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«Non prendete Pelagio alla leggera, ma sul serio»: parola di Paul Tillich

«Non prendete Pelagio alla leggera; prendetelo sul serio. Non dico che siano tutti pelagiani, ma vorrei dire che il pelagianesimo è molto vicino a tutti noi»: con queste parole, un po’ sorprendenti, si esprimeva uno dei massimi teologi protestanti del XX secolo, il tedesco Paul Tillich (Starzeddel, oggi Starosiedle, in Polonia, 20 agosto 1886 — Chicago, 22 ottobre 1965) e colui che è considerato, forse, come il principale autore del "rinnovamento" teologico contemporaneo.

Tillich, dunque, prendeva Pelagio sul serio, e consigliava tutti i cristiani di fare altrettanto; non considerava affatto l’eresia pelagiana come una faccenda morta e sepolta, risolta per sempre dal deciso intervento di sant’Agostino, con tutto il peso della sua autorità, fin dal V secolo dopo Cristo; lo considerava come una "tentazione" eternamente presente nell’animo umano, e, pertanto, eternamente presente anche nella storia del cristianesimo.

Così ne parla nel suo libro «Storia del pensiero cristiano» (titolo originale: «A History of Christian Thought», New York, Harper & Row, 1968; traduzione dall’americano di Giuseppe Sardelli, Roma, Ubaldini Editore — Casa editrice Astrolabio, 1969, pp. 126-128):

«Il punto decisivo è il rapporto fra religione ed etica. Il problema è se l’imperativo morale dipenda dalla grazia divina per la sua realizzazione, o se la grazia divina dipenda dall’imperativo morale.

Pelagio non era un eretico isolato. Rappresentava la dottrina ordinaria di coloro che si erano formati nel pensiero greco, specialmente nelle tradizioni stoiche, e per i quali la libertà è la natura essenziale dell’uomo. L’uomo è un essere razionale, e un essere razionale ha libertà di deliberazione e di decisione. Questo solo non avrebbe fatto di lui un eretico, perché la maggior parte delle Chiese orientali aveva la stessa, identica idea della libertà. Ma Pelagio sviluppò questo concetto in un modo che lo portò in conflitto con Agostino. Quando questo conflitto fu composto, Agostino era, almeno in parte, vittorioso, e Pelagio un eresiarca, il cui nome significa ancora una delle classiche eresie cristiane.

Per Pelagio la morte è un fatto naturale, non un risultato della caduta. Siccome appartiene alla finitezza, la morte si sarebbe avuta anche se Adamo non fosse caduto in peccato. Come abbiamo già visto, la stessa idea si trova espressa in Ignazio e Ireneo, per i quali l’uomo è naturalmente finito e destinato a morire come tutte le cos naturali. All’uomo, tuttavia, secondo la storia del paradiso terrestre, è possibile superare l’essenziale finitezza partecipando al cibo divino. Pelagio, invece, trascura la seconda possibilità e afferma come vera e conforme alla tradizione cristiana soltanto la prima. Il peccato di Adamo appartiene a lui solo e non al genere umano come tale. In questo senso il peccato originale non esiste. Il peccato originale trasformerebbe il peccato in una categoria naturale, ma l’uomo è un essere morale. Perciò, la contraddizione dell’esigenza morale deve essere un fatto di libertà e non un fatto naturale. Un uomo per essere peccatore, deve peccare. La semplice dipendenza da Adamo peccatori. Anche qui Pelagio afferma una cosa universalmente cristiana: che non c’è peccato senza partecipazione personale al peccato. Dall’altro canto, non vede che il cristianesimo accentua pure la tragica universalità del peccato, facendone così un destino del genere umano. Il rapporto col presunto primo uomo Adamo è, naturalmente mitologico, ma in questo mito la Chiesa cristiana — lo prendesse alla lettera o no- ha conservato l’elemento tragico che troviamo anche nella visione del mondo greca. Pelagio non vedeva in tutta la sua profondità la descrizione cristiana della situazione umana.

I bambini, quando nascono, si trovano nello stato in cui si trovava Adamo prima della caduta: sono innocenti. Naturalmente, a Pelagio non sfuggiva il fatto che la loro innocenza è corrotta dall’ambiente e dai costumi. Ciò è affine alla moderna teoria psicanalitica, secondo il quale è il rapporto con i genitori o con chi ne fa le veci che determina i complessi e le altre negatività in fondo all’anima. Oggi c’è un’altra teoria, la teoria biologica, secondo la quale la distorsione è ereditata e non si può evitare nemmeno se si mete il bambino nel migliore ambiente possibile. Le distorsioni il bambino le porta con sé dalla nascita. Comunque, Pelagio volle evitare l’idea del peccato ereditario. Il peccato non è una necessità universalmente tragica, ma una questione di libertà. L’America è molto vicina all’idea che ogni individuo possa sempre partire da un nuovi inizio, che, in virtù della sua libertà individuale, sia in grado di prendere decisioni favorevoli o contrarie al divino. L’elemento tragico, d’altro canto, è molto noto in Europa, mentre on è altrettanto vicino al cuore degli americani. In Europa l’aspetto negativo dell’agostinianesimo — potremmo chiamarlo esistenzialismo — ha dato enfasi all’elemento tragico e ha ridotto lo zelo e l’impatto etici del pelagianesimo.

