
«Ha sete di Dio l’anima mia!»
28 Luglio 2015
Erminia «fra le ombrose piante» è figura d’una segreta voluttà di soffrire
28 Luglio 2015Oggi la maggior parte degli storici, a differenza di quel che accadeva una o due generazioni fa, si è resa pienamente conto di quel che ha significato l’innestarsi della Rivoluzione russa — anzi, delle DUE rivoluzioni russe del 1917 — sul corpo della Prima guerra mondiale: l’inizio di una nuova fase della guerra stessa, oltre che della politica mondiale, la fase, appunto, caratterizzata dallo scontro fra marxismo e democrazia liberale.
Quello che pochi storici, ancora oggi, mostrano di avere compreso — con alcune notevoli eccezioni, fra cui l’ottimo Hans-Hermann Hoppe — è che, sempre nel 1917, la guerra e la politica mondiale subirono una ulteriore, smisurata amplificazione: quella fra l’idea dinastica dello Stato — rappresentata specialmente dagli imperi "autoritari" e "militaristi" di Germania, Austria-Ungheria, Russia e Turchia — e l’idea democratica e parlamentare, rappresentata, oltre che dalla Francia e dalla Gran Bretagna, specialmente dagli Stati Uniti d’America, i quali, appunto, entrarono in guerra in quell’anno, proprio mentre l’Impero zarista — imbarazzante alleato dell’Intesa "democratica" ne usciva per sempre.
In effetti, gli Stati Uniti si erano messi sulla via dell’esportazione violenta del proprio sistema di governo democratico, ritenuto il migliore del mondo, anzi, l’unico degno di una azione civile, fin dal 1861, allorché avevano scelto la via della guerra civile per venire a capo del contrasto con gli Stati del Sud — una via che il "magnanimo" Lincoln, tanto amato ed esaltato da tutte le anime belle della democrazia internazionale, aveva imboccato senza troppi rimorsi, cogliendo il pretesto del bombardamento di Fort Sumter, sfruttando il vantaggio morale — come poi sempre faranno i successivi governo americani — di alzare la bandiera di una causa etica — in quel caso, l’abolizione della schiavitù — per dissimulare le ragioni meno nobili, specialmente d’ordine economico, che rendevano improrogabile l’opzione militare.
Negli anni tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento la democrazia americana aveva sfruttato ogni possibile occasione per ergersi a paladina delle buone cause contro tirannia, oppressione e schiavismo: valga per tutti la guerra, freddamente pianificata, ma fatta scoppiare, ad arte, nelle condizioni propagandistiche più favorevoli, con gran soddisfazione sia dei piantatori di zucchero statunitensi, infastiditi dalla concorrenza dello zucchero cubano, sia delle anime belle che , leggendo la stampa scandalistica del gruppo Hearst, si era indignata,m commossa e infervorata per la causa dell’indipendenza di Cuba contro le atrocità spagnole — una replica dei caramellosi sentimenti di indignazione, commozione e fuoco sacro che aveva destato, qualche decennio prima, la lettura de «La capanna dello zio Tom» di Harriet Beecher-Stowe. Se a tutto ciò si aggiungeva, poi, il sacro dovere di vendicare i morti della corazzata «Maine»m sui capisce come il cocktail interventista anti-spagnolo, nel 1898, fosse semplicemente perfetto.
E, se si volesse risalire ancora più indietro nel tempo, si potrebbe arrivare alla guerra scatenata dai Texani contro il Messico, al grido di «Ricordatevi di Alamo!»; così come, se si volesse procedere innanzi, si finirebbe per imbattersi in diversi moniti al ricordo: «Ricordatevi del "Lusitania"», per giustificare l’intervento nella prima guerra mondiale (contro le promesse iniziali di Wilson al proprio elettorato); «Ricordatevi di Pearl Harbor», per giustificare l’intervento nella Seconda guerra mondiale (di nuovo, contro le promesse elettorali di Roosevelt, tutte ispirate alla neutralità e all’isolazionismo); per giungere, infine, al fatidico: «Ricordatevi dell’11 settembre 2001», che giustifica la crociata permanente degli Stati Uniti contro il "terrorismo", qualunque cosa ciò significhi e in qualunque parte del mondo, o in qualsiasi momento, le circostanze possano rendere necessario un intervento politico, militare, spionistico o di qualunque altro genere.
