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28 Luglio 2015La tradizione patriottica e risorgimentale italiana pone come un assioma il fatto che tutti gli Italiani, al di qua e al di là delle frontiere del 1866, desiderassero ardentemente di essere "redenti" dalla soggezione all’Austria-Ungheria e che si considerassero, perciò, alla stregua di cittadini "irredenti", ossia in attesa del fatidico momento in cui sarebbero stato riuniti alla loro vera madrepatria.
La stessa tradizione esiste, anzi, esisteva nella storiografia jugoslava e romena, nonché in quella ceca, slovacca, polacca, ucraina: insomma, di tutti i popoli della Duplice Monarchia, con la sola eccezione — ovviamente — delle due nazionalità egemoni: l’austro-tedesca e la magiara. Il caso dei Serbi (e, in minor misura, dei Croati e degli Sloveni), e quello dei Romeni, sono i più simili al caso degli Italiani "irredenti": perché anche per essi esisteva, al di là dei confini asburgici, una realtà statale indipendente, sotto la guida di una monarchia nazionale la cui aspirazione suprema era, appunto, quella di riunificare in un unico Stato-nazione tutti i cittadini della propria etnia (anche al prezzo di assorbire una notevole percentuale di altre minoranze). Invece la Cecoslovacchia, la Polonia e l’Ucraina non esistevano (la Cecoslovacchia non era mai esistita, semmai la Boemia e la Moravia avevano goduto, nel Medioevo, dello "status" di monarchia autonoma; la Polonia era esistita, eccome, ma era scomparsa dalla carta geografica alla fine del XVIII secolo, con tre successive spartizioni operate da Prussia, Russia e Austria; l’Ucraina aveva goduto di una certa autonomia al tempo della federazione lituano-polacca). Per quei popoli, quindi, la prospettiva non era quella di unirsi a degli Stati già esistenti, ma di creare degli Stati che non esistevano, o di far risorgere degli stati che erano scomparsi da tempo.
Il problema delle nazionalità, all’interno dell’Austria-Ungheria, era estremamente complicato e particolarmente urgente e paradigmatico. Nella Monarchia danubiana, riformata secondo il modello "dualistico" nel 1867 (con governi e parlamenti distinti; corone distinte, ma riunite nella stessa persona: Francesco Giuseppe; ministeri separati, a eccezione della Guerra, delle Finanze e degli Esteri), il principio dinastico aveva funzionato, per secoli, come forza coesiva; ma, con l’avvento dei nazionalismi, a partire dal XIX secolo, la struttura plurinazionale dello Stato divenne un problema essa stessa. Durante la Prima guerra mondiale si giungerà al paradosso: con l’Ungheria agricola che tiene per sé le eccedenze granarie, mentre l’Austria, industrializzata, soffre la fame; e con i reparti militari che devono essere impiegati al fronte tenendo conto del nemico che hanno di fronte, per cercare di prevenire le diserzioni e le rese in massa. Il caso di Cesare Battisti, di Fabio Filzi e di Nazario Sauro non è isolato; anche sul fronte russo, sul fronte serbo e su quello romeno vi furono casi simili; interi reggimenti cechi disertarono sul fronte orientale.
Non bisogna, però, enfatizzare troppo quelle dinamiche. L’Impero asburgico resse alla prova in un modo che ha dello stupefacente: se non vi fosse stata la guerra del 1914, e se non fosse durata quattro anni e mezzo, mettendo in ginocchio l’economia ed esasperando il malcontento sociale, forse quello Stato millenario avrebbe retto ancora; e forse avrebbe retto a dispetto di tutto, se le grandi potenze, vittoriose nel 1918, non ne avessero decretata la fine, probabilmente anche per le mene della Massoneria, che voleva abbattere l’ultimo grande Stato cattolico (come adombra uno dei massimi conoscitori di quelle vicende, l’ungherese François Fejtö, nel suo importante saggio «Requiem per un impero defunto»).
Gli Alleati, a un ceto punto — diciamo verso il 1917 — decisero di puntare sulla dissoluzione dell’Austria; e il presidente americano Wilson, in modo particolare, decise di sposare in pieno la causa degli indipendentisti cechi e croati (Masaryk, Beneš, Trumbić e Šupilo), i quali puntavano al programma massimo: l’indipendenza totale, e quindi la disgregazione dell’Impero; mentre il nuovo sovrano, Carlo d’Asburgo, aveva proposto l’adozione di una rinnovata struttura federale, con pari rappresentanza per tutte le componenti nazionali. Carlo aveva anche tentato degli approcci con l’Intesa per giungere a una pace negoziata (affare Sisto di Borbone), che erano falliti, sostanzialmente, per l’irrigidimento dell’Italia, decisa a non scostarsi dalla richiesta di ciò che le aveva garantito il Patto di Londra: Trento e Trieste, più una parte della Dalmazia.