La funzione di Cristo, in queste circostanze è duplice: perdonare i peccati nel battesimo a quelli che credono, e dare l’esempio di una vita senza peccato, non solo evitando i peccati, ma anche evitandone le occasioni mediante l’ascetismo. Gesù fu un esempio di ascetismo, una specie di primo monaco; Pelagio stesso era un monaco. La grazia si identifica con la remissione generale dei peccati nel battesimo. Dopo il battesimo, la grazia non ha più alcun significato, perché allora l’uomo è in grado di fare tutto da sé. La grazia del perdono l’uomo la riceve solo nella situazione del battesimo.

Possiamo dire che il pelagianesimo ha un forte rilevo etico con molti elementi ascetici, ma l’aspetto tragico della vita è andato completamente perduto. Non prendete Pelagio alle leggera; prendetelo sul serio. Non dico che siamo tutti pelagiani — come dico a proposito del nominalismo — ma vorrei dire che il pelagianesimo è moto vicino a tutti noi, specie in quei paesi che, come l’America, dipendono da movimenti settari. Questo è quello che di solito chiamiamo "moralismo", un termine trito e ritrito. Pelagio diceva che il bene e il male non sono dati, sono opera nostra. Se questo è vero, la religione corre il rischio di essere trasformata in moralità.»

In effetti, il punto veramente cruciale del pensiero di Pelagio, e quel che lo rende un pensiero ereticale, è, più ancora che la questione della grazia, quella del Peccato originale. Un grande pensatore e aforista colombiano, Nicolas Gomez Davila (1913-1994), ha affermato che gli esseri umani di dividono in due categorie: quelli che credono al Peccato originale, e gli stupidi. La dottrina del Peccato originale rappresenta, veramente, il discrimine fra la piena e incondizionata accettazione del cristianesimo (attenzione: abbiamo detto "accettazione" e non "comprensione", perché il cristianesimo non può essere oggetto di una comprensione puramente razionale, come lo sono le filosofie greche), e una adesione cauta e parziale, una adesione con riserva.

Secondo Pelagio, il Peccato originale rimane un fatto tra Adamo e Dio: non ricade sui discendenti di Adamo, finisce con il progenitore. Ovviamente, il battesimo, in questo modo, finisce per diventare poco più di una formalità, non certo una questione di vita o di morte: e la grazia divina si riduce a un aiuto soprannaturale nei confronti della volontà umana, la quale, non intaccata dal Peccato originale, conserva intatta la sua bontà originaria, e, insieme ad essa, la capacità di raggiungere la salvezza per mezzo delle proprie forze.

È difficile capire se davvero Pelagio non si rendesse conto di quali incalcolabili, devastanti conseguenze avesse una simile dottrina nei confronti del significato complessivo del cristianesimo: una dottrina che, ponendo l’uomo come suscettibile di auto-redenzione, toglieva valore ai due più grandi ed essenziali misteri cristiani: l’Incarnazione e la Trinità: la prima, quale ponte indispensabile, lanciato da Dio verso l’uomo per la sua salvezza; la seconda, quale logica e indispensabile articolazione della sostanza divina in tre Persone: il Padre creatore, il Figlio Redentore, lo Spirito Santo consolatore.

Perciò, i casi sono due: o Pelagio, accecato dall’orgoglio intellettuale, non si rendeva conto delle conseguenze del suo insegnamento, come un cieco che voglia porsi alla guida dei propri simili; oppure lo vedeva e lo capiva benissimo, e allora quel che si proponeva era di modificare sostanzialmente il contenuto dogmatico del cristianesimo, fin dalle radici, proprio come aveva fatto Ario, prima di lui. In ogni modo, è evidente che il suo scontro con Agostino non ebbe nulla di accidentale; e non è pensabile che, se il vescovo d’Ippona non fosse insorto contro la dottrina pelagiana, quello scontro non vi sarebbe stato, o che l’eresia pelagiana non sarebbe stata riconosciuta e condannata come tale dalla Chiesa cattolica. Perché la dottrina di Pelagio non solo è ereticale, ma di una eresia tale da vanificare totalmente il senso della Buona Novella; se, per ipotesi, la sua dottrina si fosse imposta, il cristianesimo sarebbe diventato un’altra cosa, una specie di neoplatonismo impregnato di etica stoica e di razionalismo aristotelico.

