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28 Luglio 2015Ma l’Italia è molto di più che uno Stato fra tanti: è un’idea perenne, un modello di civiltà

Se gli Italiani siano effettivamente un popolo, beninteso un popolo cosciente di sé e fiero di essere quel che è, la cosa è tuttora controversa; tuttavia, è certo che l’Italia è una nazione, e lo è, perlomeno, a partire dall’XI secolo, ossia dall’epoca dei Comuni e delle lotte che sostennero contro gli imperatori tedeschi (per difendere la loro autonomia, e non certo per conquistare l’indipendenza: concetto, quest’ultimo, che, applicato su scala municipale, avrebbe avuto comunque poco o nessun significato).
Quanto ad essere uno Stato, l’Italia non vi era mai pervenuta, neppure al tempo della Repubblica romana: lo divenne, per la prima volta, nel 1861, grazie principalmente all’abilità finissima, quasi diabolica, del conte di Cavour, primo ministro piemontese al servizio del re Vittorio Emanuele II (che però, divenuto il primo re della storia italiana dai tempi di Berengario del Friuli e Arduino d’Ivrea, significativamente non ritenne di dover assumere l’aggettivo numerale ordinale "primo", ma mantenne quello di "secondo", che già lo qualificava come re di Sardegna).
In pratica, l’Italia pervenne a costituirsi nella forma statale moderna proprio all’ultimo momento: poco prima della Germania (che però vi giunse attraverso una lunga vicenda storica assai diversa), quando gli stati-nazione come la Francia, l’Inghilterra, la Spagna e il Portogallo, già esistevano da almeno sei secoli; e quando il fenomeno del nazionalismo si stava diffondendo a livello europeo e mondiale, con effetti diversi tra i popoli che già avevano il proprio stato e quelli che — come nel caso dell’aerea balcanica e di quella carpatico-danubiana — stavano ancora lottando duramente per realizzarlo, o dovevano finire di completarlo.
Allorché il Regno d’Italia venne ad assidersi nel consesso delle potenze europee, quasi tutti, all’estero, riconobbero il suo buon diritto e salutarono la sua nascita con simpatia, alcuni con entusiasmo, quasi tutti con ammirazione per la capacità mostrata da una ristretto gruppo dirigente (parlare di classe sarebbe eccessivo) nel dare compimento ad una aspirazione secolare, tutto sommato con il minimo ricorso alla forza, e creando, praticamente dal nulla, tutte le strutture amministrative, finanziarie, produttive, militari, necessarie all’esistenza di una moderna compagine statale, delle dimensioni d’una grande nazione dell’Europa occidentale (con una popolazione, per fare qualche raffronto, solo di poco inferiore a quella della Francia o della Gran Bretagna, e già nettamente superiore a quella della Spagna).
L’Italia, insomma, dopo la sua nascita in quanto stato moderno, rappresentava un modello, e un modello di successo: ancora nel 1859 erano in pochi quelli che ci avrebbero scommesso, mentre in soli due anni il sogno si era realizzato (e senza gli eccessi che si erano visti in altri rivolgimenti politico-sociali europei), perfino nella convivenza con la Chiesa cattolica: la quale, se pure si era opposta a quel processo, e se ora ne subiva il contraccolpo, anche in termini legislativi (estensione delle leggi Siccardi, già approvate in Piemonte dal 1850, le quali, dietro l’apparenza di una semplice separazione fra Stato e Chiesa, colpivano, in realtà, e assai duramente, i beni ecclesiastici e la stessa presenza cattolica nella società civile), nel complesso, però, poté sopravvivere alla politica di un gruppo dirigente massonico e anticlericale, senza dover subire, come in Francia e nella stessa Germania (si pensi al Kulturkampf di Bismarck) una vera e propria persecuzione. E tuttavia, molti ebbero la sensazione, fin da subito, all’estero e in Italia (Carducci, ad esempio), che qualcosa, nel frattempo, fosse andato perduto, qualcosa di prezioso, di unico; ma che cosa?
Ebbene: era nato un nuovo Stato, un perfetto stato nazionale, come volevano le tendenze e le dottrine politiche del momento (dottrine e tendenze ancora in movimento, ma inarrestabili: che, di lì a poco più di mezzo secolo, avrebbero spazzato via i quattro grandi imperi d’Europa, strutturati ancora su base monarchica autoritaria, ma anche plurinazionale); il quale, però, non costituiva che una parte soltanto di ciò che l’Italia era, di ciò che l’Italia rappresentava nella coscienza dell’umanità e in quella degli Italiani stessi. Qualcosa si era smarrito per la strada: si erano smarriti l’idea, la grande idea, che l’Italia aveva significato nella storia dei popoli; il contributo ideale, semplicemente immenso, che essa aveva dato allo sviluppo del pensiero, delle arti, della poesia, della scienza, della stessa economia (italiani erano stati i primi artigiani moderni, i primi banchieri, i primi commercianti a largo raggio); per non parlare del gigantesco patrimonio spirituale che essa aveva offerto al mondo intero, e per due volte: prima, con Roma, quello giuridico; poi, con la Chiesa cattolica, quello religioso, entrambi fondamentali per la nascita dell’Europa, così come ancora oggi la conosciamo, riconoscendoci suoi figli.
