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Con l’educazione permissiva roviniamo i bambini e prepariamo la destrutturazione sociale

La pedagogia moderna, figlia di Rousseau e delle sue idee sdolcinate e balorde sulla perfetta innocenza infantile e sulla malvagità della civiltà, è stata il logico prolungamento alla sfera educativa della concezione giusnaturalista di una natura intrinsecamente "buona" e conforme a ragione, bene in sé che va difeso e tutelato ad ogni costo, contro chiunque.

In questa visione, il mondo degli adulti è il Male, il mondo del bambino rappresenta il Bene: è dunque necessario proteggere il più possibile i bambini "innocenti" dalle pretese dei loro genitori, degli insegnanti, dei sacerdoti e di chiunque altro voglia esercitare una funzione direttiva verso di essi, voglia insegnar loro che cosa si può fare e che cosa non si deve fare, o, addirittura, giudichi di poterli sottoporre a lavori faticosi e poco gratificanti di qualunque genere, fosse pure quel minimo di aiuto domestico che rientra nelle loro possibilità.

Il bambino non deve fare fatica, non deve affrontare mansioni noiose, perché questo distrugge la sua naturale creatività: tale è l’assioma delle odierne scienze dell’educazione (nome assai pomposo che ha sostituito, nelle aule universitarie, la vecchia denominazione di "pedagogia"). Se, poi, questo tenerlo lontano da ogni dovere e da ogni responsabilità produca dei giovani e dei futuri adulti egoisti, poco collaborativi e propensi a scoraggiarsi facilmente davanti alle difficoltà della vita, pazienza: tutti vedono quali sono le conseguenze, ma nessuno, o pochissimi, sembrano avere il coraggio di contestare l’assioma di partenza: che, per difendere e sviluppare lo spirito creativo, il bambino debba essere artificialmente tenuto lontano da qualunque serio impegno, da qualunque sia pur piccola responsabilità, da qualunque impatto troppo ravvicinato con i fatti della vita adulta.

Ne consegue che, se il bambino chiede ai suoi genitori che acquistino un animaletto da compagnia, poi va a finire che devono accudirlo loro, e non lui, perché, poverino, ha già tanto da fare con i compiti di scuola, le lezioni di pianoforte, gli allenamenti di calcio o di nuoto, e così via; che, se qualcuno deve occuparsi del fratellino o della sorellina più piccoli, in assenza dei genitori, è meglio chiamare un estraneo a pagamento, che responsabilizzare il fratello più grandicello, perché, poverino, non bisogna caricarlo di eccessive responsabilità, cosa che potrebbe traumatizzarlo o provocargli ansia; e che, se i nonni sono seriamente ammalati, non bisogna portare i nipotini a dare loro un saluto, che potrebbe anche essere l’ultimo, per evitare ai piccoli la scoperta sconcertante della malattia e della morte imminente.

Sul versante scolastico, la teoria dell’apprendimento libero e gioioso, supportato da innumerevoli correnti pedagogiche più o meno libertarie e permissive, si traduce, di fatto, nella rinuncia a proporre quegli insegnamenti che, sulle prime, riescono più difficili o richiedono un maggiore impegno: si pensa che l’impegno non vada d’accordo con la creatività e che quest’ultima vada tutelata bandendo l’impegno prolungato e faticoso dall’orizzonte scolastico del bambino. Se proprio non è possibile eliminare del tutto certi insegnamenti, allora li si riduce al massimo, li si svuota di ogni reale contenuto, li si banalizza: e non stiano pensando solo a discipline come la matematica, ma anche agli insegnamenti di tipo religioso e spirituale, ritenuti da molti troppo ardui ed astrusi.

Ha scritto William Damon, docente alla Brown University, una delle voci più originali e interessanti nell’odierno, piatto e desolante panorama degli studi pedagogici (da: W: Damon, «Più grandi speranze»; titolo originale: «Greater Expectations», 1995; traduzione dall’americano di Elena Campominosi , Longanesi & C., 1997, pp. 47-51):

