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La mancata difesa di Roma l’8 settembre 1943: una pagina cruciale della nostra storia

Allorché gli Alleati anglo-americani, davanti ai tira e molla del governo Badoglio, si spazientirono e alle ore 18,30 dell’8 settembre 1943 resero noto, da Radio Algeri, l’avvenuto armistizio dell’Italia (firmato, in realtà, dal generale Castellano, fin dal 3 settembre, a Cassibile, in Sicilia), Roma, come è noto, praticamente non venne difesa, e questo benché vi fossero, intorno ad essa, sei divisioni italiane, per un totale di quasi 90.000 uomini e poco meno di 400 carri armati, contro due sole divisioni tedesche, forti di non più di 25.000 uomini e meno di 150 mezzi corazzati.

Nel pomeriggio del giorno 10, dopo due soli giorni di combattimenti confusi, che non configurano nemmeno una vera e propria azione difensiva italiana, tutto era già finito e sopraggiungeva la firma della resa, alle 16,00, per conto del generale Giorgio Calvi di Bergolo, genero di Vittorio Emanuele III (perché marito della principessa Jolanda di Savoia), nelle mani del feldmaresciallo Kesselring: in pratica, Roma aveva resistito, si fa per dire, meno di 48 ore. In compenso, come è noto, il re Vittorio Emanuele III, il principe ereditario Umberto (questi, partendo assai di malavoglia) e il generale Badoglio, erano riusciti ad allontanarsi indisturbati e a raggiungere Brindisi, via Pescara, superando senza combattere alcuni posti di blocco tedeschi, e dopo che ben due divisioni italiane erano state distratte dalla difesa della capitale per posizionarsi a cavallo della Via Tiburtina, lungo il percorso della colonna di automobili in fuga.

Sul perché le cose siano andate in quel modo, sui risvolti, sui retroscena, esiste una amplissima letteratura, la quale, peraltro, non è mai giunta a delle conclusioni, non diciamo univoche, ma anche soltanto parzialmente condivise, e sia pure nelle linee essenziali di quegli avvenimenti: segno evidente di come si sia trattato di una pagina cruciale della storia italiana contemporanea e di un grande nervo scoperto, con immense conseguenze, sia politiche, sia morali, per la vita successiva della nostra nazione; e ciò tanto sul piano interno, quanto su quello della scena internazionale. Non ci sogniamo neppure, stando così le cose, di aggiungere una ulteriore interpretazione di quei fatti, e meno ancora di portarvi elementi di novità sul piano storiografico. Ci sembra tuttavia doveroso ricordare quanto sia importante che ciascun Italiano faccia i conti, per quanto sa e per quanto può, idealmente e spiritualmente, con quella vicenda solo apparentemente lontana, onde trarne le necessarie deduzioni per essere in grado di formarsi un qualsiasi giudizio ragionato sulle vicende successive, fino alla vita politica italiana dei nostri giorni: ricca, anch’essa, di misteriosi retroscena e attraversata continuamente da eventi e figure che sembrano rispondere alle logiche d’una regia occulta, mal conciliabile con quel che sappiamo, o crediamo di sapere, circa il corretto funzionamento di una società libera e democratica.

Il generale Giacomo Carboni, già commissario del S.I.M. (Servizio Informazioni Militare) dal 18 agosto del 1943, per decisione di Badoglio, ebbe, ai primi di settembre, dal generale Ambrosio, Capo di Stato Maggiore Generale, anche il comando del C.A.M. (Corpo d’Armata Motocorazzato), costituito con il preciso scopo di difendere la capitale contro i Tedeschi, nel caso — ampiamente previsto e prevedibile — che essi, all’annuncio dell’armistizio italiano, avessero tentato di occupare, per ritorsione, la capitale. Di fatto, durante quei due giorni cruciali, fra l’8 e il 10 settembre, egli fu il vero artefice della difesa, o piuttosto della mancata difesa, di Roma, anche se il comando nominale delle forze italiane era affidato al generale Mario Roatta, capo di Stato Maggiore dell’Esercito (e membro del Consiglio della Corona), carica che questi deteneva da prima della caduta di Mussolini e che aveva conservato dopo la costituzione del governo Badoglio, per ordine del quale aveva duramente represso ogni manifestazione popolare durante i 45 giorni che vanno dalla caduta del fascismo all’annuncio della resa agli Anglo-americani.