Non siamo persuasi, come lo è Tillich, che il punto fondamentale della dottrina pelagiana sia il rapporto fra religione ed etica; semmai, è il rapporto dell’etica con la ragione. Pelagio è un razionalista che crede fermamente nel libero volere umano; e, nello stesso tempo, è anche un naturalista, secondo il quale la natura è buona in se stessa, e dunque lo è anche l’uomo. Il suo cristianesimo è ridotto a una sottile verniciatura di una concezione del reale profondamente permeata dal razionalismo e dal naturalismo greci: un compromesso disarmonico e mal riuscito fra due mentalità e due prospettive troppo diverse, addirittura incompatibili. Il pensiero di Pelagio risente della "hybris", della dismisura greca nei confronti della finitezza umana: non possiede il "timore e tremore" giudaico nei confronti di Dio, non sente la piccolezza umana davanti al mistero della realtà.

In questo, Tillich ha ragione, come l’hanno, del resto, tutti i teologi protestanti: il cristianesimo, quando si appoggia troppo sulle radici greche, si sbilancia, si deforma, diventa irriconoscibile. Tillich, però, come quasi tutti i teologi protestanti (con la sola, parziale eccezione di Kierkegaard), salta all’estremo opposto: ritorna quasi interamente all’Antico Testamento, al giudaismo, all’idea giudaica di un Dio talmente grande, da far diventare l’uomo ancora più piccolo: e quindi, in buona sostanza, miserevole, indegno, reietto. Ciò restituisce al mistero della Grazia il suo ruolo essenziale, e riporta al centro della riflessione la rottura operata dal Peccato originale: tuttavia, il prezzo è troppo altro, la natura umana è mortificata in misura eccessiva: ci si dimentica che essa è stata ferita dalle conseguenze del Peccato originale, non distrutta nella sua bontà originaria. Qualche cosa, di quella condizione d’innocenza, è rimasto, e sia pure allo stato puramente potenziale, che, alla prova dei fatti, non resiste alla violenza della tentazione.

In altre parole: per evitare di umanizzare eccessivamente il cristianesimo, riducendolo poco più che ad una filosofia morale, si rischia di cadere nell’eccesso opposto, che è quello di restituirlo interamente al giudaismo: ed ecco perché è sbagliato insistere esclusivamente sulle radici giudaiche. Il cristianesimo, così come si è venuto configurando nel corso dei primi secoli, e come poi si è definitivamente assestato a livello teologico e dogmatico (perché dal punto di vista pratico e pastorale, l’avverbio "definitivamente" sarebbe un mero controsenso), poggia su entrambe le radici: quelle giudaiche e quelle greche. Il cristianesimo, senza le radici greche, è un puro e semplice giudaismo, e sia pure integrato dalla venuta del Messia; senza le radici giudaiche, è un neoplatonismo venato di stoicismo.

È vero che il senso del Peccato originale tende a rafforzare la concezione tragica del destino umano e rafforza un certo pessimismo antropologico: ma non vi è ragione di meravigliarsene, meno ancora di scandalizzarsene. L’antropologia cristiana è (moderatamente) pessimistica: se non lo fosse, avrebbe avuto ragione Pelagio nel sostenere che l’uomo può redimersi fondamentalmente da se stesso, con le proprie forze. In questo ha ragione Agostino, per quanto, nella foga della polemica antipelagiana, possa avere esagerato (e i protestanti hanno avuto il torto di attingere da lui solo questo aspetto di esagerazione e di eccessivo pessimismo; una operazione analoga, peraltro, hanno condotto anche nei confronti del pensiero paolino).

Qui, però, si nota un caratteristico scambio di ruoli. La visione greca dell’uomo, razionalista e naturalista, e dunque, tendenzialmente ottimista, è, nondimeno, una visione profondamente tragica: lo si vede già nei grandi tragici — Eschilo, Sofocle, Euripide — e, prima ancora, in Omero. E questo perché, insistendo sul tema della libertà umana, la concezione greca finisce per caricare sulle spalle dell’uomo un fardello di responsabilità eccessivo, addirittura schiacciante. La libertà diventa, di fatto, la sua maledizione: un destino tragico, al quale egli non può sfuggire, e che lo conduce verso la rovina, la colpa, la distruzione. Questo è l’aspetto "esistenzialista", come lo definisce — giustamente – Tillich, della concezione greca; gli esistenzialisti moderni, a cominciare da Sarte, non hanno fatto altro che riprendere questo tema: la libertà del volere, di cui l’uomo dispone, è anche la sua condanna, la sua maledizione, perché egli non sa farne buon uso. È un vicolo cieco, un corto circuito, dal quale l’uomo non sa come uscire, come salvarsi: e così piomba nell’angoscia, nella disperazione, nel desiderio di auto-annullamento.