«I pedagogisti hanno decretato che l’esigenza di maturità della scuola tradizionale distrugge la creatività innata del bambino. Il presupposto è che la creatività richieda impulsi spontanei, non appresi, che possono venire soffocati da un eccesso di disciplina. La soluzione proposta è un approccio cauto e "bambinocentrico" al lavoro creativo degli allievi che eviti di esprimere di esprimere critiche o di impartire istruzioni. Vale a dire che per salvaguardare le doti innate del bambino sarebbe necessario un metodo permissivo. Secondo quest’ottica, per salvaguardare la creatività sono necessari attenzione, assenza di regole e un tipo particolare di ricompense. A quest’idea romantica si accompagna la precisazione che il bambino dovrebbe imparare solo ciò cui è intrinsecamente interessato: ricompense e altri incentivi sono considerati antitetici allo spirito del lavoro creativo. Questo approccio all’educazione infantile domina a tal punto la cultura postmoderna da avere scarse alternative. […] Oltre che a occupazioni facili e divertenti, i bambini hanno bisogno di applicarsi ad attività impegnative che li aiutino ad eccellere. Per lo sviluppo delle doti creative il riscontro e gli incentivi esterni sono importanti tanto quanto l’interesse intrinseco per una determinata cosa. I bambini devono imparare a impegnarsi anche quando un’attività diviene difficile e noiosa. Nel lungo periodo, se sono preparati ad affrontare le frustrazioni e gli aspetti ingrati che sono parte inevitabile di ogni attività creativa, ottengono risultati migliori. Genitori, insegnanti e pedagogisti sembrano convinti che per risolvere i problemi del bambino basti rafforzare la stima che egli ha di sé. Se un bambino non ha successo con i compagni di gioco, il motivo è la scarsa considerazione che ha di sé. Se ha problemi a scuola, la causa è la mancanza di autostima. Perfino l’indisciplina, la maleducazione e l’arroganza vengono attribuiti a una carenza di autostima. La soluzione viene presentata quasi ogni giorno sulla stampa popolare: potenziate l’autostima di vostro figlio. In ogni momento, e senza tener conto delle circostanze, dovremmo assicurare i nostri figli che sono "fantastici" in ogni campo. […] Spesso, per ironia, le idee errate sullo sviluppo del bambino si contraddicono. Teniamo in grande considerazione la sua autostima, ma al tempo steso gli trasmettiamo il messaggio che non è abbastanza maturo per affidargli vere responsabilità, che insegnargli a rendersi utile è troppo laborioso e che deve trascorrere il tempo libero riposandosi dalle fatiche di una vita piena di impegni. In questo modo, e in molti altri, favoriamola sua immaturità. È un comportamento particolarmente distruttivo, perché lo priva dell’opportunità di acquisire competenze e demolisce ogni sua legittima pretesa di merito. Inoltre, la favola dell’incapacità dei giovani induce il bambino a pensare solo a se stesso e a non rendersi utile agli altri. […] Una visione distorta di che cosa sia bene per il bambino e di quali siano le sue capacità ci ha persuaso a permettere ai nostri figli di gironzolare per i centri commerciali o di impigrirsi davanti alla televisione piuttosto che chiedere loro di dare una mano. Il benessere moderno ci consente il "lusso" di mettere in atto le concezioni sbagliate sollevando i bambini da ogni obbligo domestico. Idee sbagliate e benessere costituiscono un terribile connubio a detrimento dei giovani. […] Ma l’effetto più scoraggiante delle nostre convinzioni sbagliate è che ci inducono a privare il bambino dei messaggi spirituali. La nostra reticenza nasce dal mito dell’incapacità infantile. Molti ritengono che sia inutile cercare di impartire principi religiosi e morali al bambino perché non li capirebbe. Oggi, in molti ambienti educativi, l’istruzione religiosa è annacquata al punto da aver perso ogni significato. Non nutriamo sufficiente fiducia nell’intelligenza e nella capacità di attenzione del bambino per coinvolgerlo in una riflessione seria sui valori trascendentali. Siamo restii a trasmettergli i grandi ideai, e se lo facciamo, ci sentiamo quasi in dovere di scusarci. Tale atteggiamento nasce da un’erronea interpretazione della ricerca sull’età evolutiva, secondo la quale il bambino non sarebbe in grado di pensare a concetti astratti. In realtà, i bambini sono affascinati dai misteri eterni della vita e della morte, non si spaventano affatto a parlarne, anzi, sono ansiosi di farlo. […] I bambini di oggi, come quelli di ogni epoca, danno il meglio di sé quando crescono in un clima culturale ricco di obiettivi. Nel mondo moderno esistono ancora luoghi e ambienti simili, e ovunque si trovano ancora giovani pieni di vita. Ma la tendenza generale è inquietante proprio perché, perlopiù, si tende ad andare, sbagliando, nella direzione opposta. Questo non significa che la colpa sia della modernità in sé, né che il progresso culturale debba essere in antitesi con le esigenze spirituali esistenti da sempre, di un bambino che cresce. Esse possono venir soddisfatte in maniera assolutamente moderna. Anzi, questa è l’unica soluzione possibile.»

