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29 Luglio 2015La parola "civiltà", come è noto, deriva dal latino "civilitas", che, a sua volta, deriva da "civis", il cittadino, e da "civitas", la città. Essendo i modi del cittadino più raffinati di quelli del contadino, vi era una esplicita o implicita contrapposizione fra la "civilitas" del cittadino e la "rusticitas" del contadino, oltre che una auto-promozione ideologica della forma di governo tipicamente cittadina, ossia la democrazia (sia nella versione della "polis" greca, sia nella Roma repubblicana), rispetto alla organizzazione autarchica delle comunità rurali, basata sull’individualismo.
L’uomo antico, peraltro — sia il greco che il romano — non giunse mai al disprezzo della vita rurale, vista anche, e sia pure letterariamente (e cioè come luogo dell’evasione e dell’"otium"), come moralmente superiore a quella urbana: e questo soprattutto in Occidente, ove più rare erano le grandi città e prevalente l’economia agraria, anche durante l’Impero romano; meno in Oriente, dove la tradizione urbana era più antica (Antiochia, Alessandria, Pergamo, ecc.) e l’economia prevalentemente commerciale e industriale.
L’intellettuale romano, come Cicerone o come Orazio, sognava la villa in campagna; il poeta "tipico", come Tibullo, non viveva che per essa; e Virgilio vede nel ritorno alla vita dei campi, conformemente all’ideologia della restaurazione augustea, la via per una rigenerazione spirituale, oltre che materiale, dello Stato. L’atteggiamento dell’intellettuale greco o ellenizzato è più "cittadino", meno romantico nei confronti della campagna, però anch’esso sente il fascino e la nostalgia della vita campestre, e si abbandona volentieri, come Teocrito, al sogno bucolico di una vita semplice e serena, all’ombra dei boschi e in compagnia delle greggi.
Durante l’Alto Medioevo, almeno in Europa occidentale, la caduta verticale della vita urbana e lo spostarsi dei centri culturali dalle città, ormai semi-abbandonate, ai conventi, attenua di molto la tradizionale contrapposizione fra città e campagna; il mondo feudale è un mondo essenzialmente rurale, e il castello, sede del nuovo potere politico, non sorge, almeno all’inizio, presso le città, ma su un colle o uno sperone roccioso, a dominare le valli e le vie di comunicazione. E, in un mondo quasi interamente rurale, ha poco senso fare l’elogio della vita rurale; mentre farne la satira sarebbe semplicemente assurdo.
La contrapposizione riaffiora, e stavolta in maniera sempre più netta e tagliente, come conseguenza del fenomeno comunale. Il rifiorire delle città in Itali,a e in alcune altre regioni dell’Europa occidentale, coincide con il tramonto delle corti feudali e con il sorgere delle prime università: la cultura si sposta definitivamente dai monasteri alle città, si urbanizza in maniera radicale, e per l’abitante della campagna, il "villano", il "cafone", non restano che l’ironia e il disprezzo, come si vede negli scrittori e specialmente nei novellieri del Trecento e del Quattrocento, a partire dal «Decameron» di Giovanni Boccaccio, e poi, mano a mano, con gli altri scrittori "cittadini", raffinati e schifiltosi nei confronti del mondo rurale, come lo è Lorenzo il Magnifico nella parodistica «Nencia da Barberino».
A partire dall’Umanesimo e dal Rinascimento, quel che resta della campagna, nella ideologia cittadina, è solo una creazione letteraria: il "locus amoenus", erede dei versi di Teocrito e di Virgilio, e poi di Sannazaro e di Tasso; per la realtà concreta del mondo rurale — che pure ospita la stragrande maggioranza degli abitanti d’Europa, Italia compresa — non vi sono che ironia o indifferenza, come se quel mondo non avesse alcuna importanza. In regime comunale, i "villani" sono soggetti politici di serie B, perché devono sottostare alle leggi (e alle tasse) della città, ma senza godere i vantaggi della rappresentanza politica: pagano, ma non contano.
Sarà solo con l’avvento delle monarchie nazionali che i contadini, come del resto le plebi urbane, troveranno un certo qual riconoscimento in funzione anti-nobiliare: ed ecco che il re di Francia, o il re d’Inghilterra, si presentano come i difensori del "buon popolo" contro le angherie e le prepotenze dell’aristocrazia feudale, dei baroni, dei "signori": solo dai rappresentanti del re essi possono sperare di ricevere una qualche forma di protezione, o fare appello alla loro giustizia in presenza di patenti sopraffazioni. Si tratta in gran parte di un mito ideologico, costruito a tavolino in funzione anti-nobiliare: se lo sceriffo di Sherwood è avido e spietato, ciò non avviene per volontà del "buon" re, che non ne sa nulla; dunque, anche la rivolta di Robin Hood non è diretta contro la monarchia, ma contro la rapacità di funzionari corrotti e arroganti.