Ancor prima della fine della guerra, sia Carboni che Roatta vennero messi sotto accusa per la mancata difesa di Roma, arrestati e processati, e furono gli unici a subire tale procedimento; entrambi vennero assolti per la non sussistenza del fatto (anche se Roatta subì un pesante procedimento penale per crimini di guerra; ma anche da questo sarebbe uscito assolto): una vicenda che parve, a molti, come un maldestro tentativo di coprire le responsabilità politiche, del sovrano e non solo del sovrano, e di scaricare ogni eventuale responsabilità su una parte dei vertici militari, quelli più compromessi col regime fascista e, quindi, più facilmente "sacrificabili", nella prospettiva della nascente Italia repubblicana, ben decisa a voltare pagina e a rifarsi una dubbia verginità democratica e antifascista.

Vale la pena di riportare una pagina cruciale del libro di memorie che il generale Carboni scisse, "a caldo", come propria auto-difesa, dal titolo significativo: «L’Italia tradita, dall’armistizio alla pace» (Roma, E. D. A., 1947, pp. 78-79):

«…Secondo la "Rivista Militare" il rapporto di forze tra italiani e tedeschi il giorno 8 settembre era tale che per noi nulla vi era da fare [ma abbiamo già visto, cifre alla mano, che ciò è assolutamente falso e insostenibile: nota nostra]. Perciò il re cappò, il principe scappò, Ambrosio, Roatta e tutto lo Stato Maggiore scapparono.

È chiaro nondimeno che, quand’anche fosse provato che non vi era alcuna speranza di resistenza ai tedeschi, non era necessaria questa tumultuosa fuga di stile totalitario [sic] che aduggia oggi l’Italia e l’esercito, che nulla potrà mai giustificare e che io, SOLO, tentai con tutte le mie forze di impedire.

L’affermazione che era impossibile fare qualcosa di utile contro i tedeschi è, naturalmente, la tesi ufficiosa. Esaminiamo quale fondatezza essa abbia.

Intanto è provato che con poche munizioni, senza benzina, con l’ordine di Tivoli sulle spalle, con un capo di S. M. come il colonnello Salvi, con la notizia della fuga dei capo dilagata tra le truppe ad opera del Salvi che è oggi ancora in servizio, con una divisione traditrice in seno comandata dal genero del re [qui Carboni allude alla 136. Divisione Corazzata "Centauro", ex 1. Divisione Corazzata "M", dove "M" sta per "Mussolini", della Milizia volontaria fascista, e al fatto che il suo comandante, Calvi di Bergolo, da lui interrogato se potesse contare su quelle truppe per la difesa di Roma, si ebbe la risposta che giammai esse avrebbero preso le armi contro i Tedeschi] e con tutte le unità militari e civili della capitale che, guidate da Caviglia, trattavano pubblicamente armistizi, io in quelle tragiche condizioni di ISOLAMENTO assoluto, potei validamente resistere ai tedeschi due giorni. Senza tutti gli ostacoli elencati e con un minimo di solidarietà da parte di qualcuno, è certo che avrei potuto resistere un giorno o due di più, e in un giorno o due potevano accadere molte cose: pe es. poteva accadere che gli Americani si decidessero a tentare il promesso sbarco, magari solo dimostrativo, vicino a Roma, o si decidessero ad aiutarci con la loro aviazione.

Ho ragione di credere, oggi, che ciò avrebbe potuto avvenire.

Uno solo di questi fatti avrebbe potuto accelerare l’avanzata alleata da Salerno e modificare la situazione.

Ma, soprattutto, risultati di incalcolabile portata a noi favorevoli si sarebbero potuti avere senza la sorpresa della anticipata denuncia dell’armistizio all’8 settembre; per ciò sarebbe stato sufficiente o che noi avessimo ad Algeri un plenipotenziario coscienzioso e consapevole dei suoi doveri [questa frecciata è diretta esplicitamente contro il generale Giuseppe Castellano], o che venisse accolta la tesi da me sostenuta nel Consiglio della corona di insistere per un rinvio pochi giorni nella denuncia dell’armistizio.

