
La natura e la grazia fanno dell’uomo una creatura complessa, dal duplice destino
28 Luglio 2015
Nelle gelide acque del Mar Baltico si consuma l’apocalisse dimenticata del «Wilhelm Gustloff»
28 Luglio 2015Se c’è una decisione di Mussolini che trova d’accordo praticamente tutti gli storici, da destra e da sinistra, uniti in un coro di generale biasimo e totale disapprovazione, è stata quella di far partecipare l’esercito italiano alla campagna lanciata da Hitler contro l’Unione Sovietica con il "Piano Barbarossa" nel giugno del 1941; con l’aggravante, si dice, che tale partecipazione non solo non era stata richiesta dai Tedeschi, ma, al contrario, il Führer l’aveva apertamente sconsigliata, ricordando al suo alleato che avrebbe fatto meglio, per la causa comune, a concentrare tutti gli sforzi nel settore mediterraneo.
Il giudizio degli storici si incontra con quello popolare: il ricordo della tragedia dell’A.R.M.I.R. è stato così vivo e bruciante, non solo fra quanti la vissero in prima persona, ma, in generale, nella opinione pubblica italiana del tempo – specialmente dopo il disastro dell’inverno 1942-43 e il rientro in patria dei resti irriconoscibili di quelle magnifiche truppe, ridotti all’ombra di se stessi, decimati, congelati, mutilati -, da far cadere una condanna definitiva e inappellabile, morale prima ancora che politica, sul capo del Fascismo, del governo e delle Forze armate.
Tale giudizio di condanna si mescola con quello, parimenti negativo, sulla incredibile inefficienza del materiale di cui disponevano le divisioni del Corpo di spedizione italiano in Russia (C.S.I.R.), divenuto poi Armata Italiana in Russia (A.R.M.I.R.), e forte, a un certo punto, di circa 230.000 uomini; e si citano sempre, come tipico esempio di ciò, gli scarponi dalla suola di cartone, causa di congelamento per innumerevoli soldati e segno visibile della nostra macroscopica, criminale impreparazione: impreparazione che, a maggior ragione, avrebbe dovuto sconsigliare, così si argomenta, una impresa tanto temeraria, oltre che inutile.
In realtà, studi più recenti, e meno unilaterali, tendono a evidenziare che le nostre truppe, per quanto possibile, erano dotate di materiale bellico non poi tanto scandente; che quella delle "suole di cartone" è, più o meno, una leggenda metropolitana, sopravvissuta solo perché nessuno si è preso la briga di smontarla, e ciò per motivi puramente ideologici (se Mussolini era un pazzo o un criminale, o magari entrambe le cose, poteva ben essere capace di mandare i nostri soldati in Russia con delle scarpe dalle suole di cartone); e che, se è vero che le truppe alpine non erano adatte alla guerra di movimento sul fronte del Don, in pianura, sarebbero state però assai adatte alla guerra di montagna, sul fronte del Caucaso, ove erano inizialmente destinate, e dove si sarebbero trovate ad operare, se la campagna sul fronte orientale non avesse preso una piega diversa da quella preventivata dall’Alto comando tedesco.
La cosa necessita di ulteriori studi e approfondimenti; è ormai quasi certo, però, che, intorno alla inadeguatezza ed alla inefficienza delle nostre truppe in Russia, e del materiale bellico e logistico di cui disponevano, per non dire intorno alla criminale leggerezza con cui sarebbero state gettate in un teatro di operazioni "sbagliato", i giudizi tradizionali devono essere rivisti ed, in parte, perfino rovesciati, anche se la cosa può non piacere a chi ha deciso di addossare a Mussolini e al Fascismo la responsabilità di tutte le colpe e di tutti gli errori che funestarono l’impiego delle nostre Forze Armate nella Seconda guerra mondiale: quasi che i nostri generali e i nostri ammiragli non ne avessero commessi anche loro, alcuni dei quali clamorosi, altri addirittura equiparabili al vero e proprio tradimento (per non parlare di quelli commessi da certi rampolli di casa Savoia, come il tanto glorificato viceré d’Etiopia, Amedeo d’Aosta, che portò alla catastrofe 340.0000 nostri soldati, fra italiani e indigeni, per ingenuità politica, incompetenza, vanagloria e fatalismo).
Resta aperto il giudizio politico circa l’opportunità della partecipazione italiana alla campagna di Russia; e, in subordine, ad una partecipazione così massiccia, considerando anche l’andamento assai poco soddisfacente delle operazioni sul fronte realmente vitale per l’Italia, quello nordafricano, rispetto al quale lo sforzo bellico fu, probabilmente, impari agli obiettivi supremi: conquistare Malta, impadronirsi del Canale di Suez, minacciare il Medio Oriente e tenere lontano l’esercito britannico dalla Sicilia e dalla Penisola, rendendo sicure le rotte marittime e, in definitiva, espellendo la flotta britannica dal Mediterraneo.