Sia come sia, fino a tutto il Rinascimento ed al secolo XVII, la parola "civiltà" designa ancora, prevalentemente, l’insieme dei modi di vita cittadini, caratterizzati dalle buone maniere. È solo con l’Illuminismo, e precisamente con il filosofo ed economista Anne Robert Jacques Turgot (Parigi, 1727-ivi, 1781), vicino alla corrente dei fisiocratici (cfr. il nostro articolo «La negazione della storia è il difetto essenziale del sistema fisiocratico di Quesnay», pubblicato sul giornale informatico «Il Corriere delle Regioni» in data 13/06/2015), che la parola "civiltà" ("civilisation") comincia a designare esplicitamente l’insieme dei caratteri, dei valori, degli elementi, che contraddistinguono una certa cultura umana e la differenziano dalle altre, con una certa quale sfumatura di superiorità rispetto ad alte forme di organizzazione sociale e culturale, ritenute "inferiori". L’atteggiamento di superiorità era antico: lo troviamo nei Greci rispetto ai "barbari", nei "conquistadores" rispetto agli indios (pur con qualche eccezione, come nel caso della riflessione di Montaigne sui "primitivi" del Nuovo Mondo (cfr. il nostro articolo «Michel de Montaigne e il cannibale felice», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 13/12/2007). Però è solo con l’Illuminismo che tale atteggiamento diventa il supporto di una ulteriore ideologia: non solo della superiorità di una cultura rispetto a un’altra, ma della "civiltà" in se stessa, intesa come l’insieme dei valori che non sono tali in quanto identificano un popolo o uno stato, ma in quanto identificano un modo di vivere e di pensare, indipendentemente da chi lo pratica. Evidente tautologia: civiltà, dunque superiorità.
In questa nuova prospettiva, "civile" e "incivile" diventano i due poli di una dialettica antagonista ed esclusivista: dove c’è l’uno, non può esserci l’altro; essi lottano per sopraffarsi, e la Ragione, è ovvio, insieme al Progresso, sta dalla parte della civiltà, dal momento che quest’ultima comprende la tolleranza, la libertà, i diritti e tutto ciò che costituisce il bagaglio ideologico irrinunciabile della modernità (per cui "civile" diventa anche sinonimo di "moderno" e di "progredito"). È questo che rende nuovo e diverso il genocidio degli Amerindi da parte dei bianchi, specialmente nel Nord America (non ad opera dei feroci "conquistadores", dunque, ma dei "pacifici" coloni anglosassoni, probi, onesti, lavoratori, timorati di Dio e perciò armati di Bibbia e di fucile): il fatto che è stato giustificato in nome della civiltà; e la stessa cosa è avvenuta in Argentina, negli stessi anni, ai danni delle popolazioni indigene stanziate a sud del Rio Negro. Dove la civiltà avanza, non c’è posto per la barbarie. I barbari difficilmente possono essere assimilati, dunque è meglio sterminarli: l’unico indiano buono è quello morto.
Osservava il saggista Henri Kubnick nel suo saggio «La grande paura dell’anno 2000. L’Apocalisse prossima ventura» (titolo originale: «La grande peur de l’an 2000», Paris, Éditions Albin Michel, 1974; traduzione dal francese di Silvana Pintozzi, Firenze, Vallecchi Editore, 1976, pp. 161-63):
«Nell’antichità, i filosofi stoici, le cui dottrine, insegnate ad Atene da Zenone di Cipro, conquisteranno Roma attraverso Seneca, Epitteto e l’imperatore Marco Aurelio, pensavano che il mondo, generato nel fuoco, sarebbe perito nel fuoco "sia nelle sue parti che nel tutto" e che sarebbe stato distrutto dallo stesso fuoco che l’aveva originato. Si sarebbero avuti, così, molti periodi cosmici e nel corso di ognuno di questi l’universo intero sarebbe andato a fuoco e poi si sarebbe raffreddato permettendo ai due elementi acqua e terra di separarsi (l’aria era frutto dell’evaporazione dell’acqua). L’unione degli elementi avrebbe dato origine alle piante e agli animali. Dopo un certo tempo, l’aria, rarefacendosi,si sarebbe riconvertita in fuoco provocando un amalgama universale, e tutti darebbe ricominciato. Gli stoici avevano calcolato anche la durata di ciascun periodo cosmico: doveva essere di 365 volte 18.000 anni. All’interno di ogni periodo, tutti i fenomeni della vita si concatenavano secondo un ordine quasi immutabile. Riprendendo un’immagine del filosofo Eraclito, gli stoici (che spesso si richiamavano anche a Socrate, Platone Aristotele, facendosene un vanto: più teste pensano, più idee ci sono) — riprendendo, dunque, quest’immagine: "Acque sempre nuove formano fiumi sempre uguali" — dimostravano che l’evoluzione degli uomini e delle società riproduceva all’infinto "le stesse fasi identiche nell’annientamento e nei ritorni periodici". […]