Ma torniamo alla Prima guerra mondiale. Nel 1914 la vecchia Europa era ancora, in gran parte, costituita di monarchie: tutte (salvo eccezioni, come la Serbia) antiche di alcuni secoli, e poche delle quali, o, per meglio dire, una sola delle quali: la Gran Bretagna — erano effettivamente di tipo costituzionale; in tutte le altre, Germania, Austria-Ungheria e specialmente Russia in testa, il regime parlamentare era fragile e incerto e le decisioni cruciali per la vita dello Stato erano prese, di fatto, dal sovrano, che si consultava solo con una ristretta cerchia di ministri e generali. Questa situazione, dal punto di vista americano, era intollerabile: gli Stati Uniti non potevano tollerare una simile "barbarie"; non potevano permettere che pochi sovrani altezzosi avessero in pugno — così la vedevano loro — i destini di un continente e, forse, del mondo; semplicemente, non era ammissibile, dal loro punto di vista, che la democrazia "yankee" fosse costretta a coesistere con monarchie "reazionarie", come gli Hoehenzollern, gli Asburgo e i Romanov, che si erano macchiate di crimini imperdonabili contro i "diritti" dell’uomo e del cittadino.
Per l’americano medio, per la stampa che quotidianamente lo informava (o lo disinformava, secondo come si giudichi), nessun altro regime politico, tranne quello democratico, era all’altezza del compito di assicurare pace e giustizia al genere umano; la sola esistenza di un paio di sovrani con l’elmo a chiodo rappresentava una sfida a ciò che essi ritenevano politicamente corretto e, dunque, qualcosa che andava eliminato, perché causa di conflitti e di contrasti insuperabili. Tutto l’atteggiamento di Woodrow Wilson, sia quando lanciò i Quattordici punti, facendone lo scopo di guerra del proprio Paese (e imponendolo, in certo qual modo, agli alleati dell’Intesa), sia durante la Conferenza di Versailles, rivela la presunzione, al tempo stesso ingenua e arrogante, del professore imbottito buone intenzioni, pregiudizi filantropici, teorie liberali e umanitarie, che pretende di fare lezione a coloro i quali vivono i conflitti dell’Europa sulla propria pelle, e che — a differenza degli Statunitensi — hanno già dovuto sopportare quattro anni e mezzo di devastazioni e sacrifici inenarrabili.
Wilson, inoltre, era un convinto sostenitore del radicalismo di matrice illuminista e, partendo dall’assunto di aver operato una preventiva separazione fra il Male, rappresentato dai paesi sconfitti, e il Bene, che, guarda caso, era quello dei Paesi usciti vincitori dal conflitto, nonché dal preconcetto, ancora più pericoloso, di una bontà originaria degli uomini e dei popoli, frutto di un miscuglio alquanto pasticciato fra l’ottimismo antropologico di Rousseau e il pensiero democratico di Mazzini, si circondò di uomini politici materializzatisi dal nulla, come il boemo Masaryk e il croato Supilo, a loro volta ispirati da un nazionalismo massonico e da un odio anti-asburgico tanto cieco quanto inveterato, si mise a ridisegnare la carta d’Europa con una dose quasi inconcepibile di faciloneria accademica, come si fosse trattato di una esercitazione a tavolino, e, quel che è peggio, impostò le questioni politiche e nazionali partendo da una serie di semplificazioni mentali che resero la sua azione tanto velleitaria quanto goffa e seminatrice di ulteriori discordie.
Basti dire che, tramite le richieste di Masaryk, Supilo e altri, le potenze alleate decisero, alla Conferenza di Versailles, di creare due Stati nuovi di zecca, la Cecoslovacchia e la Jugoslavia, dei quali nessuno aveva mai sentito parlare prima di allora e rispetto ai quali, nel 1914, nessuno, o quasi, avrebbe immaginato che avrebbero potuto divenire realtà: e che di fatto erano quanto di più artificioso, antistorico e assurdo si potesse immaginare, se realmente si voleva dare una sistemazione durevolmente pacifica all’area geopolitica carpatico-danubiana e balcanica. La lor natura artificiale e inconsistente si sarebbe pienamente rivelata solo negli anni Novanta del secolo XX, in maniera pacifica per la Cecoslovacchia, e in maniera tragicamente sanguinosa per la Jugoslavia: il fatto che la loro dissoluzione sia stata differita di alcuni decenni non è dipeso da altro che dall’irrigidimento, interno e internazionale, dei Paesi dell’Europa centro-orientale, in seguito alla nascita e al consolidamento della Cortina di Ferro.