Se ne può discutere a lungo e sono legittime conclusioni divergenti; una cosa, però, è abbastanza chiara: dal punto di vista politico, sarebbe stato difficile, per l’Italia, evitare una qualche forma di partecipazione alla guerra sul fronte russo. Una volta deciso di giocare la carta della guerra contro la Francia e la Gran Bretagna, il 10 giugno del 1940, e una volta sottoscritto il Patto Tripartito, il 27 settembre dello stesso anno, con la Germania e il Giappone, era inevitabile che l’iniziativa politica italiana si riducesse, mano a mano che i giganteschi e imprevisti sviluppi della Seconda guerra mondiale modificavano gli equilibri vigenti e le prospettive strategiche iniziali.
Ha scritto Gianni Oliva nella sua monografia «Storia degli alpini» (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2001, pp. 190-92):
«Alle 3.15 del 22 giugno 1941 i tedeschi attaccavano la Russia con tre gruppi di armate che puntavano rispettivamente su Leningrado, Mosca e Kiev, coprendo un fronte amplissimo compreso tra il Golfo di Finlandia e l’Ucraina: con le truppe naziste operavano unità finlandesi, slovacche, ungheresi e romene. Il governo italiano era stato avvertito dell’attacco il 15 giugno dal ministro degli Esteri von Ribbentrop, incontratosi a Venezia con Ciano, ma non era stata richiesta la partecipazione di nostri reparti all’offensiva.»
A che cosa fu dunque dovuta la decisione di inviare un corpo di spedizione nelle steppe russe, dal momento che l’Italia non aveva ragioni autonome e specifiche per fare la guerra all’U.R.S.S.? Una risposta è certamente nel significato di "crociata antibolscevica" dell’aggressione e della sua funzionalità alla propaganda anticomunista del regime, per cui Mussolini poteva scrivere a Hitler: "La vostra decisione di prendere alla gola la Russia ha trovato in Italia un’adesione entusiastica specie fra i vecchi elementi del partito che avrebbero accettato, ma molto a malincuore, una diversa soluzione del problema. In una guerra che assume questo carattere, l’Italia non può rimanere assente". Una seconda risposta è nella convinzione, diffusa tra i dirigenti fascisti, di una conclusione vittoriosa della campagna entro la fine dell’estate, convinzione alimentata dagli stessi tedeschi nei colloqui con i responsabili politici italiani(nel diario Ciano, alla data 21 giugno 1941, parla di "otto settimane" per sconfiggere l’Armata Rossa). La ragione principale del nostro intervento va però ricercata, come si è accennato, nei rapporti determinatisi all’interno dell’Asse dopo gli insuccessi italiani in Africa e in Grecia: "una volta fallito il tentativo di crearsi una propria area di rispetto con la realizzazione della guerra parallela, nonostante le persistenti ambizioni imperialistiche che l’Italia continuò a nutrire, il suo ruolo ricadeva pesantemente al livello di semplice riserva della Germania, con tutto ciò che questo sottintendeva […]; nella situazione dell’Italia si era andata creando paradossalmente una spirale di questa natura: via via che la Germania nazista allargava la sfera della sua espansione, anche l’Italia si sentiva spinta a fare altrettanto, non soltanto per fame di conquiste, ma perché riteneva che soltanto in questo modo, con il pegno di una presenza diretta, essa potesse garantire il riconoscimento dei propri interessi da parte dell’alleata. In questo comportamento va visto non soltanto il segno dell’arrogante rapacità dell’imperialismo fascista, ma probabilmente anche la consapevolezza inconfessata che la famosa spartizione delle sfere di influenza era una pura invenzione della diplomazia fascista. Non potendo competere con le forze di penetrazione economica e finanziaria praticate largamente dall’imperialismo tedesco, l’Italia mirava alla presenza territoriale, alla conquista militare, anche se questo comportava uno spaventoso dispendio e una totale dispersione delle già deboli forze armate italiane" (E. Collotti). Da un punto di vista strategico l’invio di reparti in Russia fu un grave errore: lo stesso Hitler, in una famosa lettera a Mussolini del 21 giugno, aveva sottolineato che l’aiuto decisivo l’Italia avrebbe dovuto farlo nel versante mediterraneo: "l’aiuto decisivo, Duce, lo potrete fornire col rafforzare le vostre forze nell’Africa settentrionale, possibilmente anche volgendo lo sguardo da Tripoli verso l0’occidente, col costituire un contingente per ora sia pur piccolo, che in caso di violazione dei trattati da parte francese possa marciare in Francia.. E infine con l’intensificare la guerra aerea e, dove sia possibile, quella dei sottomarini nel Mediterraneo". Gli stessi Stati Maggiori italiani riconoscevano che l’invio di un corpo di spedizione in Oriente avrebbe indebolito il fronte africano, sottraendo mezzi preziosi: "l’aumento anticarro per l’oriente è giusto", annotava nel suo diario il 27 giugno il Cavallero, "ma non deve essere a scapito della Libia". Di fronte alle decisioni politiche di Mussolini i responsabili