Questa ci sembra una disamina chiara, onesta, consequenziale della odierna emergenza educativa: non dovremmo meravigliarci se, dopo aver cresciuto i nostri bambini lontano da ogni serio impegno e da ogni genere di responsabilità, poi ci troviamo di fronte degli adolescenti immaturi, superficiali, ingrati: nessuno li ha abituati ad assumersi la loro sia pur piccola quota d’impegno nella vita, dunque essi tendono a rifiutarlo, anche dopo aver varato le soglie della fanciullezza. Bisognerebbe, semmai, meravigliarsi che vi siano, oggi, così tanti adolescenti maturi e responsabili: il merito non è dei loro genitori, né dei loro insegnanti, ma di loro stessi e, forse, di qualche esempio giunto loro da altre parti, magari in maniera indiretta: quello dei nonni, per esempio, oppure di qualche forte personalità da loro incontrata occasionalmente (un missionario di ritorno dall’Africa o dall’America Latina che racconta le sue esperienze: a volte basta un’ora soltanto per gettare un seme vivo nella coscienza dei giovanissimi). I genitori e li maestri iper-protettivi, che vorrebbero difendere il bambino dalle minacce della vita adulta, molto spesso non si rendono conto che stanno difendendo, in realtà, la parte infantile di se stessi e che stanno riversando sui loro figli e sui loro alunni dei conflitti irrisolti della loro storia personale.

Se il bambino esprime il desiderio di avere un canarino, o un pesciolino rosso, i suoi genitori dovrebbero mettere bene in chiaro, dopo avergli mostrato come si fa, che sarà lui a doversi occupare di cambiare il mangime, pulire la gabbietta o rinnovare l’acqua della vasca, e così via. Se esprime il desiderio di avere un gatto o un cagnolino, la responsabilità sarà anche maggiore: bisogna farglielo capire, o altrimenti l’animale non va acquistato. La stessa cosa va fatta con i fiori e le piante del terrazzo o del giardino, se è il bambino a chiederne l’acquisto, ed, entro certo limiti, anche se non è lui. Non c’è niente di male ad insegnargli ad annaffiare le piante, specialmente d’estate, o a coprirle d’inverno, quando si avvicinano le gelate: anzi, è un modo di sviluppare, ad un tempo, le sue capacitò di osservazione della natura e il suo personale senso di responsabilità verso un essere vivente bisognoso di cure. Se, poi, le vacanze o altri impegni distraggono il bambino dalle sue responsabilità nei confronti delle piante e degli animali domestici, dovrà essere lui a pensare ad una possibile soluzione, individuando una figura sostituiva nelle loro mansioni oppure, in mancanza di altre soluzioni, rinunciando, se necessario, alla gita o alle vacanze. Può sembrare duro: ma solo così i bambini imparano a confrontarsi con la realtà della vita, che non fa mai sconti, e a sviluppare gli strumenti per fronteggiarla. Questo non significa privarlo della sua infanzia e tanto meno della sua creatività: la creatività del bambino non soffre di queste cose, ma delle ore e ore di televisione e di computer, della noia e dell’abitudine a non far niente, del fatto che nessuno gli chieda mai nulla e che, quasi quasi, gli educatori si sentano in colpa di chiedere che egli si applichi.

Il fratellino o la sorellina maggiori devono essere abituati a prendersi cura dei più piccoli, ad aiutarli a vestirsi, a mangiare, a fare i compiti. Essi devono capire che non può ricadere tutto sulle spalle della mamma e del papà e che ciascun membro della famiglia ha la sua quota di responsabilità nei confronti di tutti gli altri, specialmente in caso di bisogno (come per l’insorgere di una malattia). E anche i nonni, se bisognosi di assistenza, devono diventare figure di riferimento, non solo per ricevere regali e denaro, ma anche per mettersi a loro disposizione, nei limiti del possibile, secondo le loro necessità. Sarebbe auspicabile che ciò avvenisse spontaneamente: ma non ci si può aspettare che un bambino totalmente deresponsabilizzato ci arrivi da solo. Sarebbe illogico e ingiusto.

L’educazione morale e religiosa rientra perfettamente in questo quadro: non è vero che essa sia troppo "difficile" per il bambino e non è vero che bisogna parlare al bambino solo di ciò che egli può veramente comprendere sul piano puramente razionale. Questo è un residuo dell’illuminismo e del positivismo: il bambino, al contrario, è provvisto, più dell’adulto, di strumenti di conoscenza diversi da quelli esclusivamente logici. Si può parlare con lui della vita e della morte, dell’anima e della vita eterna, del bene e del male: quel che non capirà con la sola ragione, lo intuirà in altro modo. Se questi semi non vengono gettati nella sua anima quando essa è pronta a riceverli, forse, poi, sarà troppo tardi. Vi son fiori delicati che, se non coltivati per tempo, non sbocceranno mai più.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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