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Un soldato delle SS può essere un santo? La storia esemplare di Leonardo Dallasega

Questa è la storia di un soldato nazista che potrebbe essere innalzato agli onori degli altari; anche se soldato nazista lo era divenuto per caso, o meglio per costrizione, e santo potrebbe diventarlo in virtù degli ultimi cinque minuti della sua vita terrena.

Era un uomo della Val di Non, che venne fucilato dalle truppe tedesche in ritirata il 28 aprile 1945, proprio alla fine della Seconda guerra mondiale, mente in quasi tutto il resto dell’Italia i combattimenti erano cessati (non, però, le vendette e gli assassinî, fatti passare per atti di "giustizia" patriottica); e indossava, egli stesso, una divisa dell’esercito tedesco. Non della Wehrmacht, però, bensì la divisa nera, e temutissima, delle famigerate Waffen SS ("Schutz-Staffeln", ovvero "squadre di protezione").

La fucilazione ebbe luogo a Sega d’Ala, in provincia di Trento (e non in provincia di Verona, come erroneamente è scritto nel libro di Accattoli); insieme a lui venne passato per le armi don Domenico Mercante, parroco del paese di Giazza (in provincia di Verona, ma dove si parlava un dialetto tedesco). Non è un caso, però, che siano caduti insieme: il fatto di essere cattolici è stato la causa della loro fine. In maniera diversa, l’uno in quanto prete e pastore del suo gregge, l’altro in quanto uomo di fede e di coscienza, essi rappresentavano una nota stonata nella mappa concettuale di quel comandante tedesco che conduceva la colonna in ritirata verso la Germania; due note stonate che andavano eliminate, anche se la guerra era ormai praticamente finita, e il Reich "millenario" di Adolf Hitler era ridotto a un cumulo di rovine fumanti.

I fatti andarono così: cediamo la parola al giornalista e scrittore Luigi Accattoli e alle pagine del suo pregevole libro «Nuovi martiri. 393 storie cristiane nell’Italia di oggi», Cinisello Balsamo, Milano, 2000, pp. 207-208):

«[Domenico Mercante e Leonardo Dallasega vennero] fucilati dai Tedeschi il 28 aprile 1945 a Sega d’Ala (Verona): il comandante tedesco ordina al militare italiano di uccidere il prete che la pattuglia aveva usato come scudo umano; il militare si rifiuta e viene ucciso subito dopo il prete.

Durante la ritirata una pattuglia di paracadutisti tedeschi costringe il presbitero Domenico ad accompagnare la loro marcia tra i monti. Dopo sette ore di cammino l’ufficiale della pattuglia ordina a uno dei soldati di ucciderlo, ma il soldato si rifiuta professandosi cattolico. I mitra dei militari atterrano allora il sacerdote e, subito dopo, un colpo di pistola uccide il soldato.

Il forte gesto di Leonardo Dallasega era noto per il racconto che ne avevano fatto i componenti della pattuglia, ma il nome dell’"eroico e sconosciuto soldato" (come lo chiama a p. 151 il "Martirologio del clero italiano", che è del 1963) si era perso. La ricostruzione della sua identità è opera di Luigi Fraccari — già cappellano militare internato in Germania eppoi parroco della comunità italiana di Berlino — a cui fu richiesto di condurre questa ricerca dal successore di don Domenico Mercante [il parroco di Giazza, frazione di Selva di Progno, un miniscolo comune della Lessinia, ove si parlava, e ancora si parla, il cimbro, una varietà della lingua alto-tedesca, diffusasi durante il Medioevo in alcune valli del Trentino e del Veronese].

Con una indagine durata trent’anni, don Luigi ha scoperto che quel soldato — che è sepolto a Merano, nel cimitero militare germanico, tomba 1018 — si chiamava Leonardo Dallasega, che era nato a Rumo, nella val di Non, che aveva quattro figli (due dei quali nati dopo il suo arruolamento forzato e che dunque egli mai vide) e che così rispose al comandante tedesco: "Sono cattolico, padre di quattro figli! Questo è un assassinio, non posso sparare contro un prete!".