Ad ogni modo, a parte il ruolo dell’Italia (che era pur sempre una delle maggiori potenze dell’Intesa, ma che non avrebbe potuto, da sola, far fallire sul nascere il negoziato), il punto era che Wilson, e poi anche Clemenceau, si erano convinti di dover appoggiare il programma massimo degli indipendentisti cechi e croati: ossia, come aveva auspicato Mazzini mezzo secolo prima, l’"Austria delenda". Ma che cosa ne pensavano i popoli interessati? In quale misura le diverse nazioni dell’Impero condividevano il programma massimo dell’indipendenza nazionale? Ebbene, vi sono ragioni più che valide per dubitare che la maggioranza dei sudditi della Monarchia danubiana approvasse e condividesse quel programma. Di più: solo pochissimi intellettuali lo avevano sostenuto fin dallo scoppio della guerra. Se, ancora nel novembre del 1918, si fossero tenute delle regolari consultazioni democratiche, per stabilire cosa desiderasse realmente la maggioranza delle popolazioni dell’Austria-Ungheria, è molto dubbio che gli indipendentisti avrebbero vinto. Le ragioni per proseguire la convivenza secolare, sia pure su basi rinnovate, erano numerose ed evidenti: a cominciare dalla difficoltà di stabilire consensualmente le nuove frontiere, in aree etnicamente miste, e di assumersi la responsabilità di una indipendenza economica per la quale, in molti casi, non esistevano le condizioni, sicché gli stati "successori" si sarebbero trovati, automaticamente — come infatti accadde — a dover dipendere finanziariamente dal buon volere delle banche e degli investitori francesi, britannici e americani.
Perfino i deputati trentini, goriziani e triestini, nel novembre del 1918, mostrarono qualche esitazione davanti all’annessione pura e semplice al Regno d’Italia; alcuni di loro avrebbero preferito una consultazione elettorale o una qualche garanzia di autonomia. I sudditi ungheresi della Croazia, facendo il confronto con le condizioni di vita nel Regno di Serbia, così come i sudditi austriaci della Transilvania, guardando alle condizioni del confinante Regno di Romania, non erano tutti favorevoli all’annessione: ve n’erano non pochi che, stabilendo il confronto, si rendevano conto di quanto migliori fossero le condizioni dell’istruzione pubblica, del sistema dei trasporti, della burocrazia statale, del fisco, della giustizia, esistenti in Austria-Ungheria. Che, poi, gli Slovacchi non desiderassero altro che di unirsi, in posizione sostanzialmente subordinata, ai Cechi, con i quali non avevano alcun serio legame storico; che i Polacchi e i Ruteni fossero ansiosi di battersi per la spartizione della Galizia; che i Croati e gli Sloveni non vedessero l’ora di unirsi ai Serbi, in un regno jugoslavo ove si sarebbero trovati in minoranza: tutto questo è molto dubbio, per non dire improbabile. Eppure così sono state raccontate le cose nella storiografia cecoslovacca, jugoslava, romena; e così sono state insegnate a scuola. Ma la verità è che l’Austria-Ungheria, pur con tutte le sue debolezze e i suoi anacronismi, era un organismo statale ancora vivo e vitale, perfino al termine della Prima guerra mondiale: e lo dimostra il fatto che, nei primi giorni della sua ultima battaglia — quella del Piave, poi denominata di Vittorio Veneto -, a partire dal 24 ottobre 1918, le sue truppe, benché esauste, denutrite, a corto di materiale bellico e pressoché prive di speranza, si batterono ancora con estrema determinazione contro le forze italiane e alleate attaccanti. Non è così che si svolgono le cose in uno Stato moribondo, che si accinge a spegnersi di morte naturale. Evidentemente, la Vulgata retorica degli Stati successori aveva bisogno di creare una mitologia, quella dell’irredentismo, per poter giustificare le brutali spoliazioni operate al tavolo della pace dai nuovi governi, sotto l’egida degli Stati Uniti e dell’Intesa.