Il grido di guerra di Giuseppe Mazzini, «Austria delenda est», giunse così a realizzarsi per merito dei circoli massonici francesi e di un borioso presidente americano che, circondato da consiglieri ignoranti o interessati, vollero far sparire dalla carta geografica l’Impero austro-ungarico, da essi identificato come il principale fattore di ritardo e d’instabilità nella storia europea (mentre una conoscenza anche superficiale della storia del Vecchio continente avrebbe dovuto palesare loro l’esatto contrario d’una simile tesi). Il fatto è che Mazzini si era formato le sue idee, irriducibilmente avverse all’Impero austriaco, al tempo di Metternich e della Santa Alleanza; e l’Austria effettivamente, nella prima metà del XIX secolo, svolse il ruolo di principale potenza conservatrice europea; ma l’Austria del 1914 era un’altra cosa: dopo il compromesso del 1867 con l’Ungheria, essa rappresentava un esperimento, riuscito e invidiabile, di convivenza e di coesione interna in uno Stato che, secondo le teorie democratico-liberali, non avrebbe nemmeno dovuto esistere, perché non poggiava sul principio nazionale (di nazionalità, in esso, ve n’erano almeno dieci), ma quasi unicamente sull’esercito, sulla buona amministrazione e, per ultimo ma non da ultimo, sul sentimento di fedeltà dei sudditi nei confronti della monarchia e dei valori che essa, comunque, incarnava.
Hans-Hermann Hoppe, già ricordato, non è uno studioso "reazionario"; è, semmai, un libertario: secondo lui, i sistemi democratici fin qui sperimentati nella storia contemporanea hanno fallito clamorosamente la prova, non già per eccesso, ma per difetto di garanzie liberali nei confronti dei cittadini; punto di vista tanto più notevole, appunto perché non si presta a facili strumentalizzazioni, allorché egli svolge una critica serrata, ma ineccepibile, alla pretesa dell’ideologia democratica di convertire il mondo, presentandosi da se stessa come la migliore possibile. Egli giustamente individua nel 1917 — non nelle rivoluzioni russe, ma nell’intervento americano nella Prima guerra mondiale — il momento di svolta, a partire dal quale inizia la crociata democratica mondiale per la conversione del mondo intero, crociata tutt’ora in corso (anche se non adopera questo termine, del quale ci assumiamo la responsabilità, convinti come siamo di non tradire o forzare in alcun modo, con ciò, il pensiero dell’Autore).
Scrive, dunque, Hans-Hermann Hoppe, in «Democrazia: il dio che ha fallito» (titolo originale: «The God That Failed», Transaction Publishers, 2001; traduzione italiana di Alberto Mingardi, Macerata, Liberilibri, 2005, pp. 5.8):
La prima guerra mondiale è uno dei grandi spartiacque della storia moderna. Con la sua fine si completa la trasformazione del mondo occidentale, da realtà retta da monarchie e sovrani, a mosaico di repubbliche democratiche fondate sulla sovranità popolare. Prima del 1914, c’erano in Europa soltanto tre repubbliche – la Francia, la Svizzera e, dal 1911, il Portogallo; e di tutte le maggiori monarchie europee, soltanto il Regno Unito poteva essere considerato una monarchia parlamentare, nella quale cioè il potere supremo risiedeva in un parlamento eletto. Solo quattro anni più tardi, dopo che gli Stati Uniti furono entrati nella guerra europea, e ne ebbero determinato l’esito in maniera decisiva, tutte le monarchie avrebbero finito per scomparire, e l’Europa assieme al mondo interro sarebbe entrata nell’era del repubblicanesimo democratico.
In Europa, gli Hohenzollern, o Romanov e gli Asburgo, sconfitti militarmente, dovettero abdicare o furono spodestati, e la Russia, la Germania e l’Austria divennero repubbliche democratiche a suffragio universale (maschile e femminile) e governo parlamentare. Analogamente, tutti gli Stati di fresca creazione, con la sola eccezione della Iugoslavia, adottarono costituzioni democratiche e repubblicane. In Turchia e in Grecia, le monarchie vennero rovesciate. E anche in quei paesi nei quali le monarchie continuarono ad esistere nominalmente, come Gran Bretagna, Italia, Spagna, Belgio, Paesi Bassi e paesi scandinavi, i monarchi non potevano più esercitare alcun potere di governo. Venne introdotto il suffragio universale, e tutto il potere di governare fu concesso ai parlamenti e ai funzionari "pubblici".
La trasformazione storica di portata mondiale, dall’ancien régime basato sul governo di re e principi alla nuova epoca democratica coi suoi governanti eletti dal popolo, potrebbe essere anche letta come il passaggio dall’Austria e dalla "via austriaca" all’America e alla "via americana". è così per varie ragioni. Anzitutto, è stata l’Austria a dare inizio alla guerra, e l’America a concluderla. L’Austria ha perso, l’America ha vinto. L’Austria era comandata da un monarca – l’imperatore Francesco Giuseppe – l’America da un presidente democraticamente eletto – il professor Woodrow Wilson. Ancor più importante, tuttavia, la Prima guerra mondiale non è stata una guerra tradizionale, combattuta per obiettivi territoriali, ma per un obiettivo ideologico: e l’Austria e l’America erano (ed erano percepite come tali dalle parti in causa) i due paesi che incarnavano più chiaramente le idee in conflitto l’una con l’altra.