Il vescovo di Verona Franco Carraro [Franco Roberto Carraro, frate cappuccino, nato a Sandon di Fossò, in provincia di Venezia, il 3 febbraio 1922, è stato vescovo di Verona dal 1998 al 2007; attualmente, vescovo di Verona è Giuseppe Zenti, già vescovo di Vittorio Veneto, che era stato ordinato sacerdote proprio da don Carraro; nota nostra], letta la ricostruzione della vicenda fatta da don Luigi, ha proposto l’idea del processo di beatificazione della SS Leonardo Dallasega, sostenendo che "quel soldato, ucciso in quella maniera, poteva essere paragonato a uno degli antichi martiri cristiani"

[Olindo Viviani, "Un sacerdote italiano e un soldato tedesco nel sacrificio e nella gloria. Don Domenico Mercante", Verona, 1960; "Leonardo Dallasega ucciso per non uccidere", su "Il Segno", 24 luglio 1999, p. 4].»

Che un italiano della Val di Non – peraltro appartenente a una zona ove si parlava il ladino -, venisse arruolato nelle Forze Armate germaniche, e addirittura nelle Waffen SS, è cosa che non dovrebbe stupire più di tanto. Infatti, se, al momento della loro nascita, nel 1933, tali truppe erano arruolate secondo rigidi criteri di appartenenza razziale, durante la Seconda guerra mondiale il Terzo Reich dovette fare ricorso, in misura crescente, all’arruolamento di truppe straniere, purché legate all’etnia tedesca o, almeno, all’ideologia nazista: tanto che, al termine del conflitto, su 38 divisioni SS, per un totale di quasi un milione di combattenti, ben 25 erano formate da soldati di provenienza straniera, compresi i Valloni del Belgio, i Musulmani della Bosnia-Erzegovina e parecchie altre minoranze. Gli Italiani, in quel contesto, non erano fra i meno numerosi: circa 20.000 uomini al termine della guerra, contro i 23.000 Fiamminghi, i 15.000 Valloni, gli 11.000 Danesi, gli 8.000 Francesi, i 6.000 Norvegesi (fonte: «La vera storia delle SS», di Robin Lumsden, pp. 248-249). Del resto, il loro capo supremo, Heinrich Himmler, aveva sempre avuto una concezione "ideologica", più che razziale, delle SS: secondo lui, l’importante era che riflettessero pienamente le convinzioni politiche e morali del regime nazista, e che servissero fedelmente e incondizionatamente l’Ordine Nuovo di matrice hitleriana.

Anche se digiuni di conoscenze storiche appropriate, i milioni di lettori del notissimo romanziere Sven Hassel (pseudonimo dello scrittore danese Willy Arberg, 1917-2012), come «Maledetti da Dio», del 1953, sanno, comunque, che la Germania, durante la guerra, ricorse all’arruolamento sia volontario, sia, talvolta, forzato, proprio nelle SS, anche di truppe di origine non tedesca: il protagonista della "serie" di Sven Hassel è un giovane danese che, durante la Grande Depressione, si era arruolato nella Wehrmacht semplicemente per sbarcare il lunario, e poi, durante la guerra, ha disertato, ma è stato ripreso e spedito al fronte in un reparto di disciplina, formato da disertori, criminali comuni e sovversivi politici e destinato alle missioni più pericolose, a volte quasi suicide. E, anche se si tratta di romanzi dalla storicità controversa, così come dubbia è la biografia dello scrittore danese, che affermava di aver descritto le proprie personali vicende in prima persona, resta il fatto che quelle vicende potrebbero essere realmente accadute, perché il quadro storico complessivo in esse rappresentato, fra il crudamente drammatico e il picaresco, è, tuttavia, sostanzialmente veritiero.

Leonardo Dallasega, dunque, non è un superuomo ariano, non è una nietzschiana "bestia bionda"; è un uomo pacifico, un modesto valligiano,che avrebbe voluto veder crescere in pace i suoi quattro figli; soprattutto, è un cattolico fervente, per il quale la fede cristiana non è una cosa che sta nei libri, non è una religione astratta, ma uno stile e una norma di vita: pur negli orrori della guerra (e che guerra!), egli è uno di quegli uomini rari che non permettono agli istinti perversi, annidati in ciascun essere umano, di venire allo scoperto, con la scusa delle circostanze eccezionali. Inoltre, è un uomo leale e coraggioso, che non sa tacere, che non sa far finta di non vedere e di non sentire; pur consapevole del rischio mortale che sta affrontando, non esita a rifiutare obbedienza a un superiore, in teatro di guerra e col fiato dei nemici sul collo, dunque con la prospettiva quasi certa di venire immediatamente passato le armi, senza neppure la frettolosa formalità di un tribunale di guerra eccezionale.