In pochi giorni noi avremmo potuto completare l’arrivo delle divisomi in viaggio per la capitale, attuare un nuovo, razionale schieramento previsto per il Corpo d’Armata, raggranellare del carburante, migliorare forse il munizionamento (il Comando Supremo aveva promesso, non so con quanta serietà, di farmi avere le munizioni antiaeree e anticarro mancanti), risolvere il problema della divisione "Centauro", completare e selezionare i quadri del Comando del Corpo d’Armata; cioè avremmo potuto metterci in stato di relativa efficienza, anziché farci sorprendere in piena crisi di riordinamento e schieramento, per offrire all’esterno di Roma una resistenza di alcuni giorni all’attacco tedesco; resistenza che, ben s0intende, anche il giorno 9, avrebbe potuto assumere più ampio sviluppo e SALVARE L’ITALIA, se tutte le forze disponibili nella penisola fossero state messe in azione con l’ordine di applicare l’Op. 44 (vedere il mio libro, pag. 110-11).

Accettare l’armistizio prima di avere realizzato queste condizioni fu follia o fu viltà, e fu forse tutte e due le cose insieme.

Questa accettazione significava infatti il suicidio; con la fuga totalitaria [sic] di Pescara significò suicidio e disonore.

Occorre spiegare senza perifrasi come abbia potuto insorgere e prevalere la psicosi della paura che dominò l’animo di Castellano a Lisbona, a Cassibile e ad Algeri, che inspirò tutta la condotta del governo Badoglio e annientò l’Italia.»

Peccato che Carboni dimentichi che la decisione di Eisenhower di rendere noto l’armistizio, la sera dell’8 settembre, fu dovuta precisamente all’atteggiamento da lui assunto nei colloqui segreti avuti, la sera del 7 settembre, con il generale Maxwell D. Taylor e il colonnello William T. Gardiner, i quali si erano recati a Roma appositamente — e, si capisce, all’insaputa dei Tedeschi – per saggiare le reali intenzioni degli Italiani circa la difesa di Roma e l’eventuale aviosbarco di paracadutisti americani. A loro, Carboni, preso dal panico, aveva detto che gli era impossibile organizzare la difesa della capitale e offrire sostegno ai paracadutisti american; e, come se non bastasse, aveva chiesto un ulteriore rinvio dell’annuncio dell’armistizio. I due ufficiali americani, allora, chiesero di parlare direttamente con il maresciallo Badoglio, il quale, in buona sostanza, confermò quanto affermato da Carboni e ribadì che gli era impossibile aderire alla richiesta di un annuncio immediato dell’armistizio, sottoscritto da Castellano quattro giorni prima. Rientrati da questa missione fallimentare e informato Eisenhower, questi decise di rompere gli indugi e mettere il governo Badoglio davanti alle sue responsabilità, dando l’annuncio della resa italiana via radio, la sera del giorno 8, alle 18,30.

Strano, pertanto, che alla sera del giorno 7 Carboni si dicesse impossibilitato a difendere Roma e chiedesse ancora tempo, visto che poi, nel suo libro, sostiene che, scoppiate le ostilità con i Tedeschi, egli avrebbe potuto resistere un giorno o due di più, se solo fosse stato maggiormente sostenuto dai suoi collaboratori e dai suoi superiori; tanto più davanti alla sua affermazione che quel giorno o due in più avrebbero potuto addirittura salvare non solo Roma, ma l’Italia tutta, la sua integrità ed il suo prestigio.