Essi non parlavano ancora di "civiltà" e d’altronde non se ne sarebbe parlato ancora per moltissimi secoli. La parola "civiltà", infatti, che oggi è su tutte le bocche, in tutti i libri e in tutte le trasmissioni radiotelevisive, questa parola sulla quale si continuano a far studi, rapporti, discussioni, che suscita entusiasmi o odî appassionati, che ha scatenato guerre economiche, ideologiche e che, forse, ci trascinerà verso la catastrofe finale, questa parola — pensate un po’ — è relativamente recente. Era quasi sconosciuta fino alla metà del XVIII secolo. A quanto pare è stato Turgot uno dei primi ad usarla, molto prima di diventare ministro. Nei suoi "Pensée et Fragments"è contenuta questa frase scritta nel 1752: "All’inizio della civiltà…". Questa parola ("civilisation") figurerà nel dizionario del’Accademia francese solo a partire dall’edizione del 1835 e, dice Littré, "è largamente usata solo dagli scrittori moderni, da quando l’opinione pubblica ha appuntato la sua attenzione sullo sviluppo della storia". Lo stesso Littré, nel suo dizionario pubblicato nel 1877, dà una definizione un po’ truffaldina del termine civiltà: "Insieme di opinioni e di costumi che risulta dall’azione reciproca delle arti industriali, della religione, delle belle arti e delle scienze". Il Petit Larousse è più chiaro e più elegante nella sua concisione: "Insieme dei caratteri comuni alle civiltà evolute". Il Quillet-Flammarion è più preciso: "La civiltà comprende le relazioni sociali, le condizioni materiali, intellettuali, morali, il godimento della libertà".»
In questa nuova accezione del termine "civiltà", anche la dialettica città-campagna entra in una nuova fase, che prosegue ancora oggi. Da un lato, la campagna si va urbanizzando e l’agricoltura si va meccanizzando e industrializzando; dall’altro, la cultura contadina scompare, insieme alle sue manifestazioni esteriori, come il dialetto, e interiori, come la dimensione religiosa. E tale scomparsa viene passata sotto silenzio; quasi nessun intellettuale se ne accorge, perché, in fondo, non si tratta di una morte naturale, ma di un assassinio, che, d’altra parte, è reso inevitabile dall’avanzata del progresso: dunque, perché girare il coltello nella piaga? Meglio voltare la testa dall’altra parte, e far finta di nulla; o rispolverare, di nuovo, il mito consolatorio di una natura "amica" e "bucolica" (Carducci, Pascoli), come se la letteratura potesse compensare o risarcire l’assenza di vita.
Nel silenzio assordante degli intellettuali "moderni", il dramma si consuma nel volgere di neppure una generazione. Se Strapaese, ancora negli anni Trenta del ‘900, poteva tenere alta la bandiera del mondo rurale contro l’invasione della civiltà urbana; se in Romania, ancora negli stessi anni, movimenti come il seminatorismo e scrittori come Sadoveanu conducevano la stessa battaglia, e Cezar Petrerscu, in romanzi come «Calea Victoriei», lanciava lo stesso grido d’allarme, a partire dalla seconda metà del XX secolo è ormai tutto finito. Resta qualche voce isolata — Fernando Camon, Eugenio Corti — ma si tratta, ormai, soltanto di ricordare: la civiltà contadina è morta; ed è morta, in primo luogo, perché non è stata riconosciuta come tale, né difesa come tale, ossia in quanto "civiltà". E i primi a non averla riconosciuta e a non averla difesa, sono stati i contadini stessi; sedotti, o costretti, dalle leggi spietate dell’economia, a introdurre nelle coltivazioni dei prodotti chimici sempre più invasivi, sempre più inquinanti, essi hanno sacrificato l’essenza di quella civiltà: il rapporto naturale con la terra, e il fatto di non vedere la vita solo come la risultante di fattori materiali tendenti al conseguimento del massimo profitto.
La Chiesa cattolica ha visto il pericolo, ma non ha potuto far fronte al diluvio: a partire da Leone XIII, essa si è perfettamente resa conto che il dilagare totalitario della civiltà industriale (ma merita, questa, il nome di "civiltà"? ha prodotto, essa, una "cultura"?) avrebbe spazzato via non solo i modi di sentire, di pensare, di vivere pre-moderni, espressione del mondo rurale, ma che li avrebbe anche squalificati, appunto in nome del "progresso" e della "civiltà", intesi sempre e solo come il binomio città-industria. La fuga dai campi, lo spopolamento dei paesi e l’inurbamento selvaggio, partono da lì. In questo modo, però, i popoli perdono la loro anima, così come le famiglie e i singoli individui…
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