fatto carriera nei giornali e nelle istituzioni del regime hitleriano, insomma, dopo aver fatto il proprio apprendistato politico e culturale all’interno del Terzo Reich: crediamo che la cosa susciterebbe uno scroscio d’irrefrenabili risate, quando non provocasse un sordo mormorio di vera e propria indignazione.

Questa maniera di rifarsi una verginità e di suonare sempre il piffero nei battaglioni del vincitore, misconoscendo le autentiche radici dei propri comportamenti passati, e ignorando, contro ogni evidenza e ogni elemento di buon senso, il legane organico esistente tra la fase anteriore e quella successiva del proprio percorso intellettuale, culturale e umano, è semplicemente trista: denota mancanza di onestà intellettuale, brama di essere sempre dalla parte giusta, cioè quella vincente, dell’agone politico e culturale.

Tutto ciò, invero, non soltanto è molto comunista, ma è anche molto, fin troppo italiano.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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