La Prima guerra mondiale ebbe inizio come una disputa territoriale vecchio stile. Tuttavia, dapprima per il coinvolgimento e poi con l’entrata ufficiale degli Stati Uniti, la guerra assunse una nuova dimensione spiccatamente ideologica. Gli Stati Uniti nacquero come repubblica, e il principio democratico, inerente nella stessa idea repubblicana,m era stato solo da poco portato alla ribalta come risultato della vittoria violenta sulla Confederazione e della sua devastazione da parte del governo centralistico dell’Unione. All’epoca della Prima guerra mondiale, questa trionfante ideologia di un repubblicanesimo democratico espansionista trovò la sua vera e propria personificazione nell’allora presidente americano Wilson. Sotto l’amministrazione Wilson, l guerra europea divenne una missione ideologica – rendere il mondo sicuro per la democrazia e liberarlo dai regnanti dinastici. Quando nel marzo 1917 lo zar Nicola II fu costretto ad abdicare e un nuovo governi democratico-repubblicano fu varato in Russia con Kerensky, Wilson ne fu inebriato. Una volta che se ne fu andato lo zar, la guerra divenne un conflitto puramernte ideologico: il bene contro il male. Wilson e i suoi più vicini consiglieri di politica estera, George D. Herron e il colonnello House, non amavano la Germania del Kaiser, l’aristocrazia e l’élite militare, ma, in particolar modo, essi odiavano l’Austria. Così Erik von Kuehnelt-Leddihn ha descritto la visione di Wilson e della sinistra americana: "L’Austria era assai più malvagia della Germania. Essa esisteva in contraddizione con il principio mazziniano dello Stato nazionale, aveva ereditato molte tradizioni così come pure molti simboli (l’aquila bicipite, i colori nero ed oro…) dal Sacro Romano Impero, la sua dinastia un tempo aveva comandato la Spagna (un’altra bête-noire), essa aveva guidato la Contro-riforma, era stata a capo della Santa Alleanza, aveva combattuto contro il Risorgimento, soppresso la ribellione magiara sotto Kossuth (che ha ora un monumento a New York) e sostenuto moralmente l’esperimento monarchico in Messico. Lo stesso nome Asburgo evocava memorie del cattolicesimo romano, l’Armada, l’Inquisizione, Metternich, Lafayette imprigionato ad Olmütz, e Silvio Pellico nella fortezza dello Spielberg a Brünn. Uno Stato simile doveva essere frantumato, una dinastia simile doveva scomparire."
Come conflitto motivato vieppiù dall’ideologia, la guerra degnerò in fretta in guerra totale. Ovunque, l’economia nazionale venne completamente militarizzata (socialismo di guerra) e la distinzione, in precedenza onorata, fra combattenti e non combattenti, vita militare e vita civile si perse per strada. Per questa ragione, la Prima guerra mondiale ebbe come risultato molte più vittime civili (vittime della malattia e della fame) di quanti fossero stati i soldati caduti sul campo di battaglia. Inoltre, a causa del carattere ideologico della guerra, ala sua fine non si ebbe una pace di compromesso ma soltanto una resa totale, umiliazione, e punizione qualora fosse possibile. La Germania dovette rinunciare alla sua monarchia, e l’Alsazia-Lorena venne restituita alla Francia, cui apparteneva prima della guerra franco-prussiana del 1870-71. La nuova repubblica tedesca fu caricata del peso di immani riparazioni a lungo termine. La Germania fu demilitarizzata, la Saar occupata dai francesi, e i territori dell’est (la Prussia occidentale e la Slesia) dovettero essere ceduti in larga parte alla Polonia. Ad ogni modo, la Germania non fu smembrata e distrutta. Wilson aveva riservato questo destino all’Austria. Con la deposizione degli Asburgo l’intero impero austro-ungarico fu smembrato. Come supremo successo della politica estera wilsoniana, due nuove nazioni artificiali, la Cecoslovacchia e la Iugoslavia, vennero ricavate dall’ex impero. La stessa Austria, per secoli una delle grandi potenze europee, fu ridotta alla sua zona centrale tedesca; e, altra eredità di Wilson, la minuscola Austria fu costretta a cedere tutta la sua provincia del Sud Tirolo – fino al passo del Brennero — all’Italia.
Dal 1918, l’Austria è scomparsa dalla mappa politica delle grandi potenze. Invece, gli Stati Uniti sono emersi come la potenza-guida del globo. L’era americana – la pax americana – aveva avuto inizio. Il principio del repubblicanesimo democratico aveva trionfato. Avrebbe trionfato di nuovo alla fine della Seconda guerra mondiale e ancora di più, o così sembrava, con il collasso dell’impero sovietico a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta. Per alcuni osservatori contemporanei, era giunta la "Fine della storia". L’idea americana di democrazia universale e globale si era finalmente realizzata.
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