Ha osservato l’economista e sociologo austriaco Friedrich von Wieser nella sua opera, a torto semisconosciuta nel nostro Paese, «La fine dell’Austria» (titolo originale: «Österreichs Ende», Berlin, Verlag Ullstein & Co., 1919; traduzione dal tedesco di Paolo Amari ed Enzo Grillo, Roma, Archivio Guido Izzi, 1989, pp.30-31; 73-74):
«Non erano poche le forze storicamente mature sul cui sostegno il governo poteva contare. In ogni caso, un’entità statale di cinquanta milioni di uomini, economicamente e culturalmente florida, doveva avere in sé una enorme forza di perseveranza. Insieme con le istituzioni statali, continuava d essere operante in una certa misura la grande potenza della Chiesa, anche se il clero più giovane era passato in gran numero nel campo nazionalista. Inoltre, un profondo sentimento dinastico univa tutte le etnie, nessuna esclusa, al vecchio imperatore, anche se va pur detto che proprio fra i tedeschi l’amore per questo impero aveva le sue radici più profonde. Questo Impero è stato la loro opera storica, ha offerto loro opportunità di azione in una misura tale da aver fatto per loro le veci del mondo; era un Impero al di fuori del quale i tedeschi non potevano immaginarsi e nella cui grandezza essi hanno sempre confidato, nonostante che il loro orgoglio fosse dolorosamente ferito quando hanno visto che non poteva più mantenere il suo livello storico. Per la verità nei popoli della Monarchia non erano presenti, almeno nella dimensione che si è voluto sostenere, correnti centrifughe verso gli Stati connazionali di là dai confini. Esse hanno sempre fatto la loro comparsa presso certi strati affetti da un esasperato nazionalismo, specialmente della borghesia intellettuale, masi però nelle masse. Anche riguardo ai nostri cittadini italiani, le masse non desideravano passare a far parte del regno d’Italia, e l’ITALIA IRREDENTA era più di casa nel regno italico che da noi. La fame di potenza dell’Italia mirava ad avere per sé Trento e Trieste, ma il contadino triestino, e tutto sommato anche il cittadino di Trieste, erano legati all’Austria dall’abitudine e da un calcolato interesse. Secondo le testimonianze più attendibili, al momento dello scoppio della guerra un plebiscito nel Trentino e a Trieste avrebbe dato una grande maggioranza all’Austria. Tra i nostri serbi e quelli del regno serbo, tra i nostri rumeni e quelli del regno rumeno, c’erano, negli strati colti, desideri di avvicinamento che potevano arrivare fino al desiderio di unificazione, ma restava comunque aperta la questione se la riunificazione si dovesse realizzare al di qua o al di là dei confini dell’Impero. Se il governo della Monarchia avesse avuto anche solo una parte dei fini e delle risorse di un tempo, si sarebbe preoccupato di elaborare piani per guadagnare i serbi o i rumeni alla dinastia asburgica, il cui nome rappresentava per il popolo un ricordo indimenticabile sin dai tempi gloriosi della vittoria sui turchi. Ancora durante la guerra, politici di primo piano hanno elaborato proposte affinché la riunificazione di tutti i rumeni, una volta dimostratasi irrealizzabile in uno Stato rumeno indipendente, avvenisse sotto la corona degli Asburgo. Così anche il movimento nazionalista ucraino contava di liberare dal giogo russo e di attrarre da questa parte gli ucraini che erano al di là della frontiera. I polacchi, in Galizia, si sono sentiti così legati all’Austria che anche fra loro è nato durante la guerra il piano per la riunificazione della Polonia russa con la Polonia austriaca sotto la corona degli Asburgo. […]
La formula della liberazione delle piccole popolazioni propagandata dalla coalizione mondiale non appena la guerra fu in corso, vuol far apparire le cose diverse da come le abbiamo qui esposte. Da come essa le presenta, sembrerebbe che le popolazioni irredente che ancora languivano sotto l’oppressione dell’Austria-Ungheria, avessero già da tempo desiderato unirsi ai fratelli di fuori, ma che, troppo deboli per potersi sbarazzare da sé del despota, siano state alla fine liberate dalle potenze mondiali. In realtà le cose non stavano affatto così. Come già abbiamo mostrato in precedenza quando abbiamo descritto la situazione della vecchia Austria, i movimenti irredentisti italiano, rumeno e serbo interessavano solo una ristretta cerchia nazionale, mentre la gran massa delle popolazioni, per quanto avanzasse rivendicazioni e proteste nazionali, non mirava affatto ad uscire dalla Monarchia. Se i fratelli di fuori avessero interrogato tali masse circa la