Non vogliamo, peraltro, scaricare sul generale Carboni tutta la responsabilità di quel che accadde, o meglio, di quel che non accadde, all’indomani dell’8 settembre 1943; riconosciamo, anzi, che, nelle ingrate circostanze in cui egli venne a trovarsi, se non altro seppe mostrare un minimo grado di decoro e padronanza di se stesso: prima di gettare la spugna, si arrabattò da Erode a Pilato nel tentativo di ottenere sostegno dai suoi superiori, e collaborazione dai suoi sottoposti; e non fu certo tutta colpa sua se le cose, poi, andarono come sono andate. È vero che egli esagera alquanto, nelle sue memorie, i fattori sfavorevoli alla difesa di Roma: tanto per dirne una, la mancanza di benzina avrebbe potuto essere un gravissimo impedimento se ci si fosse trovati su un teatro operativo come quello di El Alamein, con lunghissime linee di rifornimento e con la necessità di operare mediante azioni ampiamente manovrate: ma era tale il caso di quelle sei divisioni concentrate intorno a Roma, a pochi chilometri dalla capitale, l’obiettivo che esse dovevano difendere? Evidentemente, non c’era il pericolo che camion e mezzi corazzati restassero con i serbatoi asciutti nel bel mezzo della battaglia, profilandosi una classica battaglia per linee interne, destinata a risolversi in uno spazio assai ristretto.

E poi, chiedersi quanti giorni potessero "resistere" 90.000 soldati italiani, per quanto demoralizzati e male equipaggiati, davanti a 25.000 tedeschi, significa davvero capovolgere i termini del ragionamento: la vera domanda avrebbe dovuto essere quanto sarebbero stati in grado di resistere gli uomini del maresciallo Kesselring, i quali, a differenza dei nostri, si trovavano a mille chilometri dai confini della loro patria, soli, attaccati da ogni parte e abbandonati dal loro ultimo alleato importante in Europa. Dopotutto, gli eserciti tedeschi erano in ritirata ormai su tutti i fronti, dalla Russia (battaglia di Kursk), all’Italia meridionale, alla lcampagna sottomarina nell’oceano (battaglia dell’Atlantico), e con l’incubo di un prossimo sbarco alleato nel nord della Francia, che teneva colà immobilizzate alcune delle migliori divisioni corazzate della Wehrmacht.

Per fare un confronto, allorché i Sovietici si avvicinarono alle frontiere della Romania, e la dittatura del maresciallo Ion Antonescu fu rovesciata, nell’agosto del 1944, l’esercito romeno effettuò il cambio di fronte con tempismo perfetto, riuscendo a preservare la capitale, Bucarest, nonché i preziosissimi pozzi petroliferi, dalla reazione tedesca; e, se questo fu possibile all’esercito romeno, non si capisce perché non avrebbe potuto esserlo anche all’esercito italiano, assai più forte (almeno sulla carta), il quale, oltretutto, aveva avuto un mese e mezzo di tempo per prepararsi a quella critica svolta: dalla fine di luglio del 1943 a tutta la prima decade di settembre.

Il fatto è, che in tutta la triste vicenda della mancata difesa di Roma, emersero i difetti tipici, e incancreniti, del sistema politico e militare italiano: difetti che il ventennio fascista, a quanto pare, aveva al massimo occultato sotto una mano di vernice, ma niente affatto eliminato; anzi, per dirla tutta, che non aveva nemmeno provato a contrastare. Gli Italiani, in gran parte, non si erano resi conto che la Seconda guerra mondiale era una guerra nazionale, nel senso più alto del termine (vale a dire, nel senso delle guerre d’indipendenza risorgimentali): pensarono che fosse una guerra fascista e che, pertanto, riguardasse non loro, ma il fascismo. Il regime fascista, da parte sua, si era illuso, il 10 giugno del 1940, che non sarebbe stato necessario combattere la guerra per davvero, ma che bastasse fingere di farla, perché tanto, ormai, era già quasi finita, e vinta: e che si trattasse, semplicemente, di acquisire il diritto di sedere al tavolo della pace, onde partecipare alla nuova spartizione del potere mondiale.

Questo difetto fondamentale, per cui la guerra non fu combattuta sul serio, nelle intenzioni dei comandi (valga per tutti il caso lampante della mancata invasione di Malta), ma, in compenso, dovettero combatterla davvero, e in condizioni svantaggiose, i soldati, gli aviatori e i marinai, fu così radicato, che si trasmise, pari pari, al governo Badoglio, dopo il 25 luglio e dopo l’8 settembre del 1943. Sia il re, sia Badoglio, pensarono che non sarebbe stato necessario combattere contro i Tedeschi, perché tanto, ormai, la guerra per essi era perduta, e che a vincerla ci avrebbero pensato i nuovi alleati: gli Anglo-americani (e i Sovietici). Solo così si spiega l’inerzia inverosimile che paralizzò l’azione di comando delle Forze Armate nei quarantacinque giorni di Badoglio, e che non solo trovò i vertici militari incredibilmente impreparate alle conseguenze dell’armistizio, ma li vide altresì brillare per la loro passività totale nel momento in cui si scatenò la rabbiosa reazione dell’ex alleato germanico.