L’Italia, l’idea dell’Italia, il modello rappresentato dall’Italia sotto il profilo universale, eccedevano, e di molto, di moltissimo, quel che l’Italia era divenuta, e anche quel che avrebbe potuto divenire, sia pure se avesse avuto il più favorevole sviluppo nella sua vicenda di stato nazionale (il che non accadde): insomma, l’Italia era un’idea troppo grande per essere incarnata da uno Stato fra i tanti, da un regno come ce n’erano già altri; quand’anche fosse stata più ricca della Gran Bretagna, più forte della Germania e più vasta della Russia, l’Italia, in quanto stato, sarebbe rimasta pur sempre troppo piccola rispetto a ciò che essa aveva rappresentato, nella storia d’Europa e del mondo, allorché aveva assolto, nell’arco di secoli e secoli, una altissima missione di civiltà, dunque una funzione non materiale, ma spirituale e morale. I suoi artisti, i suoi scienziati, i suoi poeti, erano stati ammirati, invidiati, imitati ovunque; i suoi papi e i suoi santi avevano dato al continente la sua fisionomia religiosa; i suoi navigatori avevano spalancato nuovi, sconfinati orizzonti, aprendo interi continenti alla penetrazione europea. E adesso questo immenso patrimonio, questa smisurata eredità, si trovavano ristretti in un regno dai confini ben precisi; il quale, benché desideroso di espandersi, quanto meno per abbracciare tutti i suoi figli e assicurarsi delle favorevoli frontiere naturali, mai avrebbe potuto riempire di sé tutta quella maestà ideale, quella sublime immagine che l’Italia aveva incarnato agli occhi del mondo, per lunghissimo tempo, quando neppure erano esistite le condizioni perché diventasse uno Stato.
Scrive il card. Giacomo Biffi nel suo libro «L’unità d’Italia» (Siena, Cantagalli, 2011, pp. 51-56):
«Nel 1877 il grande romanziere [Dostoevskij] sorprendentemente annotava:
"L’unico grande diplomatico del secolo XIX è stato Cavour e anche lui non ha pensato a tutto. Sì, egli è geniale, ha raggiunto il suo scopo, ha fatto l’unità d’Italia. Ma guardate più addentro, e che cosa vedete? L’Italia porta con sé da duemila anni un’idea grandiosa, reale, organica: l’idea di una unione generale dei popoli del mondo, che fu di Roma e poi dei papi E il popolo italiano si sente depositario di una idea universale e chi non lo sa lo intuisce. La scienza e l’arte italiana sono piene di quella idea grande. Ebbene, che cosa ha fatto il conte di Cavour? Un piccolo regno di secondo ordine, che non ha importanza mondiale, senza ambizioni, imborghesito." Il rilievo è tanto più notevole in quanto non è affatto suggerito da malanimo o da disistima verso il "Tessitore": al contrario gli si fa credito — come si vede — di una capacità politica eccezionale.