loro volontà di essere liberate, si sarebbe appresa la verità; ma i nazionalisti di fuori non le hanno interrogate, né intendevano farlo. Ci si lasciò trascinare dall’egoismo della brama di potenza nazionale, la quale voleva la riunificazione perché essa avrebbe accresciuto il proprio potere. Ma, di nuovo, i nazionalisti di fuori non costituivano la massa delle loro nazioni e questa massa ubbidiva alla norma di saggezza politica che la portava che la portava non solo a rispettare il potere esteriore dell’Austria-Ungheria, ma anche a riconoscere nell’Austria-Ungheria il potere interiore di una realtà che si era andata formando storicamente. Un uomo di Stato dal passato rivoluzionario come Crispi, che aveva fatto parte dei Mille di Garibaldi, non si sarebbe deciso all’alleanza con la Monarchia se dinanzi al popolo italiano non si fosse potuto richiamare a questo potere interiore, in armonia con un’Europa intera che fin quasi alla vigilia della guerra mondiale aveva ravvisato nella stabilità e nell’integrità della Monarchia una garanzia essenziale per la pace europea. E del resto chi avrebbe potuto ritenere che la condizione dei nostri serbi e rumeni sarebbe migliorata se fossero stati abbandonati alle condizioni dissestate e arretrate dei loro paesi nazionali d’origine? Solo quando la coalizione nazionale giunse alla conclusione che, per far tornare sicuramente i conti della sua supremazia, non le restava che includere tutti quei popoli; e solo quando questi stessi popoli capirono di poter contare sulle supremazia della coalizione, gli umori si rovesciarono, e gli uomini saggi furono o respinti o trascinati da chi aveva ambizione di potere.»
Che gli Stati successori avessero una scarsa vitalità, lo si è visto alla prova dei fatti, già nel ventennio fra le due guerre mondiali; e, poi, nella maniera più clamorosa e incontrovertibile, dopo la caduta del Muro di Berlino. La Cecoslovacchia si è sciolta in maniera consensuale e pacifica; la Jugoslavia, in maniera traumatica e sanguinosa. Dalla prima sono nati due piccoli stati; dalla seconda, addirittura sei. In Kosovo, dopo una guerra e un intervento militare esterno, l’etnia albanese, già soggetta a repressioni da parte dei Serbi, ha effettuato una pulizia etnica contro gli ex persecutori e si è proclamata indipendente, ma ha ottenuto solo un riconoscimento parziale da parte dell’O.N.U. L’Ungheria continua a considerare come una rapina la perdita della Transilvania, e la Romania come una specie di stato banditesco e illegittimo; la Polonia non ha mai dimenticato Leopoli e guarda con malcelato interesse a quel che accade in Ucraina, sperando di poterla recuperare. La questione degli Italiani nell’Istria, in Dalmazia e a Fiume è stata "risolta" con la loro espulsione "de facto"; quella dei Tedeschi del Sud Tirolo, dopo anni di tensioni e terrorismo, con la concessione di una autonomia talmente ampia, da rasentare l’indipendenza e la discriminazione a rovescio per la minoranza italiana.
Tutto questo induce a riflettere. Non è affatto vero che il destino inevitabile dell’Austria-Ungheria era segnato, né che quel grande Stato fosse privo di vitalità e coesione. Contro di esso giocarono non uno, ma più fattori avversi: il nazionalismo, la democrazia, il laicismo, la stessa idea illuminista del progresso, oltre alla trame occulte della Massoneria e della grande finanza internazionale, interessata a manipolare i piccoli stati successori. L’Austria-Ungheria rappresentava, per molti aspetti, un anacronismo rispetto alle tendenze prevalenti fra le élites intellettuali europee e statunitensi, ma non era poi così anacronistico nell’arte di governare e far convivere in pace una dozzina di popoli diversi. In breve, essa non è morta di morte naturale, ma è stata assassinata: e la sua fine è stata freddamene decisa a tavolino.
Il fatto che Carlo d’Asburgo fosse un fervente cattolico, è solamente una coincidenza? Il fatto che, in Austria-Ungheria, molte delle ideologie tipicamente moderne, dal laicismo all’anticlericalismo, dalla democrazia alla cultura radicale dei diritti, avessero trovato solo una scarsa presa, è, anch’esso, una mera coincidenza? Ed è sempre casuale che proprio negli scrittori della "finis Austriae" — da Musil a Roth, da Svevo a Kafka, da Schnitzler a Michelstaedter — emerga con più angoscia, con più lucida preoccupazione, tutto il malessere dell’uomo moderno, che si vede minacciato dalla perdita delle proprie radici e della propria identità?
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