Al contrario, la concezione giudaica, basata sull’idea di un Padre celeste indubbiamente giusto e perfino severo, ma anche immensamente misericordioso, se presuppone la fragilità e la debolezza originaria dell’uomo, e quindi sarebbe tendenzialmente pessimistica, supera poi il pessimismo antropologico appunto grazie al soccorso divino, che supplisce a quella fragilità e a quella debolezza, e conduce l’uomo verso la salvezza. Per cui non si riscontra affatto, nella cultura giudaica, quel senso del tragico che è caratteristico, invece, dell’antropologia greca: la concezione della storia dei Giudei è una concezione ottimistica; ed è logico: non è forse Dio stesso che guida il Suo popolo, attraverso prove e tribolazioni, verso la salvezza e il compimento delle promesse? Un personaggio come Edipo, nella cultura giudaica, sarebbe difficilmente immaginabile: anche nelle situazioni più tragiche, come quella di Giobbe, Dio è pronto a venire in soccorso dell’uomo, compensando i suoi limiti con un atto di amore gratuito, ineffabile.

Non siamo affatto d’accordo con Tillich, però, quando viene a dire che Gesù volle essere un esempio vivente di come si possa vincere il peccato, sottraendosi anche alle occasioni di tentazione, e che egli fu, in sostanza, una specie di archetipo del "monaco": primo, perché nessuno può sottrarsi alle occasioni di tentazione (nemmeno lo poterono, come è noto, i Padri del deserto, a cominciare da san Antonio abate, i quali, per quanto fuggissero lontani dal mondo, dovettero comunque affrontare e vincere la prova delle tentazioni diaboliche); secondo, perché Gesù diede un esempio opposto a quello dell’ascetismo, tanto è vero che fu accusato dai Giudei di essere «un mangione e un beone», per usare le parole del Vangelo (Matteo, 11, 18).

E qui si torna alla concezione greca. L’esempio di Cristo volle essere un esempio di vita religiosa, ma nel mondo, non fuori di esso: egli non si era ritirato nel deserto se non in preparazione della sua vita pubblica, predicando e operando in mezzo agli uomini. Questo riflette una concezione attiva della vita, volontaristica (si pensi alle critiche nei confronti di una interpretazione ipocrita e legalistica del riposo sabbatico, tipica del fariseismo), certo niente affatto disgiunta dalla spiritualità, ma nemmeno separata dal mondo, con il quale Gesù ha instaurato un dialogo serrato, un confronto a trecentosessanta gradi, terminato in una sfida radicale e in un drammatico scontro, da cui, tuttavia, è scaturita la Riconciliazione fra l’umano e il divino.

Per la concezione giudaica, questo è troppo: un Dio che si fa uomo, che vive e muore fra gli uomini, è, semplicemente, scandaloso; così come per i Greci è semplicemente una follia. Lo dice bene san Paolo (Prima lettera ai Corinzi, 1, 23). Dunque, ancora una volta: il cristianesimo ha operato una sintesi mirabile fra la concezione giudaica (che, infatti, lo ha respinto con indignazione) e quella greca (che lo ha accolto, ma adattandolo, in parte, ai propri presupposti culturali): sarebbe sbagliato, oltre che ingiusto, evidenziare solo una delle due radici da cui esso si è sviluppato. Certo, Gesù era ebreo: ma, se Paolo non fosse riuscito a predicarlo, con successo, fra i Giudei che vivevano nella società ellenistica, esso non avrebbe mai varcato i confini della Palestina, e, molto probabilmente, avrebbe finito per arroccarsi a difesa, rinunciando a proporsi come un messaggio di salvezza universale, ma presentandosi come il compimento del messianismo nazionale giudaico.

Pelagio, nel suo ottimismo antropologico e nella sua mancanza di senso del tragico, non vide, o non volle vedere, tutto questo; si direbbe che gli sia sfuggita la portata della sua stessa dottrina. È stata una fortuna che non sia affatto sfuggita ad Agostino, perché il cristianesimo, con Pelagio, ha corso uno dei pericoli più gravi della sua storia: quello di ridursi a semplice esortazione alla vita buona…

Fonte dell'immagine in evidenza: Image copyright © Archivio Luciano e Marco Pedicini

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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