A capire adeguatamente il senso e la portata di questa citazione può essere utile e istruttivo conoscere una pagina (poco nota da noi) di un grande amico di Dostoevskij, il filosofo Valdinir Sergeevic Solov’ëv. Nella sua opera più vasta — "Opravdanie dobra" ("La giustificazione del bene") — egli così delineava, alla luce della nostra storia e della nostra cultura, la "vocazione" specifica della Nazione italiana:
"Fra tutti i popoli europei, il primo che raggiunse un0autociscienza nazionale fu l’Italia. La Lega lombarda, a metà del XII secolo, indica un evidente risveglio nazionale. Ma questa lotta estrema fu soltanto l’impulso che destò alla vita le vere forze del genio italiano. All’inizio del secolo successivo, sulle labbra di san Francesco, la neonata lingua italiana esprime già sentimenti e idee di portata universale, che sono ugualmente chiare per un buddhista e per un cristiano. Nello stesso momento sorge la pittura italiana (Cimabue), e subito dopo (all’inizio del XIV secolo) appare l’opera universale di Dante che basterebbe da sola per fare la grandezza d’Italia. In questo secolo e in quelli immediatamente successivi (fino al XVII secolo), l’Italia, proprio mentre era lacerata dalle lotte fra comuni e podestà, papa e imperatore, francesi e spagnoli, produsse tutto ciò per cui è preziosa e cara all’umanità, tutto ciò di cui possono giustamente inorgoglirsi gli italiani. Tutte queste creazioni immortali del genio filosofico e scientifico, poetico ed artistico avevano per gli altri popoli e per il mondo intero lo stesso valore che avevano per gli italiani. I creatori dell’autentica grandezza italiana erano senza dubbio alcuno dei veri patrioti e conferivano un valore grandissimo alla propria patria, ma questo non era da parte loro una vuota pretesa, tale da portare a esigenze false ed immorali: essi realizzavano effettivamente il significato supremo dell’Italia in opere di valore assoluto. Essi non ritenevano conforme a verità e bellezza affermare se stessi e la propria nazionalità, ma si affermavano direttamente nel vero e nel bello; queste opere non erano pregevoli perché glorificavano l’Italia, ma, al contrario glorificavano l’Italia perché erano pregevoli in se stesse, pregevoli per tutti. A simili condizioni, il patriottismo non ha bisogno di essere difeso e giustificato: si giustifica da sé nei fatti, manifestandosi come forza creatrice e non come una riflessione infeconda o come il "trasalimento di un pensiero ozioso". In quest’epoca rigogliosa, alla intensità dell’attività creativa corrispondeva l’ampia diffusione dell’elemento italico: in Europa i confini della sua influenza culturale erano, ad est, la Crimea e a nord-ovest la Scozia. Il primo europeo a penetrare in Mongolia e in Cina è l’italiano Marco Polo. Un altro italiano scopre il Nuovo Mondo e un terzo, estendendo questa scoperta, gli lascia il proprio nome. L’influenza della letteratura italiana resta predominante per diversi secoli; gli italiani vengono imitati nell’epica, nella lirica, nei romanzi; Shakespeare prende da loro i soggetti e la forma dei propri drammi e delle proprie commedie, le idee di Giordano Bruno risvegliano il pensiero filosofico in Inghilterra e in Germania; la lingua e i costumi italiani dominano dappertutto nelle sfere superiori della società. È ovvio che, in presenza di una così rigogliosa fioritura della creatività e dell’influenza nazionale, gli italiani non si preoccupavano minimamente di tenere l’Italia solo per sé (allora, del resto, era accessibile a chiunque la volesse). L’unica cosa che li interessava era quello che avrebbe potuti dar loro un certo valore agli occhi degli altri, quello che avrebbe conferito loro un significato universale: si preoccupavano cioè di quelle idee oggettive di bellezza e di verità che, attraverso il loro spirito nazionale, ricevevano nuove e più degne espressioni."
Alla luce di questa rassegna, ci appare tutta la superficialità e l’incongruenza storica della sentenza famosa (e universalmente lodata) di Massimo d’Azeglio: "Adesso che abbiamo fatta l’Italia, dobbiamo riuscire a dar vita agli italiani". È vero che in qualche modo si era dato origine all’Italia politica; ma agli occhi del mondo gli italiani esistevano già da almeno sette secoli e, proprio come italiani, almeno da sette secoli erano oggetto di stima e di ammirazione da parte di tutti gli altri popoli.»
In quest’ultima affermazione, forse, Giacomo Biffi esagera un tantino: non gli Italiani del tempo presente erano stimati e ammirati, ma quelli del passato, quelli del Rinascimento; e, se si va indietro nel tempo, e si leggono le cronache, si scopre che nemmeno allora, nel XVI secolo, gli Italiani erano stimati e ammirati dagli stranieri, ma lo erano soltanto i loro artisti, i loro scienziati, i loro poeti: una minuscola élite creativa, che mai s’era rivolta alla massa del popolo e che, anzi, lo aveva sempre, pur essa, disistimato e disprezzato. Piaccia o non piaccia, il genio è quasi sempre ammirato, ma quasi mai stimato, qualora non si accompagni alla forza, alla risolutezza, alla tenacia.
Il fascismo ha cercato di colmare questa lacuna, questo scarto fra l’Italia da ammirare e l’Italia da stimare; il mito dell’Impero doveva servire a questo, a realizzare la terza Italia: cioè a ridarle una rilevanza universale. Ma, errore fatale, Mussolini volle dargliela sul piano puramente politico, cosa comunque impossibile: perché una missione universale trascende, di per se stessa, la sfera politica. Lo capì Ezra Pound, invece. Ma, si sa, i poeti comprendono cose che sfuggono a tutti gli altri…
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