Eppure egli non esita: sa quello che rischia, sa perfettamente a cosa va incontro, e nondimeno non si sottrae a quello che sente come un dovere etico imperioso, superiore a qualsiasi autorità esterna:il dovere cristiano di non compiere il male, di non spargere sangue innocente, di non piegarsi agli ordini malvagi di un potere illegittimo, perché immorale e pagano. Leonardo Dallasega, dunque, è uno di quegli uomini eccezionali che sanno restare uomini sino in fondo, mentre tutto intorno gli uomini diventano, o ridiventano, belve sanguinarie, ignare di qualsiasi legge di pietà e incapaci di qualsiasi gesto di compassione.

L’ufficiale nazista che ordina di fucilare il prete che aveva trascinato con sé, per servirsene come di uno scudo nei confronti degli attacchi partigiani, ha smarrito del tutto la sua umanità e non è divenuto ormai che una belva braccata e assetata di sangue: sente la fine imminente, assiste al crollo delle sue certezze criminali (Berlino sta per cadere nelle mani dei Sovietici, e mancano appena due giorni al suicidio di Hitler), ma il suo ultimo pensiero è di aggiungere alle vecchie un’altra vittima, l’ennesima, ma forse la meno giustificabile, perché perfettamente inutile sotto ogni punto di vista: un parroco inerme, che era stato costretto ad accompagnare quei soldati in ritirata lungo i sentieri di montagna. E a quell’ultima vittima inutile ne vorrà aggiungere, subito dopo, una seconda: il soldato che ha disobbedito all’ordine, che ha avuto la pretesa di far valere la legge pietosa di Dio contro la legge spietata degli uomini.

È chiaro che l’insieme di questa vicenda dovrebbe indurci a un profondo ripensamento di tutta una serie di stereotipi e di "cliché" ideologici con i quali – o meglio, a causa dei quali – noi abbiamo sempre "letto" i fatti della storia, guidati da un ingiustificato manicheismo, immaginandoci che i "buoni" fossero facilmente riconoscibili dai "cattivi" semplicemente in base all’uniforme che indossavano; mentre la realtà, vera e concreta, è molto, ma molto più complessa e sfaccettata, perché molto più misterioso è il soggetto e l’oggetto della storia: l’essere umano. Anche se le ideologie atee e materialiste ormai prevalenti da più di un secolo vorrebbero cancellare un tale mistero e ridurlo alle proporzioni, razionalmente esplorabili, della psicologia, della sociologia, dell’economia, resta il fatto che l’uomo è infinitamente misterioso e suscettibile dei gesti più abietti e più sublimi, degli slanci più commoventi di generosità, così come dei soprassalti più bestiali di furore. Ci siamo dimenticati che ogni storia umana è, in buona sostanza, una storia sacra, e che Dio soltanto è capace di leggerla sino in fondo.

"Non possum": sono le parole di tanti martiri cristiani all’epoca delle persecuzioni da parte della autorità romane, allorché veniva chiesto loro di celebrare il sacrificio nei confronti dell’imperatore divinizzato; parole attestate da numerosi "atti" relativi ai processi che li videro denunciati, accusati e infine condannati a morte. «Non posso sacrificare all’imperatore, perché l’imperatore è un uomo e non un Dio; rispetto e obbedisco all’imperatore, ma adoro solamente Dio»: queste erano le parole più frequenti da essi pronunciate davanti ai giudici che li minacciavano dei peggiori supplizi, se non avessero obbedito. In fondo, si trattava solo di gettare alcuni grani d’incenso sul braciere, e di ripetere una breve formula già predisposta: tutto lì; in cambio, la prospettiva di essere immediatamente liberati e sciolti da ogni accusa, anzi, forniti di un regolare attestato di buoni cittadini, che li avrebbe messi al riparo da qualunque futura denuncia. Eppure, moltissimi preferirono ribadire il proprio "non posso", e affrontare il carcere, il disonore (vale a dire, la frequente incomprensione di amici e parenti), la morte.

Anche Leonardo Dallasega, in quei pochissimi istanti che ebbe a disposizione per decidere, si risolse a pronunziare un "non posso", altrettanto fermo e deciso. «Non posso fare una cosa del genere; non posso uccidere un prete: sarebbe un assassinio». Dicendo così, egli firmava la sua condanna a morte e lasciva orfani i suoi quattro figli, vedova la sua sposa; ma entrava nell’eternità, e ci entrava a testa alta. Aveva difeso il bene supremo, che viene persino prima della vita: la dignità umana. Forse, quell’ufficiale nazista che lo volle passare per le armi seduta stante, ne ebbe la chiara intuizione: quanto durerebbero i poteri crudeli di questo mondo, se la coscienza etica si ribellasse?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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