militari abdicavano però al loro ruolo e alle loro funzioni: "ebbi l’impressine che Cavallero fosse personalmente poco convinto dell’opportunità dell’invio dell’armata in Russia", scrive il generale Messe a proposito di un colloquio avuto nel giugno 1942 "soprattutto per l’esatta conosceva che aveva delle gravi condizioni i cui versava il nostro esercito. Ma egli, uomo di grande intelligenza e d’intuito pronto e sicuro, rapidissimo nell’afferrare il lato essenziale di ogni questione, si era evidentemente limitato a qualche timido tentativo per sostenere il suo punto di vista. Quando si accorse che Mussolini era deciso a inviare l’armata ripiegò, com’era sua abitudine sulle proprie posizioni, dimenticando che sulle spalle del capo di stato maggiore generale venivano a pesare gravi e precise responsabilità personali". La scelta di Mussolini non nasceva da considerazioni strategiche, ma dalla constatazione che l’abbondanza di uomini era "l’unica carta che il governo fascista poteva giocare come merce di scambio nei confronti della Germania" (E. Collotti). Già nel 1939, alla vigilia del conflitto, il duce aveva scritto: "l’Italia può mobilitare proporzionalmente un numero di uomini maggiore che la Germania. A una abbondanza di uomini corrisponde una modestia di mezzi. L’Italia – nel piano bellico — darà quindi più uomini che mezzi; la Germania più mezzi che uomini". L’invio del contingente in Russia nasceva perciò nella stessa logica del "migliaio di morti necessari per sedersi al tavolo della pace", con cui era stata decisa la nostra partecipazione al conflitto nel 1940: ma il numero di morti sarebbe stato enormemente superiore e la disfatta avrebbe finito per travolgere lo stesso regime che l’aveva determinata.»
Dunque, la questione politica: era opportuno, era ragionevole, e soprattutto, era conforme agli interessi nazionali italiani, la partecipazione delle nostre Forze armate, in maniera abbastanza massiccia, alla campagna di Russia? Questa dovrebbe essere la domanda da porre, e non una petizione di principio, come la Vulgata storiografica oggi imperante vorrebbe, circa l’assurdità e la folle leggerezza della decisione di Mussolini, partendo da una generica deprecazione della guerra in quanto tale (ma la stessa cosa si potrebbe e si dovrebbe fare anche per le altre potenze) e insistendo sul fatto che il fronte orientale non rivestiva, per l’Italia, un interesse strategico primario.
Partiamo da quest’ultima considerazione. In un conflitto come quello mondiale del 1939-45, che vide rimessi in gioco tutti gli equilibri geopolitici esistenti, da un capo all’altro del globo (e perfino in Antartide, ove i Tedeschi avevano organizzato una imponente spedizione scientifico-militare nel 1938-39: la Neuschwabenland del capitano Alfred Ritscher, cui ne avrebbero dovute seguire, a stretto giro, altre due), non era più possibile ragionare come nelle guerre a raggio limitato del passato, nelle quali era pensabile una partecipazione limitata e ristretta ad una, o a poche, aree geografiche ben precise. Nel 1915-18, ad esempio, le Forze armate italiane erano state impegnate quasi esclusivamente sul fronte italo-austriaco, in una lotta immediata per la vita e per la morte, con gli obiettivi strategici vitali di entrambe le parti in lotta situati a poche centinaia, o perfino a poche decine di chilometri dalla linea del fuoco (come si vide con lo sfondamento di Caporetto). Eppure, anche in quel caso, truppe italiane erano state impiegate sul fronte francese e sul fronte macedone; altre in Albania; altre ancora erano state inviate, ad un certo punto, perfino nella lontana Siberia, per partecipare alle operazioni antibolsceviche a sostegno delle armate "bianche".
Nella Seconda guerra mondiale, il peso del fattore geopolitico globale era ancora più marcato. Nessuna nazione impegnata nella lotta poteva illudersi di condurre una "sua" guerra nazionale, astraendo dal quadro complessivo, non solo politico e militare, ma anche economico e finanziario. Basti dire che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sottoscrissero la Carta atlantica, in cui dichiaravano apertamente di porsi l’obiettivo di distruggere il nazismo, fin dal 14 agosto del 1941, ossia molti mesi prima che gli Stati Uniti entrassero "ufficialmente" nella guerra: ciò significa (con buona pace di quanti credono ancora alla favola dell’attacco "a tradimento" giapponese di Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941) che gli schieramenti finanziari, industriali e militari si erano già nettamente delineati, assai prima che si definissero quelli propriamente militari. Per non parlare della legge Affitti e prestiti, che fu approvata dal governo di Washington addirittura nel marzo del 1941 e che impegnava gli Stati Uniti a rifornire il Commonwealth britannico e, poi, gli altri stati "alleati": Unione Sovietica, Cina e Francia, di quantità praticamente illimitate di materiale bellico d’ogni tipo, oltre che di prestiti finanziari.