Eppure, le Forze Armate italiane, in quel momento, non erano una entità così trascurabile come si è poi voluto far credere, onde giustificare sia la resa agli Alleati, sia la mancata difesa di Roma contro i Tedeschi e le catastrofiche conseguenze dell’8 settembre. La Marina, in particolare, era ancora un complesso temibile (e temuto dagli Alleati): non la si volle gettare nella battaglia finale, preferendo conservare le navi senza onore piuttosto che l’onore sena navi. Giusta o sbagliata, quella fu la scelta del governo Badoglio; e va bene: ma era proprio necessario ordinarle di consegnarsi, inerme, a un nemico che non l’aveva realmente battuta? Non sarebbe stato preferibile, piuttosto, scegliere l’auto-affondamento, come aveva fatto la flotta tedesca a Scapa Flow, nel giugno del 1919? Però, si obietta da parte dei soliti campioni della prudenza, gli Alleati l’avrebbero presa male, malissimo. Certo che gli Alleati l’avrebbero presa male; però è probabile che avrebbero stimato l’Italia un po’ di più. E queste cose pesarono, eccome, a guerra finita, specialmente al momento di andare al "redde rationem" del trattato di pace: perché c’è modo e modo di perdere una guerra e di chiedere un armistizio, con onore e senza onore.

Della fuga del re e di Badoglio, inutile parlare. Coloro che la difendono, e che, anzi, non vorrebbero neanche che si adoperasse la parola "fuga", nascondono la testa sotto la sabbia come gli struzzi: e mostrano, una volta di più, la tendenza dei vertici politici e militari nostrani a trincerarsi dietro ragioni legalistiche e pretestuose (assicurare la continuità del governo legittimo, evitando la cattura da parte dei Tedeschi), ignorando le questioni di sostanza: perché la sostanza è che quella fuga, in quelle condizioni, lasciando esercito e Paese senza ordini e senza direttive, fu qualcosa di peggio di un semplice atto di codardia; fu un vero e proprio tradimento.

Per il resto, povero Carboni, che dire della latitanza e della ignavia di chi avrebbe dovuto decidere, agire, rischiare il tutto per tutto, ma certo non lasciare che le cose andassero in direzione opposta a quella di cui il Paese aveva estremo bisogno? Si vide, in quei frangenti, l’eterna tendenza alla furberia, alla pusillanimità, all’opportunismo, di una intera catena di comando, cioè di una intera classe dirigente. Il re, Badoglio, Roatta, Calvi di Bergolo, Castellano, Carboni, furono gli attori mediocri, assai inferiori alla parte, di una tragicommedia meno ancora che mediocre, peraltro da gran tempo annunciata: perché alla resa e al voltafaccia politico-militare c’era chi pensava non solo dal 25 luglio del 1943, ma già fin dal 10 giugno del 1940.

Lo scaricabarile dell’8 settembre, la fuga dalle proprie responsabilità, il trincerarsi dietro la mancanza di ordini, di mezzi, di condizioni adeguate alla difesa, tutto ciò è stato solo l’effetto, non la causa della mancata difesa di Roma. La causa vera è, come abbiamo detto, che chi avrebbe dovuto, e probabilmente potuto, difendere la capitale, non è che non poté farlo, quanto, piuttosto, che non lo volle fare. Altrimenti, perché mai gli Alleati pretesero di inserire, nel Trattato di pace di Parigi del 1947, quell’ignobile articolo 16, che vietava alle autorità italiane di processare i militari e i civili italiani i quali, nel corso della guerra, e già fino dal suo inizio, avevano favorito la causa alleata, vale a dire che avevano tradito la propria patria, la propria bandiera, i propri commilitoni e i propri connazionali?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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