In una cornice del genere, l’idea che l’Italia potesse condurre una "guerra parallela" a quella della Germania, mantenendo una propria sostanziale autonomia, era sbagliata e fuorviante in se stessa, anche se la misura dell’errore apparve chiara solo allorché si vide, a partire dall’autunno del 1940, che le Forze armate italiane — in Egitto, così come in Grecia e sul fronte navale del Mediterraneo — non erano in grado di svolgere un ruolo primario nemmeno nelle aree strategiche che non interessavano direttamente l’espansionismo tedesco: il che rese necessario rimangiarsi l’orgoglio nazionale e chiedere l’aiuto dell’ingombrante alleato tedesco.
Certo, nel giugno del 1940 Mussolini non poteva immaginare che la guerra si sarebbe estesa alla Russia; o, quanto meno, non poteva immaginare che Hitler sarebbe stato così pazzo da scatenare l’Operazione Barbarossa prima di aver piegato la resistenza della Gran Bretagna. Ma un tale errore di valutazione fu commesso da molti, a quell’epoca, non solo in Italia, ma anche fuori di essa. Il fatto è che gli obiettivi di guerra italiani erano sostanzialmente compatibili con quelli tedeschi solo nel quadro della campagna di Occidente, ossia contro la Francia e la Gran Bretagna. Tali obiettivi, per l’Italia, erano Nizza, Tunisi, Malta, Suez, Gibilterra, Tangeri, Gibuti e, forse, Aden: in altre parole, la conquista delle chiavi strategiche del Mediterraneo e del Mar Rosso, onde assicurare alla nostra flotta e al nostro commercio il libero accesso alla navigazione oceanica.
Quando Hitler, senza essere riuscito a piegare la Gran Bretagna, anzi, proprio illudendosi (come già, prima di lui, Napoleone) di riuscire a piegarla, decise di lanciare l’Operazione Barbarossa, e questo senza prima informarne il suo alleato (come già aveva fatto quando si era accinto ad invadere la Polonia), il quadro complessivo veniva a cambiare profondamente, e l’Italia si trovò coinvolta, suo malgrado, in una prospettiva strategica che non aveva previsto e che non rientrava, in senso stretto, nei suoi interessi nazionali. Peraltro, si tenga presente la partecipazione di Cavour alla guerra di Crimea, non certo sentita dall’opinione pubblica piemontese: partecipazione che pure si rivelò una mossa vincente, sul piano diplomatico, quale preparazione alla Seconda guerra d’indipendenza. L’Italia, dunque, nel 1941 avrebbe fatto meglio a rimanere estranea alla campagna di Russia?
Il Giappone ritenne di poterlo fare, e si astenne dal partecipare alla guerra contro l’Unione Sovietica (anche se ne avrebbe avuto motivi, avendo sostenuto contro di essa una breve e sanguinosa, ma assai deludente, guerra non dichiarata, fra il maggio e il settembre del 1939). Ma fu un errore clamoroso, come poi si vide, allorché Stalin non ebbe vergogna di attaccare il Giappone alle spalle, l’8 agosto del 1945, cioè dopo il bombardamento atomico americano su Hiroshima; mentre è verosimile che un attacco giapponese all’Unione Sovietica, nell’estate o nell’autunno del 1941, e fino all’epoca della battaglia di Mosca, avrebbe potuto avere conseguenze decisive, provocando il crollo del regime staliniano e la sconfitta sovietica davanti all’esercito tedesco.
Mussolini scelse di partecipare, anche se non richiesto, alla campagna contro l’Unione Sovietica, non tanto per motivi ideologici (la crociata antibolscevica: argomento buono per la propaganda più banale), quanto per ragioni di equilibrio geopolitico: cioè per avere voce in capitolo, a guerra finita, non solo nelle aree di competenza strategica italiana, ma anche al di fuori di esse, onde conservare all’Italia, bene o male, un ruolo di grande potenza, membro a pieno titolo del Tripartito. Come egli stesso affermò, l’Italia non poteva inviare sul fronte russo meno uomini della Slovacchia, se non voleva restare tagliata fuori dai futuri equilibri mondiali. Fu un azzardo? Certamente. Ma, se avesse vinto, nessuno gliene avrebbe fatto una colpa: come nessuno l’ha mai fatta a Cavour…
Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio